Università: «Riconoscete che abbiamo fatto di più e meglio di chi ci ha preceduti»

Lorenzo Fioramonti

Lorenzo Fioramonti (Vice Ministro del Miur). Ora che la Legge di Bilancio è stata approvata in via definitiva, voglio fare un resoconto delle misure importanti che contiene per quanto riguarda l’università, la ricerca e l’alta formazione artistica e musicale:
1) Abbiamo aumentato le risorse generali per i fondi di finanziamento delle università e degli enti di ricerca. Queste risorse servono per pagare salari, strutture e ricerca di base. Le cifre specifiche le ho discusse nel post precedente. Qui basta dire che i finanziamenti stanziati in questa Legge sono superiori a tutti quelli degli ultimi dieci anni. Nessun governo dal 2008 in poi ha fatto di più. Ovviamente serviranno molti più fondi per rilanciare profondamente il settore. Sono il primo ad ammettere che dopo tanti anni di sottofinanziamento e oltre 800 milioni di tagli in un decennio, la strada da percorrere è ancora lunga. Ma ho letto resoconti completamente falsi e allarmistici sui media. È legittimo aspettarsi di più, ma chi oggi ci critica non può negare che abbiamo invertito una tendenza. Abbiamo anche varato un piano straordinario per l’assunzione di nuovi 1000 ricercatori, a cui se ne aggiungeranno altri 500 grazie a risorse aggiuntive (più dei governi precedenti). Si è parlato in modo inesatto di blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, che – come ho spiegato in precedenza – non solo non riguarda i nuovi ricercatori, ma non riguarda neanche i passaggi ad associato o tutte le chiamate su punti organico precedenti al 2019. Quindi non avrà alcuna influenza reale sulle carriere accademiche, ma ci aiuta a restare nei parametri contabili dell’UE.
2) Abbiamo aumentato di 10 milioni di euro le risorse per il Fondo Integrativo Statale, che serve a coprire le borse di studio. D’accordo col Ministro, abbiamo anche deciso di escludere questo fondo da possibili accantonamenti ministeriali per il 2019. Garantiremo quindi maggiori risorse per il diritto allo studio nei mesi a venire. Anche qui, vale lo stesso principio: se qualcuno vuole proprio criticarci, lo faccia perché magari si aspettava che saremmo riusciti in un solo colpo ad offrire borse di studio a tutti gli studenti aventi diritto (un obiettivo che ci siamo impegnati a realizzare nell’arco della legislatura) ma almeno riconosca che abbiamo fatto di più e meglio di chi ci ha preceduto.
3) Abbiamo introdotto un meccanismo per cominciare a rafforzare le risorse umane nelle università, superando il tetto del turnover imposto negli anni precedenti. Come? Permettendo alle università che hanno risorse libere di investire per assumere nuovi ricercatori e nuovi amministratori. E lo abbiamo fatto garantendo sia università del Nord, sia università del Centro e del Sud (a differenza di chi per anni ha sostenuto un modello di “eccellenza” che ha premiato i soliti pochi noti). Abbiamo anche finanziato la Scuola Superiore di Napoli ed il Tecnopolo per lo Sviluppo Sostenibile a Taranto per dimostrare non solo la volontà di sostenere l’innovazione, ma anche l’attaccamento a territori martoriati da decenni di politiche sbagliate. Ovviamente serviranno anche norme ordinamentali per il reclutamento, la valutazione e la carriera accademica. Su questo agiremo nei primi mesi del prossimo anno, perché non si possono fare in una manovra di bilancio.
4) Stiamo continuando il processo di ‘statizzazione’ di molte strutture dell’alta formazione artistica e musicale, a cominciare dagli istituti superiori musicali e dalle accademie non statali. Abbiamo stanziato fondi per la disabilità e ci accingiamo ad organizzare gli Stati Generali del settore l’8-9 Febbraio a Roma. Sarà un momento importante per discutere delle politiche necessarie per rilanciare un settore cruciale per la cultura del nostro Paese. Nonostante i negoziati e le tante esigenze del Paese, questa manovra ci aiuta a voltare pagina col passato. Tutte le critiche sono benvenute, ovviamente. Ma che siano costruttive. Cominciando col riconoscere l’evidenza.
Ora possiamo iniziare il 2019 guardando avanti. Abbiamo bisogno delle energie di tutti, dagli studenti ai ricercatori, per dare uno slancio di lungo termine al nostro sistema di formazione e ricerca.

Con la classifica “Censis” solita piaggeria: le università di Pisa e Firenze saranno annesse a Siena

Il Censis premia L’Università di Siena: è il miglior ateneo statale (Il Cittadino)

Università: il corso di laurea aretino è secondo in Italia, davanti c’è solo la Sapienza

L’Università di Siena è il miglior ateneo in Italia, eccellenti i corsi ad Arezzo (La Nazione)

Roberto Morrocchi

Classifica delle Università. Siena è regina d’Italia, bene anche Firenze e Pisa

L’Università di Siena 4° in Europa per Times Higher Education

Classifica atenei statali medi e piccoli: primi posti per Siena e Camerino

Visto che ci sono alcuni politici senesi e qualche blogger che continuano a parlare della città in toni catastrofici mettendo nel sacco delle corbellerie anche lo stato del nostro Ateneo, ecco che giunge a fagiolo la classifica stilata come ogni anno dal Censis…


Rabbi Jaqov Jizchaq. … gaudemus, ma perché brandire queste classifiche per dire che tutto va bene madama la marchesa?? A parte il titolo “Quarta in Europa”, cioè immediatamente dopo Oxford, Cambridge e La Sorbonne (sesquipedale “corbelleria” palesemente, quanto ovviamente, fasulla: in Europa, secondo Times Education, Siena staziona tra il 51° e il 75° posto, che, a scanso di equivoci, è già un risultato molto incoraggiante!), la domanda è a chi serva tanta piaggeria. Singolare l’ultimo articolo citato, dal quale si evince che sugli elevati standard qualitativi della ricerca e della didattica erogata all’università (quella che ancora ha la possibilità di essere erogata), non ha evidentemente alcuna influenza l’opera di chi quei risultati scientifici e didattici li ha prodotti, se vile disfattista che non ritiene di vivere nel migliore dei mondi possibili. Né è chiaro perché il gramsciano “pessimismo della ragione” dovrebbe risultare offensivo (“che sempre allegri bisogna stare, il nostro piangere fa male al Re”). Evidentemente solo chi si astiene da ogni forma di pensiero, o aderisce al Pensiero Unico, prêt-à-porter è da considerare un buon cittadino e un docente con elevati H-index, da leggere come “indice di ottimismo”. Però sarebbe interessante sapere:

1. Quali sono le “corbellerie” divulgate da questo blog, dove mi pare di constatare lo sforzo di sostenere ogni argomento con dati pubblicamente accessibili e facilmente verificabili, lontano dallo stupidario quotidiano dei luoghi comuni. La prima “corbelleria”, ovvero il primo dato allarmante è la sparizione di quasi il 40% del corpo docente di ruolo a casaccio (ad oggi risultano 664 professori confermati, a fronte degli oltre 1000 che furono), con interi settori non esattamente trascurabili entrati in crisi: una metamorfosi dell’ateneo ancora in corso e dell’approdo incerto e un problema che impone di tenere ben vigile l’attenzione, anziché bamboleggiarsi con le classifiche del CENSIS.

2. Perché tali presunte “corbellerie” le si attribuisce ad una non meglio precisata “destra”, e se uno “de sinistra” dovrebbe per caso essere contento di quello che è successo a Siena, non nutrire alcuna riserva sull’applicazione della riforma Gelmini, non covare alcuna preoccupazione, soprattutto se nella bufera ci si è trovato in mezzo, dalla parte di chi ha dato più che ricevere (ci sarebbe anche da chiedersi quanto “de sinistra” sia certa gente, ma transeat…). A forza di dire che “tutto va bene”, il centrosinistra è stato estromesso dalla guida del comune, non ad opera dei marziani, bensì dei cittadini che evidentemente non ne erano convinti;

3. Se chi in questo ateneo ha contribuito, in un decennio di pesante difficoltà, a quei successi didattici e scientifici di cui la politica, distorcendoli, subito si appropria, ha diritto o no, non considerandosi un minus habens bisognoso di tutela, di esprimersi sui problemi e sulle scelte culturali ed organizzative che lo/la riguardano in modo diretto e sulle quali ha sufficiente competenza per discuterne sensatamente, senza ricevere minacce ed ostracismi;

4. Perché ogni tentativo di pubblica e civile discussione nel merito (cioè senza brandire astratte “classifiche” distrattamente leggiucchiate o vacui ideologismi) debba essere sempre soffocato da una nube tossica di livore fazioso, o tacciato di empietà, se si discosta dal Pensiero Unico delle gazzette, fatto di assolute banalità o di asfissiante demagogia.

5. Se in definitiva ogni tentativo di interlocuzione dialettica debba essere considerato un reato di lesa maestà, tanto da essere additati come sospetti (con ciò che ne consegue). Il “così è se vi pare”, oppure “zitto e mangia”, non si addicono all’istituzione universitaria: “vogliamo che sia la palestra di cittadinanza voluta dai Costituenti, o un vivaio di servi armati di burocratiche “competenze”?”, si chiede Salvatore Settis.

Paventando dunque di vedere a breve Zelig-Salvini che si fa un selfie anche dalle finestre del rettorato, o la Meloni che reclama l’uso della tortura durante gli esami, mi domando se non sarebbe il caso di assumere un atteggiamento meno infantilmente demagogico. Ma oggi brindiamo e attacchiamoci al CENSIS, felici che tutti i problemi di cui si è cercato qui di discutere, a Siena siano solo l’incubo di qualche “blogge”.

P.S. Involontariamente sarcastico (in cauda venenum) quel: “bene anche Firenze e Pisa”. Sembra anzi che Pisa e Firenze si accingano ad essere annesse a Siena.

«L’ottimismo comporta pur sempre una certa dose di infatuazione, e l’uomo di ragione non dovrebbe essere infatuato.» Norberto Bobbio

Il governo gialloverde sull’Università

Più controlli sui professori universitari? Attenzione all’autonomia (da: Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018)

Dario Braga. Nel capitolo «Università e ricerca» del contratto di governo sottoscritto da Lega e M5S si legge: «Occorre inserire un sistema di verifica vincolante sullo svolgimento effettivo, da parte del docente, dei compiti di didattica, ricerca e tutoraggio agli studenti». Ragioniamoci sopra un momento. Leggendo questo punto, un “non addetto ai lavori” è automaticamente portato a pensare che all’università non esistano regole e che ognuno faccia o non faccia senza controlli di sorta. Da qui la necessità di introdurre nell’accordo come elemento qualificante anche la «verifica vincolante» dei compiti dei docenti. Cosa hanno in mente gli estensori? Che conoscenza hanno dei sistemi di verifica attualmente in atto? Parliamone.

Sul lato della didattica, il docente è tenuto a indicare luogo, data, ora e argomento di ogni lezione in un registro ufficiale che, a fine corso, è firmato dal titolare del corso e consegnato alla Scuola di appartenenza. Il registro è quindi controfirmato dal presidente della Scuola che, in questo modo, ne certifica la correttezza. Per ogni singolo corso viene anche raccolta annualmente l’opinione degli studenti su svolgimento, contenuti, capacità espositiva del docente e viene chiesto di dichiarare quanta parte del corso è stata svolta dal docente titolare. Il coordinatore del corso di studio ha accesso a queste valutazioni ed è tenuto a intervenire direttamente con il docente nei casi critici.

Sul lato della ricerca, da diversi anni l’Agenzia di valutazione della università e ricerca (Anvur) richiede periodicamente ai singoli e ai Dipartimenti la esposizione puntuale della attività svolta. Gli atenei poi raccolgono annualmente le informazioni sulla produzione scientifica dei docenti e le utilizzano nella distribuzione delle risorse per la ricerca e dei posti. Nel dottorato di ricerca, poi, la verifica della qualità scientifica dei collegi dei docenti è requisito per ottenere da Anvur l’accreditamento annuale necessario per continuare a operare.

Le università sembrano quindi avere tutti gli strumenti che servono per la «verifica vincolante» e sono anzi tenute a utilizzarli sia per l’autogoverno sia per accedere a quote del fondo di finanziamento ordinario. Semmai questi strumenti andrebbero semplificati, ma questa è altra storia. Se una critica abbonda nei “social” è proprio verso l’accanimento parametrico e la «ossessiva raccolta di informazioni» sulle attività di docenza e di ricerca del singolo e degli atenei.

Ma allora di che stiamo parlando? Non vorrei essere accusato di processo alle intenzioni. Ma c’è da preoccuparsi. E se a non piacere fosse invece il principio di autonomia, base del funzionamento di tutti i sistemi universitari? Spero di sbagliarmi.

Chi non conosce il lavoro universitario potrebbe, ad esempio, pensare che sia ora di finirla con questi ricercatori e professori che vanno e vengono a piacimento, frequentano convegni e workshop, visitano altre università, non “timbrano”, e, tranne che a lezione, non sembrano avere un vero e proprio orario di lavoro. In realtà è così non solo perché “studio e creatività non hanno orario”, ma anche perché spesso le giornate di lavoro vengono assorbite dai compiti amministrativi e dall’interazione con gli studenti. Ci si porta sempre il lavoro a casa: lezioni da preparare e/o compiti d’esame da correggere, pubblicazioni da leggere, progetti da scrivere, “talk” da preparare. Alla sera o durante il weekend. Ore e ore di lavoro per le quali è difficile pensare a una «verifica vincolante».

Ci sono docenti poco seri e/o disonesti che approfittano di questa autonomia? Certo che ci sono, come in ogni professione. Per queste situazioni esiste la gerarchia delle responsabilità di chi governa dipartimenti, scuole, e atenei. Si operi su questa, gli strumenti ci sono già tutti. L’università italiana produce, nonostante tutto, ottimi laureati e tanta ricerca. Di tutto ha bisogno tranne che di (ulteriore) delegittimazione.

La convivenza studiata e misurata dell’italiano e dell’inglese nell’università è più faticosa da progettare, rispetto al dire semplicemente “tutti i corsi in inglese”, ma forse è anche più seria e responsabile

Rita Librandi

Da: Unilex, 19 marzo 2018

Rita Librandi. Prima di tutto mi colpisce sempre il fatto che l’argomento lingua, o forse dovrei dire l’argomento “italiano”, appassioni chiunque, accendendo peraltro passioni inimmaginabili. Credo che ci siano alcune ragioni che accomunano tutte le comunità linguistiche, al di là del tempo e dello spazio, e altre che caratterizzano specificamente i parlanti italiani e la loro storia. Comunque, senza divagare troppo, vorrei subito sgombrare il campo da equivoci: sono accademica della Crusca, ma ovviamente non ho alcuna avversione verso l’inglese e non ho difficoltà a riconoscere l’evidenza: l’inglese è lingua veicolare per ogni situazione comunicativa che coinvolga (in presenza o a distanza) interlocutori di diversa provenienza e non solo per la comunicazione tecnico-scientifica. Ho parlato in inglese a più di un convegno all’estero e solo tre settimane fa ho tenuto lezioni in inglese al Dipartimento di Studi italiani della NYU, per il semplice motivo che insieme ai dottorandi di italianistica ce n’erano altri di Letterature comparate che non avrebbero capito l’italiano.
Fatta questa premessa, non interverrò su ciascun punto preso in considerazione nel vostro ampio dibattito, ma mi limiterò ad alcune osservazioni che ritengo importanti.

1) È senz’altro vero che nel medioevo (e ancora fino al XVIII sec.) il latino era la lingua delle università. Il latino, tuttavia, non era lingua di alcuno specifico paese dell’Europa medievale e dell’età moderna.

2) C’è un problema specificamente linguistico che nessuno considera. Ogni lingua che voglia continuare a discutere di fatti scientifici ha necessità di adoperare un lessico tecnico, specialistico che ovviamente si rinnova insieme con il progredire degli studi e delle scoperte. Una lingua che rinunci a coniare i propri tecnicismi, affidandosi sempre a un’altra per determinati settori abdica ad alcune prerogative essenziali delle lingue e procede, sia pure in tempi lunghi verso la dialettizzazione. Tutti i dialetti della penisola italiana, per esempio, sono lingue, nessuno escluso, non solo per la loro diretta derivazione dal latino ma anche perché possiedono un proprio autonomo sistema morfologico. Continuiamo a chiamarli dialetti per una tradizione tutta italiana, ma sono tutti lingue, anche se non lo sono più né sul piano spaziale (non si può comunicare in un singolo dialetto da Milano a Palermo) né sul piano degli argomenti che trattiamo, perché il dialetto non possiede il lessico specialistico necessario a parlare o scrivere di diritto, matematica, genetica, linguistica, ecc. Quando nel Cinquecento, infatti, ci fu l’unificazione linguistica della penisola (o se vogliamo la prima unificazione linguistica), i dialetti non ebbero più modo di formare un proprio specifico vocabolario per i settori della scienza e della cultura alta, per i quali tutti si affidarono all’italiano. Oggi nei nostri dialetti possiamo trasmettere (anche in versi) straordinarie emozioni affettive ma non possiamo parlare di genetica. Si tratta di un pericolo di cui si discute nella Commissione europea delle lingue e che coinvolge tutte le altre lingue europee.

3) È vero ciò che qualcuno di voi ha detto sulle preoccupazioni della Germania e dei paesi del Nord dell’Europa. In una convegno della EFNIL, che riunisce le più rilevanti istituzioni linguistiche europee e che si è svolto a Firenze due anni fa, i rappresentanti di Danimarca, Olanda, Germania spiegavano come stessero cercando di correre ai ripari dopo anni di totale anglicizzazione degli studi universitari. Molte sedi universitarie tedesche adottano una politica assai intelligente: al primo anno offrono corsi in inglese nelle classi con studenti stranieri e contemporaneamente obbligano questi ultimi a seguire corsi di tedesco; al secondo anno offrono una parte dei corsi in inglese e una parte in tedesco e al terzo anno tutti devono essere in grado ormai di comprendere e riprodurre il solo tedesco.

4) La battaglia dunque non è contro l’inglese negli studi universitari, ma contro l’anglicizzazione indiscriminata, priva di correttivi che vanno pensati e pesati in vista del futuro.

5) E che dire della comunicazione con il pubblico? Si parla tanto di terza missione, di trasmissione delle conoscenze al pubblico: è cosa più che giusta se non vogliamo una società credulona che rifiuti i vaccini o altre amenità simili. Come pensiamo di poter trasmettere o comunque di poter divulgare in modo alto e serio le nostre conoscenze al grande pubblico? In italiano o in inglese? Con quale lessico? Italiano o inglese? Certo la convivenza studiata e misurata delle due lingue nelle aule universitarie è più faticosa da progettare, rispetto al dire semplicemente “tutti i corsi in inglese”, ma forse è anche più seria e responsabile. Vi consiglio a questo proposito il bellissimo libro di Maria Luisa Villa, “L’inglese non basta. Una lingua per la società”, Milano, Bruno Mondadori, 2013 (la Villa ha insegnato Patologia generale e dunque non è sospetta di “iper umanismo”…).

6) È vero anche che l’inglese va insegnato bene e a questo proposito mi chiedo: com’è possibile che i giovani dopo ben 13 anni di inglese a scuola lo parlino così male? Nessuno al ministero si preoccupa mai di obbligare l’insegnamento in lingua delle Lingue… A me sembra paradossale.

Infine inviterei tutti i colleghi dei percorsi formativi tecnico-scientifici a pensare anche all’italiano scritto dei vostri studenti universitari, ma magari è meglio non aprire anche questo capito, perché già so che si scatenerebbero altre passioni.

La sentenza non vieta i corsi in lingua straniera, sancisce l’obbligatorietà di garantirli in italiano

Da: Unilex, 17 marzo 2018

Paola Sonia Gennaro. A seguito dell’ottimo articolo di Claudio Marazzini aggiungo alcune considerazioni.
Riservare a una sola lingua l’accesso alla scienza, significa consegnare al dominio di una sola cultura le chiavi della conoscenza. Una visione imperialista che neppure l’Impero romano.
Lutero in un colpo solo spazzò via l’intermediazione della classe sacerdotale della curia romana, con la traduzione in tedesco della Bibbia, rendendola accessibile al largo pubblico senza bisogno di intermediari accreditati (oggi diremmo “abilitati”).
La Chiesa cattolica invece mantenne la messa in latino fino alla metà del secolo scorso, ovvero oltre 400 anni dopo Lutero, contribuendo così a tramandare la conoscenza del latino fino ai nostri giorni.
Si può trovare anche un aspetto paradossale nel voler riservare all’inglese l’esclusività del linguaggio scientifico. Infatti, i paesi anglosassoni sono anche quelli che usano sistemi di misura diversi dal resto del mondo. Dovremmo tutti adeguarci a usare libbre e miglia?
Infine dovrebbe essere evidente che i traduttori automatici saranno sempre più perfezionati, permettendoci non solo di leggere decine di altre lingue, ma anche di parlare nella nostra lingua e di essere ascoltati in diretta nella lingua dell’interlocutore.
Dunque benvenute tutte le lingue, no alle riserve auto-accreditatesi “eccellenze”.

Marco Cosentino. La sentenza non vieta i corsi in lingua straniera bensì sancisce l’obbligatorietà di garantirli in italiano. In altri termini, io studente italiano ho il diritto di poter studiare nella mia lingua madre. Tutto qui.
Il problema della subalternità scientifica e culturale è enorme ma non è certo primariamente legato all’offerta didattica (la cui anglicizzazione, ove non giustificata da specifiche esigenze, altro non è che grossolano provincialismo).

La Facoltà di Lettere dell’ateneo senese è tra le migliori al mondo, come lo è l’attuale re d’Italia

Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo con piacere, ma anche con notevole sorpresa questa notizia da “Il Cittadino”: «La Facoltà di Lettere dell’ateneo senese è tra le migliori al mondo.» La QS World University Rankings registra in generale un balzo delle università italiane, dalla Sapienza al Politecnico di Milano. L’ateneo romano è il migliore al mondo in Scienze dell’Antichità, superando Cambridge (seconda) Oxford (terza) e Harvard (quinta). Mizzica! Che a Roma siano esperti di antichità romane non sorprende. Il Politecnico, secondo questa classifica, risulta ai vertici per varie branche dell’ingegneria e questo è già più interessante. Forse, semplicemente, gli atenei hanno mangiato la foglia e cominciano a capire come farsi riconoscere ciò che già posseggono. Spiccano anche Bologna, Pisa e Padova. Ma è la stessa Pisa, recentemente punita dal palio dei dipartimenti? C’è qualcosa che non quadra in questo incessante certame fra atenei.

Soddisfazione per Siena, perché la buona novella pone un argine alla diceria che le materie “umanitarie” siano sinonimo di dequalificazione a prescindere. Soddisfazione e sorpresa. Sorpresa, soprattutto perché la “Facoltà di Lettere” non esiste più da anni, quindi, forse, il giornalista voleva dire un’altra cosa. Bisogna infatti condurre una accurata ricerca per capire in quali dipartimenti, monadi diverse del tutto indipendenti l’una dall’altra, senza alcuna struttura di coordinamento come furono le defunte “facoltà”, siano finiti gli insegnamenti menzionati nell’articolo, anche se poi magari vengono ospitati negli stessi curricula di corsi di studio erogati da questo o da quello. Lo stesso è successo a Medicina e a Scienze, e ancora c’è chi parla di “Facoltà di Medicina”, “Facoltà di Scienze”, “Facoltà di Lettere” in una specie di danza delle ombre in cui si agitano fantasmi di entità decedute. È così dopo l’ultima riforma, che ha soppresso le “Facoltà”.

La soppressione delle Facoltà non è un fatto meramente nominale. È come se i giornali continuassero a chiamare Mattarella il “re d’Italia”. Quanto ciò che è accaduto sia implausibile lo testimonia, appunto, l’incredulità dei giornali, che continuano a parlare di cose che non esistono più come se esistessero ancora. Semmai, ci sarebbe da chiedersi che senso ha tutto questo, qual è stato il risparmio effettivo, l’incremento di efficienza, quale plausibilità scientifica abbiano le strutture che sono subentrate, sebbene in tempi di cieca e burocratica sottomissione, a chiedersi il senso delle cose si rischi l’ostracismo. È diventato costume obbedir tacendo, come nell’Arma, e il ghigno supponente ha rimpiazzato la dialettica delle idee. Ma in fondo anche l’attuale re d’Italia è fra i migliori al mondo e quello morto è il miglior nemico.

La pseudo-internazionalizzazione: il Consiglio di Stato boccia i corsi in inglese nell’università italiana

Clicca per ascoltare: Il Consiglio di Stato boccia i corsi in inglese del Politecnico di Milano.

Università: con il mantra della valutazione e della meritocrazia siamo in pieno delirio

Donato Zipeto

Da: Unilex, 17 e 18 gennaio 2018

Donato Zipeto. Ha senso parlare di merito quando si parte tutti dalle stesse condizioni.
Gara dei 100 metri… partono tutti dalla stessa linea, nello stesso momento, sulla stessa pista, con lo stesso tipo di scarpe, ecc. ecc. Non parte uno prima, uno dopo, uno zoppo, uno monco, qualcuno scalzo o con i chiodi seminati lungo la pista.
Nelle gare “meritocratiche” all’italiana, chi arriva primo la prossima volta parte 10 metri più avanti. L’ultimo 10 metri indietro. Così aumentiamo la “meritocrazia” e continuiamo a premiare i primi.

Quello non è merito, è reiterare e aumentare disuguaglianze e divari.
Facile la “competizione” e la sedicente “meritocrazia” quando si hanno a disposizione aeroporti, ferrovie, infrastrutture adeguate per organizzare convegni, per alimentare collaborazioni fra sedi diverse, per ricevere tempestivamente reagenti o strumentazioni. Quando si possono invitare colleghi dall’estero per corsi e seminari.
Mi piacerebbe prendere i tanti fautori di questa meritocrazia “pelosa”, confinare le tante sedicenti “eccellenze” in sedi decentrate senza risorse, strutture e infrastrutture, e vedere dove va a finire, da lì a poco, la loro eccellenza e la loro meritocrazia.
La ricerca, la cultura, sono innanzitutto collaborazione, scambio, ibridazione, idee che circolano, che si muovono, che si diffondono.
Parlare di competizione, gara, eccellenze e simili, nell’ambito della conoscenza, è una totale idiozia. Il neoliberismo lasciatelo agli economisti vecchia scuola, quelli della crescita infinita e indefinita, e ai danni che stanno facendo.

Risponde Franco Pavese: «Zipeto ha messo come “gara” il significato di riconoscimento del merito…»

Replica Zipeto: «Caro collega, non l’ho “messo” io. È il sistema messo in piedi da politici ignoranti, imprenditori beceri e truffaldini, giornalisti lecchini, opinione pubblica ostile e manipolata e colleghi ignavi.
Si brandiscono termini, quali meritocrazia ed eccellenza, come clave per far fuori chi canta fuori dal coro. Mi limito a costatare quello che è davanti agli occhi di tutti.»

Scrive ancora Franco Pavese: «sottoscrivo le parole di Zipeto solo quando dice “la ricerca, la cultura, sono innanzitutto collaborazione, scambio, ibridazione, idee che circolano, che si muovono, che si diffondono”, ma ciò è ben chiaro e realizzato solo da chi svolge bene la sua professione intellettuale, che può dimostrare senza timori a chicchessia il suo “merito”, mediante il suo curriculum fondato su dati oggettivi: pubblicazioni per la ricerca, soddisfazione degli studenti ai suoi corsi.»

Replica Zipeto: La ricerca, quella vera non la “catena di montaggio” che va di moda oggi per essere “eccellenti”, è serendipity. E non c’è tutto questo merito nella serendipity.
Quando ero ancora studente, una vita fa, ricordo l’ultima lezione del professore di fisiologia, che da lì a poco sarebbe andato in pensione. Ci raccontò, quell’ultimo suo giorno in università, la storia della principessa che perde l’anello durante il ballo, in giardino. Il re chiama il capo delle guardie, e tutti a cercare l’anello smarrito in ogni fosso, dietro ogni cespuglio, sotto ogni sasso. Finalmente una guardia lo trova, torna con l’anello, e il re propone per lui un premio. Il capo delle guardie si oppone. Perché la guardia che ha ritrovato l’anello smarrito c’è riuscita perché tanti altri, tutti gli altri, cercavano da qualche altra parte. Da solo non ce l’avrebbe mai fatta.

Prendendo spunto da questa storiella e arrivando alla realtà dei giorni nostri, va scovata e sanzionata la guardia che invece di cercare s’imbosca, si nasconde, schiaccia un pisolino, o comunque non fa il suo dovere.
Magari una pacca sulla spalla o una mezza giornata di libera uscita a chi ha trovato l’anello. E un grazie a tutti quelli che hanno svolto il loro compito.
Con la retorica dell’eccellenza e della “mediocrazia” de noantri invece, facciamo generale la guardia che ha trovato l’anello, e tutti gli altri a pulire le latrine.

I comportamenti poco etici (scambi di citazioni, salami-publishing, dati vagamente confermati et similia) stanno minando la credibilità della scienza e della ricerca. Tutto nel nome del mantra della valutazione e della meritocrazia. Altrove stanno cominciando a capirlo, e a fare qualche passo indietro. Da noi siamo in pieno delirio.

Un’ultima osservazione. Se per scovare e non finanziare un, diciamo, 5% di fannulloni, e non “sprecare” x € per nulla, imbastiamo una valutazione dai costi esorbitanti, diciamo 10x €, stiamo facendo una boiata pazzesca. Perché ci saranno meno fondi per il 95% che lavora bene, e andremo a ingrassare valutatori scopiazzatori, politici in libera uscita, editor di riviste predatorie, burocrati asfissianti, e tutto il resto del circo che vi gira intorno.
My 2 cents.

Con un trucco contabile, e trasferimenti, le università non virtuose si svuotano, risanano e ridiventano “virtuose”?

Da: Italian Engineers (12 gennaio 2018)

Michele Ciavarella. Il collega ItalianEngineer “Renzo Rosso” di PoliMI lamentava sul SecoloXIX vedi qua che non ci sono più i trasferimenti. Si sbagliava! La legge italiana rende trasferibile e quindi virtuoso un docente, conteso da tutte le Università italiane, non perché è bravo, ma perché viene da una Università non virtuosa!

Sì avete sentito bene, il paradosso è questo, solo un qualunque docente di Università non virtuosa ha uno status privilegiato, e diventa per questo “virtuoso”. Forse le Università che lo accolgono fanno una scelta e verificano se è virtuoso, ma siccome costa zero, perché andare per il sottile?
Le università che sono in “tensione finanziaria”, una volta si diceva “non virtuose”, potrebbero svuotarsi progressivamente (probabilmente semplicemente dei docenti di altra sede), almeno fino a riportarsi a situazione “positiva” (ossia sotto 80% di quota stipendi), e ridiventare virtuose. Anzi, i docenti di queste sedi hanno un’occasione unica per andarsene, visto che chi li assume, recupera interamente il loro costo!

Questo va:
0) A vantaggio dei docenti fuori sede delle Università non virtuose, che in questo hanno un vantaggio rispetto ad analoghi docenti di Università virtuose; la discriminazione paradossale di cui sopra.
1) A vantaggio delle grandi Università virtuose che non hanno questo problema e si possono scegliere dei docenti da assumere “gratis”; questo almeno mi pare sensato.
2) A vantaggio anche delle Università non virtuose che risolvono la loro situazione rapidamente: si svuotano! Sembrerebbe paradossale ma questo lo fa intuire che l’emendamento sia stato proposto da un parlamentare dell’area di Cassino (Pilozzi). Infatti, svuotandosi, si torna in condizioni finanziarie vantaggiose (sotto 80% del monte stipendi) ossia virtuosi, e si può ottenere per il futuro più posti da Professore visto che l’indicatore oltre all’80% blocca l’assegnazione al 50% del turnover.
Quindi, se perdo X professori oggi, però scendo sotto 80%, il turn-over si sblocca. Per capire il vantaggio occorrerebbe sapere quanti sono i docenti che devono andare in pensione. Se sono molti (per es. 10X), allora si crea un vantaggio netto passando da 25% del turnover (credo) al 50%, di 2X docenti.
3) Alla fine tutto ridiventa “virtuoso”, ma fa parte dei giochi complessi dell’assegnazione dei fondi all’università che non ci sia stato un intervento a copertura della manovra, perché in realtà questo non crea dei punti organico, ma solo sblocca il turnover in alcune Università. Se fosse stato fatto anni fa, quando le Università non virtuose erano molte, avrebbe creato un chaos.
4) Naturalmente, a regime tutti diventiamo “virtuosi”, fino a nuova definizione di “virtuoso”, ad oggi sconosciuta, e che verrà decisa a posteriori un giorno X non noto oggi.

Se questa manovra viene anche ripetuta è un po’ la ciliegina sulla torta di chi pensava che veramente nel 2001, quando si cominciò a parlare di Università virtuose, si volesse fare sul serio!

Premi ai dipartimenti sani e di eccellenza e cure compassionevoli a quelli sofferenti e “disabili”

Rabbi Jaqov Jizchaq. «Sono quattro i dipartimenti di eccellenza dell’Università di Siena entrati nella lista dei 180 dipartimenti che otterranno fondi straordinari dal Miur nel quinquennio 2018-2022, ripartendosi 271 milioni di euro complessivi previsti annualmente, secondo quanto stabilito dalla legge di bilancio 2017. Gli esiti della selezione, molto attesi, sono stati resi noti questa sera dal Ministero. I dipartimenti premiati sono Biotecnologie, chimica e farmacia, Biotecnologie mediche, Filologia e critica delle letterature antiche e moderne, Scienze sociali, politiche e cognitive, sulla base di progetti di alto valore scientifico elaborati e presentati nei mesi scorsi, e successivamente valutati da una commissione di sette esperti individuati dal ministero in collaborazione con ANVUR.» (il Cittadino online)

Complimenti senza dubbio ai vincitori dei “ludi dipartimentali”, ultima gara dei ludi cartacei che hanno occupato gli atenei a tempo pieno in questi anni. Rimane il dubbio di fondo sul fatto che un medico non dovrebbe “giudicare” il paziente, premiandolo se è sano. Così la politica universitaria dovrebbe considerare le aree scientifiche in pesante sofferenza e valutare se culturalmente e strategicamente è il caso di curarle, piuttosto che limitarsi a giudicarle negativamente. Insomma, dovrebbe avere una visione. Molte aree scientifiche sono prossime alla scomparsa: mi chiedo se la politica universitaria, abdicando al suo ruolo, debba intervenire solo post mortem e limitarsi al ruolo di becchino, affiggendo manifesti funebri alla memoria del “caro estinto”, una volta constatato il decesso.

Fermo restando che dopo lo scioglimento delle Facoltà, dai nomi di molti nuovi dipartimenti non si capisce nemmeno quale ne sia il contenuto effettivo (e mi metto nei panni di un referee neozelandese di una rivista, che in calce ad un articolo legga l’affiliazione dell’autore), nelle condizioni in cui sono ridotti, molti settori che fanno parte di questi contenitori non sono più in grado di competere con le corazzate di grandi atenei. S’intravede per essi solo una lenta agonia e una sopravvivenza grama in una posizione ancillare. Mi domando se non sarebbe meglio chiuderli definitivamente e dislocare altrove chi vi lavora, e qui tornano utili le considerazioni fatte in precedenti messaggi intorno alla necessità di una “massa critica” per produrre qualità. Ma il punto è che il giudizio pare irreversibile in aeternum: un meccanismo che si autoalimenta, per cui ai “ludi” prossimi venturi vinceranno sempre i soliti. Questa continua accentuazione dei divari esistenti, finanziando alcuni dipartimenti a danno degli altri (ulteriormente indeboliti dunque in modo deliberato), finisce difatti per chiamare inevitabilmente in causa il destino dell’intero sistema degli atenei, questione che non può più essere elusa.

Dice giustamente Viesti: «un gruppo di tecnocrati “illuminati”… in base alla conoscenza che solo essi hanno del Bene e del Male, perseguono un disegno politico-ideologico (assai simile nelle sue linee ispiratrici a quello del partito conservatore britannico) volto ad un radicale ridisegno del sistema dell’istruzione superiore, che concentra risorse su poche sedi da essi prescelte, e destina misure compassionevoli alle altre, caratterizzate “da disabilità”, secondo l’espressione coniata da (due membri del) direttivo ANVUR.»