La verità è reato

Cittoggi_1Sempre per riflettere sul ruolo dell’informazione con l’avvocato Oreste Flamminii Minuto, ripubblichiamo un suo articolo apparso su L’Espresso il 6 luglio 2006.
Stampa e inchieste. Torna la voglia di censura. Ma l’informazione è un diritto dei cittadini. Parola di avvocato

Oreste Flamminii Minuto. L’ennesimo, inutile dibattito che si svolgerà il 4 luglio con la presenza del ministro della Giustizia Clemente Mastella verterà sui soliti stucchevoli temi: galera per i giornalisti che violano il segreto di indagine? Sanzioni comunque per gli stessi giornalisti per violazione del principio di “essenzialità” delle informazioni? Lasciare le cose come sono proibendo solo la pubblicazione delle intercettazioni? Abrogare il principio di desegretazione progressiva degli atti del processo penale e ristabilire tout court il vecchio regime che tutelava il segreto istruttorio del vecchio codice fino all’apertura del dibattimento? A tutte queste domande da oltre dieci anni si danno risposte che si limitano al “sì” o al “no”, quasi fosse una risposta referendaria, senza minimamente affrontare il problema relativo al ruolo dell’informazione in una democrazia avanzata e pluralista. Per capire di cosa si tratta, è opportuno ricordare a chi ci governa, a chi ci rappresenta e – perché no – agli uomini di cultura del nostro paese che fanno in realtà la professione di “convegnisti a vita”, cosa accadde negli Stati Uniti, quando l’analista della Cia Daniel Ellsberg nel 1971, “per fatto di coscienza”, passò le Carte del Pentagono al “New York Times” e al “Washington Post”. Per coloro che partecipano a questi dibattiti, senza evidentemente sapere di cosa si stia parlando, la vicenda di Ellsberg potrebbe essere foriera di riflessione. Questo Ellsberg aveva pazientemente fotocopiato 47 faldoni di documenti che rivelavano come l’incidente del Golfo del Tonchino non si fosse mai verificato e la sua falsa costruzione era stata il pretesto per l’intervento armato Usa in Vietnam. Il senatore Fullbright, capo dell’opposizione democratica, al quale Ellsberg aveva portato quei documenti, disse che non poteva utilizzarli al Congresso in quanto la rivelazione contenuta in quelle carte poteva incriminarlo per alto tradimento, dato lo stato di guerra in vigore.

A Ellsberg non rimase altro che rivolgersi alla stampa. La direzione del “New York Times” discusse a lungo. A chi sosteneva che l’opinione pubblica aveva il diritto di “conoscere” si contrapponeva chi affermava che in quel momento si doveva essere solidali con il governo impegnato in una guerra. Prevalse l’opinione di chi voleva pubblicare e il giornale avviò le rotative preannunciando una serie di “puntate”.
Alla prima puntata intervenne il ministro della Giustizia Mitchell che si rivolse a un giudice federale che ordinò immediatamente la cessazione delle pubblicazioni per motivi di “sicurezza nazionale”. Disperato Ellsberg si rivolse allora al “Washington Post”. Stesso risultato: dopo la prima “puntata” intervenne l’ordine del giudice di sospendere le pubblicazioni.
A questo punto, però, le due testate fecero ricorso alla Corte Suprema che in meno di un mese (20 giorni, per l’esattezza) emanò una sentenza storica che riaffermò la possibilità per la stampa di pubblicare, anche in violazione di un segreto attinente alla sicurezza nazionale: in forza del Primo emendamento della Costituzione, la Corte statuì che il diritto alla libertà di stampa fosse prevalente «su qualsiasi considerazione accessoria intesa a bloccare la pubblicazione delle notizie». L’estensore di quella sentenza, il costituzionalista Hugo Black, scrisse: «Oggi per la prima volta nei 192 anni trascorsi dalla fondazione della Repubblica viene chiesto ai tribunali federali di affermare che il Primo emendamento significa che il governo può impedire la pubblicazione di notizie di vitale importanza per il popolo di questo Paese. La stampa (dal punto di vista dei padri fondatori) deve servire ai governati non ai governanti. Il potere del governo di censurare la stampa è stato abolito perché la stampa rimanesse per sempre libera di censurare il governo». Notazione non trascurabile. Il giudice Black non era un “pacifista”, né un no global. Era un vecchio saggio che a 85 anni non aveva perso il senso della libertà e non era stato contaminato da sussulti conservatori. Morì quello stesso anno e la sentenza costituì il suo testamento morale.
L’emblematicità di questa vicenda riguarda l’affermazione della prevalenza del diritto alla libertà di stampa su tutti i beni costituzionalmente garantiti. Il ruolo della stampa, dunque, in America è quello di violatore istituzionale dei segreti, di tutti i segreti, per tutelare i cittadini e renderli consapevoli che esiste un controllo effettivo su gli atti dei vari poteri.
Si può, invece, facilmente immaginare cosa accadrebbe se qualcuno andasse al Convegno del 4 luglio a rivendicare il diritto di pubblicare tutto ciò che è coperto dal segreto in nome dei “governati”. L’Italia è il paese dei segreti, compreso quello più importante di tutti e maggiormente tutelato: quello di Pulcinella. E guai a violarlo! Le commissioni parlamentari indagano su fenomeni sociali sui quali è necessario fare luce e alla fine, su molti atti che rivelano schifezze di vario genere, rimane il segreto. Vietato conoscere.
Le procure indagano su reati che allarmano il paese e a causa dei tempi lunghissimi dell’iter processuale il segreto di indagine impedisce di conoscere le nefandezze commesse. Vietato conoscere. Segreti d’ufficio, segreti di Stato, segreti di ogni genere. Vietato conoscere e vietato sapere. E quel che più stupisce è che a pagare è sempre l’anello finale, quello dell’informazione. Non chi è preposto alla tutela del segreto, come sarebbe giusto che fosse, anche come ipotesi colposa (al pari dei direttori responsabili dei giornali che rispondono sempre per omesso controllo), ma solo e unicamente “chiunque pubblica”. Che paese è mai questo che ha inglobato e digerito la legislazione del codice Rocco, aggiungendo qualcosa di innominabile con la nuova legge sulla stampa pubblicata subito dopo la Liberazione? Che paese è mai questo che tiene in vita nel proprio ordinamento norme in bianco che possono essere riempite a piacere da chi giudica a seconda della sua personale cultura se non addirittura a seconda della parte politica che è in grado di influenzarlo? “Ordine pubblico”, “comune senso del pudore”, “tendenziosità delle notizie”, “pubblica decenza”, “comune sentimento della morale” sono tutti concetti vaghi, volutamente vaghi e sono altrettanti limiti alla libertà di informazione. E come se non bastasse questa generale voluta vaghezza, in tempi recenti, in materia di tutela della privacy, è stato introdotto il principio di essenzialità dell’informazione che permette una vera e propria grave censura su ogni notizia che si vuol pubblicare. Ma chi e in base a quale parametro oggettivo viene stabilita questa essenzialità?
Se una gentile signora, per ottenere favori per partecipare a trasmissioni della televisione pubblica, viene coinvolta (anche solo in qualità di persona offesa) in indagini su proposte di prestazioni sessuali effettuate da persona pubblica, viene trasportata su auto blu dal suo domicilio all’ufficio del pubblico ufficiale, il cittadino che paga il canone Rai e che paga anche le tasse che permettono di pagare gli stipendi a quel pubblico ufficiale, non ha il diritto di conoscere il nome di quella gentile signora per farsi almeno un’idea se le sue prestazioni artistiche erano condizionate? Quello che mortifica di più, però, è il fatto che questa voglia di censura provenga in massima parte dalla cosiddetta sinistra. È lecito allora chiedersi anche: che sinistra è questa? Questo paese che giustifica e accetta gli scioperi degli addetti all’informazione che si ripetono periodicamente per il rinnovo dei contratti collettivi di lavoro, ha o no il diritto di pretendere che quegli stessi giornalisti scioperino per rivendicare il ruolo di violatori istituzionali dei vari segreti? Insomma, chi sono i padroni dell’informazione? Gli editori? I politici che emanano norme repressive? I giornalisti? Non viene in mente che i veri padroni di questa fondamentale forma di libertà sono i cittadini che ogni mattino ne comprano un pezzo in edicola?

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