Con la classifica “Censis” solita piaggeria: le università di Pisa e Firenze saranno annesse a Siena

Il Censis premia L’Università di Siena: è il miglior ateneo statale (Il Cittadino)

Università: il corso di laurea aretino è secondo in Italia, davanti c’è solo la Sapienza

L’Università di Siena è il miglior ateneo in Italia, eccellenti i corsi ad Arezzo (La Nazione)

Roberto Morrocchi

Classifica delle Università. Siena è regina d’Italia, bene anche Firenze e Pisa

L’Università di Siena 4° in Europa per Times Higher Education

Classifica atenei statali medi e piccoli: primi posti per Siena e Camerino

Visto che ci sono alcuni politici senesi e qualche blogger che continuano a parlare della città in toni catastrofici mettendo nel sacco delle corbellerie anche lo stato del nostro Ateneo, ecco che giunge a fagiolo la classifica stilata come ogni anno dal Censis…


Rabbi Jaqov Jizchaq. … gaudemus, ma perché brandire queste classifiche per dire che tutto va bene madama la marchesa?? A parte il titolo “Quarta in Europa”, cioè immediatamente dopo Oxford, Cambridge e La Sorbonne (sesquipedale “corbelleria” palesemente, quanto ovviamente, fasulla: in Europa, secondo Times Education, Siena staziona tra il 51° e il 75° posto, che, a scanso di equivoci, è già un risultato molto incoraggiante!), la domanda è a chi serva tanta piaggeria. Singolare l’ultimo articolo citato, dal quale si evince che sugli elevati standard qualitativi della ricerca e della didattica erogata all’università (quella che ancora ha la possibilità di essere erogata), non ha evidentemente alcuna influenza l’opera di chi quei risultati scientifici e didattici li ha prodotti, se vile disfattista che non ritiene di vivere nel migliore dei mondi possibili. Né è chiaro perché il gramsciano “pessimismo della ragione” dovrebbe risultare offensivo (“che sempre allegri bisogna stare, il nostro piangere fa male al Re”). Evidentemente solo chi si astiene da ogni forma di pensiero, o aderisce al Pensiero Unico, prêt-à-porter è da considerare un buon cittadino e un docente con elevati H-index, da leggere come “indice di ottimismo”. Però sarebbe interessante sapere:

1. Quali sono le “corbellerie” divulgate da questo blog, dove mi pare di constatare lo sforzo di sostenere ogni argomento con dati pubblicamente accessibili e facilmente verificabili, lontano dallo stupidario quotidiano dei luoghi comuni. La prima “corbelleria”, ovvero il primo dato allarmante è la sparizione di quasi il 40% del corpo docente di ruolo a casaccio (ad oggi risultano 664 professori confermati, a fronte degli oltre 1000 che furono), con interi settori non esattamente trascurabili entrati in crisi: una metamorfosi dell’ateneo ancora in corso e dell’approdo incerto e un problema che impone di tenere ben vigile l’attenzione, anziché bamboleggiarsi con le classifiche del CENSIS.

2. Perché tali presunte “corbellerie” le si attribuisce ad una non meglio precisata “destra”, e se uno “de sinistra” dovrebbe per caso essere contento di quello che è successo a Siena, non nutrire alcuna riserva sull’applicazione della riforma Gelmini, non covare alcuna preoccupazione, soprattutto se nella bufera ci si è trovato in mezzo, dalla parte di chi ha dato più che ricevere (ci sarebbe anche da chiedersi quanto “de sinistra” sia certa gente, ma transeat…). A forza di dire che “tutto va bene”, il centrosinistra è stato estromesso dalla guida del comune, non ad opera dei marziani, bensì dei cittadini che evidentemente non ne erano convinti;

3. Se chi in questo ateneo ha contribuito, in un decennio di pesante difficoltà, a quei successi didattici e scientifici di cui la politica, distorcendoli, subito si appropria, ha diritto o no, non considerandosi un minus habens bisognoso di tutela, di esprimersi sui problemi e sulle scelte culturali ed organizzative che lo/la riguardano in modo diretto e sulle quali ha sufficiente competenza per discuterne sensatamente, senza ricevere minacce ed ostracismi;

4. Perché ogni tentativo di pubblica e civile discussione nel merito (cioè senza brandire astratte “classifiche” distrattamente leggiucchiate o vacui ideologismi) debba essere sempre soffocato da una nube tossica di livore fazioso, o tacciato di empietà, se si discosta dal Pensiero Unico delle gazzette, fatto di assolute banalità o di asfissiante demagogia.

5. Se in definitiva ogni tentativo di interlocuzione dialettica debba essere considerato un reato di lesa maestà, tanto da essere additati come sospetti (con ciò che ne consegue). Il “così è se vi pare”, oppure “zitto e mangia”, non si addicono all’istituzione universitaria: “vogliamo che sia la palestra di cittadinanza voluta dai Costituenti, o un vivaio di servi armati di burocratiche “competenze”?”, si chiede Salvatore Settis.

Paventando dunque di vedere a breve Zelig-Salvini che si fa un selfie anche dalle finestre del rettorato, o la Meloni che reclama l’uso della tortura durante gli esami, mi domando se non sarebbe il caso di assumere un atteggiamento meno infantilmente demagogico. Ma oggi brindiamo e attacchiamoci al CENSIS, felici che tutti i problemi di cui si è cercato qui di discutere, a Siena siano solo l’incubo di qualche “blogge”.

P.S. Involontariamente sarcastico (in cauda venenum) quel: “bene anche Firenze e Pisa”. Sembra anzi che Pisa e Firenze si accingano ad essere annesse a Siena.

«L’ottimismo comporta pur sempre una certa dose di infatuazione, e l’uomo di ragione non dovrebbe essere infatuato.» Norberto Bobbio

La Facoltà di Lettere dell’ateneo senese è tra le migliori al mondo, come lo è l’attuale re d’Italia

Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo con piacere, ma anche con notevole sorpresa questa notizia da “Il Cittadino”: «La Facoltà di Lettere dell’ateneo senese è tra le migliori al mondo.» La QS World University Rankings registra in generale un balzo delle università italiane, dalla Sapienza al Politecnico di Milano. L’ateneo romano è il migliore al mondo in Scienze dell’Antichità, superando Cambridge (seconda) Oxford (terza) e Harvard (quinta). Mizzica! Che a Roma siano esperti di antichità romane non sorprende. Il Politecnico, secondo questa classifica, risulta ai vertici per varie branche dell’ingegneria e questo è già più interessante. Forse, semplicemente, gli atenei hanno mangiato la foglia e cominciano a capire come farsi riconoscere ciò che già posseggono. Spiccano anche Bologna, Pisa e Padova. Ma è la stessa Pisa, recentemente punita dal palio dei dipartimenti? C’è qualcosa che non quadra in questo incessante certame fra atenei.

Soddisfazione per Siena, perché la buona novella pone un argine alla diceria che le materie “umanitarie” siano sinonimo di dequalificazione a prescindere. Soddisfazione e sorpresa. Sorpresa, soprattutto perché la “Facoltà di Lettere” non esiste più da anni, quindi, forse, il giornalista voleva dire un’altra cosa. Bisogna infatti condurre una accurata ricerca per capire in quali dipartimenti, monadi diverse del tutto indipendenti l’una dall’altra, senza alcuna struttura di coordinamento come furono le defunte “facoltà”, siano finiti gli insegnamenti menzionati nell’articolo, anche se poi magari vengono ospitati negli stessi curricula di corsi di studio erogati da questo o da quello. Lo stesso è successo a Medicina e a Scienze, e ancora c’è chi parla di “Facoltà di Medicina”, “Facoltà di Scienze”, “Facoltà di Lettere” in una specie di danza delle ombre in cui si agitano fantasmi di entità decedute. È così dopo l’ultima riforma, che ha soppresso le “Facoltà”.

La soppressione delle Facoltà non è un fatto meramente nominale. È come se i giornali continuassero a chiamare Mattarella il “re d’Italia”. Quanto ciò che è accaduto sia implausibile lo testimonia, appunto, l’incredulità dei giornali, che continuano a parlare di cose che non esistono più come se esistessero ancora. Semmai, ci sarebbe da chiedersi che senso ha tutto questo, qual è stato il risparmio effettivo, l’incremento di efficienza, quale plausibilità scientifica abbiano le strutture che sono subentrate, sebbene in tempi di cieca e burocratica sottomissione, a chiedersi il senso delle cose si rischi l’ostracismo. È diventato costume obbedir tacendo, come nell’Arma, e il ghigno supponente ha rimpiazzato la dialettica delle idee. Ma in fondo anche l’attuale re d’Italia è fra i migliori al mondo e quello morto è il miglior nemico.

Premi ai dipartimenti sani e di eccellenza e cure compassionevoli a quelli sofferenti e “disabili”

Rabbi Jaqov Jizchaq. «Sono quattro i dipartimenti di eccellenza dell’Università di Siena entrati nella lista dei 180 dipartimenti che otterranno fondi straordinari dal Miur nel quinquennio 2018-2022, ripartendosi 271 milioni di euro complessivi previsti annualmente, secondo quanto stabilito dalla legge di bilancio 2017. Gli esiti della selezione, molto attesi, sono stati resi noti questa sera dal Ministero. I dipartimenti premiati sono Biotecnologie, chimica e farmacia, Biotecnologie mediche, Filologia e critica delle letterature antiche e moderne, Scienze sociali, politiche e cognitive, sulla base di progetti di alto valore scientifico elaborati e presentati nei mesi scorsi, e successivamente valutati da una commissione di sette esperti individuati dal ministero in collaborazione con ANVUR.» (il Cittadino online)

Complimenti senza dubbio ai vincitori dei “ludi dipartimentali”, ultima gara dei ludi cartacei che hanno occupato gli atenei a tempo pieno in questi anni. Rimane il dubbio di fondo sul fatto che un medico non dovrebbe “giudicare” il paziente, premiandolo se è sano. Così la politica universitaria dovrebbe considerare le aree scientifiche in pesante sofferenza e valutare se culturalmente e strategicamente è il caso di curarle, piuttosto che limitarsi a giudicarle negativamente. Insomma, dovrebbe avere una visione. Molte aree scientifiche sono prossime alla scomparsa: mi chiedo se la politica universitaria, abdicando al suo ruolo, debba intervenire solo post mortem e limitarsi al ruolo di becchino, affiggendo manifesti funebri alla memoria del “caro estinto”, una volta constatato il decesso.

Fermo restando che dopo lo scioglimento delle Facoltà, dai nomi di molti nuovi dipartimenti non si capisce nemmeno quale ne sia il contenuto effettivo (e mi metto nei panni di un referee neozelandese di una rivista, che in calce ad un articolo legga l’affiliazione dell’autore), nelle condizioni in cui sono ridotti, molti settori che fanno parte di questi contenitori non sono più in grado di competere con le corazzate di grandi atenei. S’intravede per essi solo una lenta agonia e una sopravvivenza grama in una posizione ancillare. Mi domando se non sarebbe meglio chiuderli definitivamente e dislocare altrove chi vi lavora, e qui tornano utili le considerazioni fatte in precedenti messaggi intorno alla necessità di una “massa critica” per produrre qualità. Ma il punto è che il giudizio pare irreversibile in aeternum: un meccanismo che si autoalimenta, per cui ai “ludi” prossimi venturi vinceranno sempre i soliti. Questa continua accentuazione dei divari esistenti, finanziando alcuni dipartimenti a danno degli altri (ulteriormente indeboliti dunque in modo deliberato), finisce difatti per chiamare inevitabilmente in causa il destino dell’intero sistema degli atenei, questione che non può più essere elusa.

Dice giustamente Viesti: «un gruppo di tecnocrati “illuminati”… in base alla conoscenza che solo essi hanno del Bene e del Male, perseguono un disegno politico-ideologico (assai simile nelle sue linee ispiratrici a quello del partito conservatore britannico) volto ad un radicale ridisegno del sistema dell’istruzione superiore, che concentra risorse su poche sedi da essi prescelte, e destina misure compassionevoli alle altre, caratterizzate “da disabilità”, secondo l’espressione coniata da (due membri del) direttivo ANVUR.»

L’università di Siena potrà assumere professori dagli atenei in rosso o dovrà cederli a quelli virtuosi?

«Sarete venduti ai vostri nemici come schiavi e schiave, e mancherà il compratore!»

Rabbi Jaqov Jizchaq. «Le università con i conti in ordine potranno assumere prof dagli atenei in rosso. Tra le novità dell’ultima ora della manovra che si avvia al varo definitivo spunta una norma che consentirà alle università “virtuose” di assumere prof e ricercatori dagli atenei in difficoltà economiche

…con i saldi di fine stagione si aprono interessanti prospettive di risanamento. Questo conferma la tendenza monopolistica alla concentrazione e al “trust”, già evidenziata nei precedenti messaggi, che mette all’angolo le imprese di modeste dimensioni.

Non sono specificati i dettagli e non so se questo prelude comunque a una maggiore mobilità, nella cornice asfittica e immobile dell’autonomia universitaria: se un ateneo, per ragioni sue (come di fatto sta avvenendo a Siena) decide o è costretto a dismettere aree scientifiche, anche importanti, poi non sa di che farsene, in sostanza, delle persone d’avanzo che operano in quei settori ed è sensato che esse vengano dirottate in altre sedi, magari quelle viciniori – visto che oramai si parla sempre più di “integrazione”, qualunque cosa voglia dire – a creare quella “massa critica” di cui si diceva e che oramai pare essere considerata indispensabile per reggere la concorrenza. Ma non so se è questo il senso della norma succitata.

Una piccola chiosa all’Eretico: il quasi dimezzamento dell’ateneo non comporta solo un problema per la didattica (che pure in diversi settori di base, ben inteso, c’è, ed è pesante), cioè una sofferenza momentanea, sperabilmente mitigabile in un non meglio precisato futuro, un corpo debilitato, ma integro, bensì la sparizione, al presente o nel futuro prossimo, di aree scientifiche intere, e la loro mera e temporanea sopravvivenza in forma di simulacro (il che è anche peggio): uno scenario distopico, ma quanto mai realistico.

Si dice che è in atto un processo di “semplificazione”, ma la semplificazione è stata realizzata col metodo della “roulette russa”. La stessa compattazione dei dipartimenti, sovente, è avvenuta con la delicatezza e capacità di discernimento di una pressa idraulica. Voglio dire, è in corso una metamorfosi, e più in generale è proprio il volto degli atenei che sta cambiando, non una mera operazione di maquillage.

La notizia tratta dal Sole 24 Ore mi pare si collochi in questa cornice. Singolare, semmai, è che si affidi quello che dovrebbe essere un compito della politica universitaria, attraverso una programmazione razionale, alla legge del più forte, dopo che tutti gli attori si sono dichiarati fatalisticamente impotenti nel prendere decisioni risolutive.

Buone feste.

«Sarete venduti ai vostri nemici per essere schiavi e schiave, e mancheranno i compratori». (Deuteronomio 28, 68)

Alcune geniali azioni di Angelo Riccaboni per il risanamento dell’Ateneo senese

Marco Sbarra. Caro Professor Grasso, vorrei esprimerle il mio dispiacere per l’esito del processo e la speranza che quello di secondo grado possa essere a Lei favorevole.

Ora il professor Riccaboni, dopo aver così bene operato nell’Università di Siena, avrà la possibilità di mettere in mostra le sue indubbie qualità manageriali nel governo del Monte. Finalmente, grazie alla sua riconosciuta indipendenza dal Sistema Siena – l’elemento magmatico che ha “liofilizzato” pure l’Università – la Città riavrà una banca pulita, efficiente e rispettosa dell’etica.

Coraggio Professore, tenga duro e continui ad esserci d’esempio come uomo libero e coraggioso.

Rabbi Jaqov Jizchaq. C’è sicuramente l’esigenza di fare luce sul passato, ma ancor più pressante è l’esigenza di “fare luce” sul futuro. I dati parlano chiaro: i docenti di ruolo oggi sono poco più di 600, dunque perdita di 400 docenti su 1.000 a casaccio e smantellamento di intere aree scientifiche solamente a causa dell’anagrafe: anzi, chi meno mangiò al tempo delle abbuffate, quello risulta adesso più penalizzato. Anche chi dice che il numero è quello “giusto” per un piccolo ateneo, dovrebbe spiegare “giusto” per cosa, giacché si tratta semplicemente di quelli che non sono andati in pensione, senza dunque particolari affinità, che non siano quelle anagrafiche. Chi, sovente per puro caso, è sopravvissuto al terremoto, ha maturato un’insana idea di predestinazione e di onnipotenza, ritenendosi talvolta autorizzato a calpestare la dignità altrui.

E poi ci si dovrebbe chiedere se nella cornice della politica universitaria oramai consolidatasi, a prescindere dal colore dei governi (prossimo ministro: Superciuk, l’eroe dei fumetti che rubava ai poveri per donare ai ricchi), un “piccolo ateneo” povero ha una qualche possibilità di sopravvivenza, insistendo in un territorio dove nel raggio di cinquanta chilometri vi sono altri due grandi atenei ricchi. Dopo la débacle della perdita del 40% dei docenti, il reclutamento è ripreso a scartamento ridotto (non al livello di oltre il 50% come nei grandi atenei finanziariamente “virtuosi”, a causa del gravame dei debiti che ancora pesano su Siena). E poi in quali settori? Ci sono le emergenze, e poi c’è semplicemente la legge del più forte e la lotta per la vita, come Tarzan nella giungla.

«Chi è uscito vincitore dall’aspra tenzone ha idea di dove sta conducendo l’ateneo senese, vista l’ineludibile attualità dei problemi posti in luce da questo blog?»

Rabbi Jaqov Jizchaq. Le sentenze, come si usa dire, non si commentano. Ma non vorrei che per alcuni questa condanna in primo grado chiudesse la stagione del dibattito sul destino dell’Università di Siena: una volta messi alle corde ed isolati tutti coloro che hanno osato avanzare qualche obiezione, potremo giocondamente ricominciare a nutrirci di rassicuranti luoghi comuni, confortati dai sempre favorevoli giudizi del CENSIS intorno alle magnifiche sorti e progressive di Siena che trionfa immortale?

Le conseguenze individuali del terremoto che ha subito l’ateneo sulla vita di molte persone che all’università hanno avuto la ventura di capitare al momento del crollo, sono assai più gravi di una invettiva lanciata da un sito web, quando la polemica infuriava al calor bianco, che non offusca il valore del contributo politico e culturale offerto dal sito stesso. Suscita semmai raccapriccio la post-verità diffusasi oramai nella comunità cittadina, secondo cui, in fondo, all’università di Siena non è successo niente, tranne l’eliminazione di qualche persona inutile (cioè quattrocento su mille!) e qualche materiuccia superflua.

Ieri, il Corriere della Sera, recensendo il saggio di Gilberto Capano, Marino Regini e Matteo Turri «Salvare l’università italiana», ne pone in rilievo alcuni passaggi, laddove si biasimano i decenni di oscillazioni politiche intorno al modello da perseguire, “altalenando tra centralismo e autonomia, lassismo e rigore, bastone e carota”, e si sottolinea la necessità, al presente, di aggregare “i dottorati di ricerca in poche grandi scuole per differenziare in modo intelligente le aree di azione di ogni Ateneo e ottenere una massa critica che permetta di puntare a grandi progetti ed eccellenze senza disperdere energie.”

È vero che molti dottorati italiani sono la prima cosa da riformare, perché troppo spesso non costituiscono un autentico avviamento alla ricerca. In più, i posti di dottorato sono dimezzati in dieci anni. Del resto, sbocchi occupazionali non ve ne sono (“Università, crescono le borse post laurea, ma il 90% dei ricercatori sarà espulso“). Il Sole 24 Ore parla di un timido +5,5% di posti di dottorato nel 2017, a fronte di una drastica riduzione del 41,2% nell’ultimo decennio. Attualmente 10 atenei, di cui 8 del Nord, garantiscono il 42% dei posti a bando: il 49% dei posti è bandito dagli atenei del Nord, il 29% del Centro, il 21% del Sud.

Ebbene, questa lacerante incertezza è stata ripetutamente posta in evidenza in questo blog, così come l’espressione “massa critica” è stata usata, by the way, anche dal sottoscritto in alcuni interventi in questo blog. Da parte mia, alludevo in maniera più estesa e non circoscritta ai dottorati, al problema della desertificazione di vaste aree scientifiche, delle quali rimane solo il simulacro: sotto una certa “massa critica” è illusorio infatti cianciare di “ricerca” (o anche di buona didattica). Mi domando pertanto se coloro che sono usciti vincitori dall’aspra tenzone abbiano una precisa idea di dove stanno conducendo la nave. Certo non dipende solo da loro, ma i problemi dell’ateneo posti in luce da questo blog appaiono tutti di pressante ed ineludibile attualità.

Il Corriere parla anche della necessità di “una specializzazione in alcune aree scientifiche, di ciascuna università” (ibid.). Ecco, anche questo tema è stato anticipato dal blog, al momento in cui tale prospettiva è stata ventilata come panacea per la rinascita dell’ateneo senese: qui è stato ripetutamente sollevato il quesito se un ateneo ultraspecializzato (dunque ulteriormente ridimensionato) possa sopravvivere e bastare a sé stesso, oppure se questo disegno si inscrive nel progetto più generale di costituzione di grandi hub regionali, con ramificazioni locali specializzate. E in questo caso, cosa toccherebbe a Siena (siamo sicuri che ci tocchino le scienze della vita?).

Sempre il Corriere (tra gli altri), giorni or sono, recava la notizia della firma da parte della ministra, del decreto che istituisce le lauree triennali professionalizzanti: non è una svolta di poco conto, perché da un lato questo induce a chiedersi a cosa serviranno (ammesso che in passato siano servite a qualcosa) da ora in poi le lauree triennali non-professionalizzanti, e dall’altro autorizza il sospetto che accentui quella tendenza, già evidenziata in questo blog, a trasformare gli atenei medio piccoli in succursali di grandi “hub” regionali, dedite principalmente a questo compito, “teaching universities”, o scuole professionali parauniversitarie sul modello tedesco. Se all’università non si può più discutere nemmeno di questo, allora che razza di “università” sarebbe, quella attuale?

“Il termine post-verità è la traduzione dell’inglese post-truth: esso indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza”. (Wiki)

A Siena non si vede il rapporto di causa ed effetto fra il numero quasi dimezzato di docenti e la scomparsa di aree scientifiche e corsi di studio

Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo sui quotidiani che abbiamo meno università, meno docenti (-20% dal 2008), meno studenti (-70.000 in un decennio), meno corsi di studio (25% in dieci anni) e meno scuole di dottorato. «L’unico segno “più” lo registriamo riguardo al numero di ricercatrici e ricercatori precari che hanno “sostituito” personale stabile proprio a causa dell’assenza di risorse e del blocco delle assunzioni»: pare che per 10 professori di ruolo che se ne vanno, siano rientrati solo due ricercatori precari, dando corso a quella tendenza che già paventavo in altri messaggi.

A Siena, come sempre, siamo all’avanguardia: se altrove si è perso il 20% del corpo docente, qui siamo attorno al 40%, falcidiati a casaccio, sfiorando quota 600, da oltre 1000 che erano. Strano che per alcuni questi posti perduti siano stati tutte inutili bocche da sfamare, e il mantra assai demenziale che si ode è che “il rapporto studenti/docenti è ancora alto”, come se chiunque potesse insegnare qualunque cosa, le materie dovessero essere insegnate solo per finta e gli insegnamenti dovessero limitarsi a corsi di basso livello.

Ciò che risulta più mortificante è essere poi guardati come marziani quando, alla domanda di ex compagni di studio, o persone che comunque hanno frequentato l’università trent’anni fa, riguardo a questo o quell’insegnamento, questo o quel corso di studio, tu rispondi: «guarda che non esiste più da un bel po’!». Perché la gente non sa, non si rende conto, trasecola, non vede un rapporto di causa ed effetto fra la scomparsa di quasi la metà della docenza e la cancellazione di aree scientifiche e corsi di studio, o la loro sussistenza solo nominale, come simulacro, e che questo fenomeno non riguarda gli insegnamenti “sul bue muschiato”.

Molti – anche tra gli addetti ai lavori, che raramente vedono oltre il proprio orticello – trovano impossibile che siano scomparse o stiano scomparendo diverse aree scientifiche di base. Sicché sei tu il lunatico, non la realtà che è dura. Se dici certe cose, infatti, ti fanno il vuoto intorno e vieni soffocato da nubi tossiche di banalità e di volgarità, buone per tutte le stagioni, ma ahimè, inadeguate alla particolare stagione che stiamo vivendo. Del resto il tappeto di luoghi comuni che come rumore di fondo si è steso su questo tema ha diffuso la falsa convinzione che ciò che è accaduto sia stato solo un lieve stormir di fronde: Roma rinascerà più forte e più potente che pria.

Vedo l’interessante trasmissione “La tela del ragno“, condotta da Raffaella Zelia Ruscitto, dedicata all’università di Siena. Capitolo concorsi. Il prof. Neri dice parole sagge. La proposta dell’esponente del M5S relativa ai concorsi è interessante e mi sentirei di condividerla, ma altro non mi sembra essere, se non il ritorno all’università precedente all’autonomia (simpatico eufemismo) universitaria, cioè a dire, sparare un pezzo da novanta. Quanto all’auspicio del prof. Neri che Siena non diventi un campus di un ateneo regionale, mi rimane difficile pensare cosa possa diventare un ateneo lillipuziano con seicento docenti a fronte di un ateneo con duemila docenti e quasi il quadruplo di studenti che insiste sul medesimo territorio, se non un suo satellite. Se poi il progetto è quello di realizzare un campus ultraspecializzato di uno “hub”, cosa di cui mi sentirei di dubitare), si decida la sorte di chi non rientra in questo progetto, che è grosso modo un terzo di quei seicento docenti circumcirca sopravvissuti al disastro. Soprattutto non si pensi (convinzione diffusasi perniciosamente in anni recenti) di fare le nozze coi fichi secchi.

Le profonde ferite inferte nel corpo vivo dell’ateneo senese sono una sua “razionalizzazione”?

altan-dibattitoRabbi Jaqov Jizchaq. Scrive il Rettore Francesco Frati nel discorso di rettorato: «L’Ateneo del 2017 non è soltanto risanato: è anche diverso da quello del 2010 (…) ho ereditato un Ateneo che nel periodo del risanamento è stato in grado di mantenere, o addirittura accrescere, la propria attrattività garantendo standard qualitativi di didattica molto elevati, razionalizzare l’offerta formativa…».

Passata è la tempesta, odo augelli far festa …. diverso, per forza di cose, dopo dieci anni di blocco del turnover: avendo tra il 2008 e oggi già circa 350 stipendi in meno da pagare (e non è finita: il grafico su in alto ci dice che oltre un centinaio sono già con le valige in mano), i conti vanno necessariamente meglio. Se però è chiaro che l’ateneo è “diverso” da com’era prima della crisi che l’ha investito, non è viceversa chiaro a cosa sarà “uguale” domani. Per questo trovo irritanti le sortite di chi dà del disfattista a chiunque chieda di tenere aperto, specie in questa fase della politica nazionale, il dibattito sul destino dell’ateneo (o per meglio dire, dell’intero sistema degli atenei pubblici).

Mi lascia più che altro perplesso l’eufemismo “razionalizzato”: quasi a imprimere una nota positiva al pesante ridimensionamento dell’ateneo, sembra alludere al fatto che dietro tutto ciò vi sia stato un lavoro ponderato mirante ad eliminare le “cose inutili”, e che solo le “cose inutili” (nonché “le persone inutili”) siano state eliminate od emarginate. Sicché i salvati, e chi resta, sono tutti e soli quelli utili.

Fuori dalle cerimonie ufficiali è forse più corretto dire che si è fatto (o tentato di fare) di necessità virtù per tappare voragini che si sono aperte un po’ a caso, non nelle “cose inutili”, bensì in settori strategici e in materie fondamentali. Ci si è sforzati, in una condizione di penuria senza precedenti (lodevolmente, in molti casi, ma in altri casi in modo altamente opinabile e poco o punto dettato dalla ragione), di attuare riforme universitarie le quali, mentre da un lato proponevano un certo paradigma di organizzazione, dall’altro creavano le condizioni perché fosse impossibile adeguarvisi sensatamente. Forse subdolamente, in tal modo già delineando quella partizione fra “teaching university” e “research university” che costituisce l’obiettivo delle politiche universitarie di questi anni.

Bisogna quindi intendersi sulle parole che si usano. I sociologi distinguono, tra gli altri, questi tipi di razionalità:

“agire razionale rispetto allo scopo”: un’azione si dice razionale rispetto allo scopo se chi la compie valuta razionalmente i mezzi rispetto agli scopi che si prefigge, considera gli scopi in rapporto alle conseguenze che potrebbero derivarne, paragona i diversi scopi possibili e i loro rapporti;

“agire razionale rispetto al valore”: un’azione si dice razionale rispetto al valore quando chi agisce compie ciò che ritiene gli sia comandato dal dovere, dalla dignità, da un precetto religioso, da una causa che reputa giusta, senza preoccuparsi delle conseguenze.

Prendendo dunque a prestito queste categorie weberiane, direi che in un contesto dove oramai le politiche universitarie dei governi di diverso colore succedutisi sembrano convergere nell’idea di concentrare le risorse per la creazione di “grossi hub”, o “centri di eccellenza”, dove si farà la ricerca e dove risiederanno i gruppi di ricerca, occorre da un lato chiarire meglio quali siano gli scopi a medio termine che ci si sono prefissi, e dall’altro quali i valori che si intendono tutelare ed affermare.

Capisco che l’occasione solenne richiedeva un tono positivo e improntato all’ottimismo, ma è difficile considerare “una razionalizzazione” le profonde ferite inferte nel corpo vivo dell’ateneo negli anni passati. E talune scelte sono “razionali”, a posteriori, giusto perché sono state compiute (“was wirklich ist, das ist vernünftig”!): “razionale”, forse, semplicemente in quanto prodotto di un processo il quale, date certe premesse, si ritiene – non sempre a ragione – che ineluttabilmente non potesse attuarsi in modo differente da come è stato. In questo senso la parola “razionale” può essere però molto pericolosa.

Servono ancora le università, se si studia per avere i crediti formativi e non per la conoscenza?

Gianluca Vago

Gianluca Vago

Rabbi Jaqov Jizchaq. “Servono ancora le università?“. «È con una domanda provocatoria che il rettore dell’università Statale di Milano, Gianluca Vago, ha inaugurato l’anno accademico del suo ateneo. Una riflessione amara sul ruolo della formazione – sia superiore che universitaria – che rischia di prendere una “deriva commerciale e quantitativa”, dove si studia per avere i crediti formativi e non per la conoscenza. Un sistema in cui “qualcuno vorrebbe trattare lo studente sempre più spesso come un cliente… Dobbiamo raccontare chi siamo, più ancora che quello che sappiamo – ha detto Vago a proposito della missione dell’università –: questo è quello che dobbiamo ai nostri studenti, lo devono i veri maestri ai propri allievi… ogni viltà, ogni opportunismo, ogni scorciatoia facile, ogni mediocre privilegio, ogni gratuita e svogliata inefficienza, ogni superficiale pressapochismo sono una ferita che lacera la speranza dei nostri ragazzi e piega la loro fiducia».

Adesso, non è che si chieda di essere “guidati dall’inesorabilità di quella missione spirituale che ingiunge al destino del popolo tedesco di congiungersi con l’impronta della propria storia”, come esordiva il tonitruante Martin Heidegger nel suo discorso di rettorato all’università di Friburgo (Dio ce ne guardi!), ma ribadisco, che a mio modestissimo avviso, urge un chiarimento sul destino dell’università italiana: se non di potenti atenei come Milano, che hanno le gambe per stare in piedi, almeno degli atenei come Siena, che mi pare non siano esattamente in procinto di “congiungersi con la propria storia”, bensì semmai di distaccarsene definitivamente.

Le parole del rettore Vago tornano particolarmente appropriate nel “giorno della memoria”, laddove egli insiste sulla necessità di “trasmettere a giovani valore conoscenza”, puntando il dito contro un sistema “in cui si fanno gli esami per avere punti e non per acquisire conoscenza”. Conoscenza e memoria, in un’Europa che sembra aver perso la memoria e in un paese in preda all’oblio:

«La mia prima lingua è stata il tedesco, la seconda l’ucraino, con i nonni parlavo in yiddish, nei dintorni si parlava rumeno, i vicini di casa erano polacchi e pertanto con loro si parlava in polacco, e gli intellettuali parlavano francese. Ma in Europa ho frequentato solo la prima elementare. Poi è arrivata la guerra, e con essa il ghetto, i campi di concentramento, la foresta. Quando sono arrivato in Eretz Israel avevo quattordici anni e non avevo una lingua…. Nel ghetto di Czernowitz i miei nonni parlavano yiddish. Le cameriere a casa mia erano ucraine, così parlavo ucraino. All’inizio il regime era rumeno, così appresi un po’ di rumeno. Poi diventammo Russia e io imparai un po’ di russo. Quando mi accolse l’Italia appresi anche un po’ di italiano. Crebbi così con un grappolo di parole e lingue straniere che non fecero che disorientarmi profondamente. Alla fine verrà l’ebraico pronunciato per la prima volta a Napoli, nutrito della lettura della Bibbia, e sarà la lingua della mia vita e dei miei libri». Aharon Appelfeld

Il punto della situazione universitaria traendo spunto dai titoli della Comédie humaine

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Rabbi Jaqov Jizchaq. Facciamo dunque balzachianamente il punto della situazione, come agenda per l’anno appena iniziato, traendo spunto dai titoli della Comédie humaine:

Le théâtre comme il est
«Ffo 2016, cambiando l’ordine dei parametri la povertà delle università non cambia… il ministero ha sicuramente proseguito la propria politica, lasciando sostanzialmente invariati i fondi dopo gli 800 milioni di tagli dal 2008, incrementando il peso della quota premiale, che per il 2016 passa dal 20% al 22%, ed aumentando dal -2 al -2,25% le perdite massime che possono subire gli atenei. Dall’altro lato, però, il risultato della distribuzione della quota premiale contiene delle novità: la quota premiale registra forti cali per atenei ampiamente premiati negli anni precedenti, mentre aumenta in modo netto per alcuni Atenei in passato penalizzati. Tutto questo avviene non per un cambiamento della qualità di didattica e di ricerca degli atenei, ma per un semplice cambiamento delle scale utilizzate per pesare i risultati della nuova Valutazione della qualità della ricerca (Vqr 2011-2014), e per effetto delle clausole di salvaguardia, che ha portato a dei risultati maggiormente concentrati attorno al valore medio.»

La Muse du département
Perugia ebbe la sua musa: «Miur distribuisce la quota premiale dei Fondi 2016. Redistribuzione al Sud. E l’ateneo della Giannini raddoppia: +115%. (…) Nella Top Ten, per il Nord compaiono solo Venezia Iuav e Ca’ Foscari, Torino e Genova. La peggiore in assoluto, invece, è Siena (-39,4%, pari a circa 11 milioni in meno), ma pagano anche università rinomate come Milano (-8,6%), Firenze (-6,8%) e persino la Normale di Pisa (-2%).»

Aventures administratives
«L’Università di Siena si conferma ancora una volta tra le migliori Università italiane, conquistando il sesto posto nella classifica pubblicata dal Sole 24 Ore. (…) Come recentemente dimostrato anche dalla valutazione di ANVUR – ha precisato il Rettore – la qualità della ricerca dei docenti di USiena continua ad essere ben superiore alla media nazionale: un risultato conseguito mentre l’Ateneo stava uscendo dalla propria crisi finanziaria.»

Se Siena è sesta nella classifica del Sole 24 ore, l’uomo della strada (che d’ora innanzi chiamerò Simplicio) non capisce come mai continuano a tagliarle i fondi che in teoria dovrebbero premiare il merito. Qui c’è qualcosa che non quadra.
O la classifica del Sole 24ore non è attendibile, o non è attendibile l’ANVUR, ne conclude Simplicio.
L’ANVUR (si chiede Simplicio, con sconcerto) ti punisce perché la qualità della tua ricerca è molto elevata, come essa stessa riconosce? In realtà un parametro che ha determinato la caduta in disgrazia di Siena agli occhi dell’ANVUR è stato la scarsa produttività scientifica dei nuovi assunti (sic, uno degli IRAS): marrani fannulloni!, griderà Simplicio, scandalizzato. Orbene, questa affermazione è vera a vuoto, giacché per dieci anni non ci sono stati affatto nuovi assunti perché il turnover era bloccato! Non solo: «continuano a perdere finanziamenti tutti quegli atenei che hanno visto crollare i propri iscritti negli ultimi anni, anche quando la quota premiale cresce. Ciò è causato dal peso sempre maggiore dato al costo standard per studente nella suddivisione della quota storica del Ffo (arrivato al 28% della quota base).» E qui mi pare che di studenti ne siano evaporati 15.000 circumcirca: del resto sono stati anche chiusi decine di corsi di laurea, avviando in tal modo un circolo vizioso.

Anatomie des corps enseignants
In generale la forte contrazione del corpo docente senese (400 pensionamenti di docenti tra il 2008 e il 2020, su 1056 che erano, con forse due o tre dozzine di rimpiazzi di ruolo da qui a tre anni), salutata da Simplicio come un bene (“eh so’ troppiii!”) di certo non ha giovato né alla mole, né all’organizzazione della ricerca, oltre a tramortire una generazione di ricercatori. Il Rettore, giustamente, sottolinea la necessità urgente di riprendere le assunzioni ed annuncia con un certo sollievo la fine del Ramadan, anche se le assunzioni future di certo non compenseranno la drammatica perdita subita, né copriranno molte delle voragini che si sono aperte. Sarebbe dunque utile per tutti capire in che direzione evolverà l’ateneo, che non sarà di certo quello di prima (nel bene e, si spera, neanche nel male).

L’Envers de l’histoire contemporaine
L’esclamazione “eh so’ troppiiii!” di Simplicio è singolarmente contraddetta (oltre che dai dati OCSE) da quest’altra notizia: «Il 70 per cento degli italiani è analfabeta (legge, guarda, ascolta, ma non capisce).»

Adam-le-Chercheur
Ogni tanto qualcuno si ricorda di sottolineare anche «il dramma degli attuali oltre 40.000 ricercatori destinati, come coloro che li hanno preceduti, all’espulsione dall’Università, senza che si sia dato loro alcuna seria possibilità di concorrere a posti di docenza a tempo indeterminato. Il precariato non è un incidente, ma il frutto di una lucida e cinica scelta di chi vuole una docenza universitaria con pochi docenti ‘veri’ (gli ordinari), un po’ più di docenti subalterni (gli associati) e decine di miglia di precari “usa e getta”, sparpagliati in una giungla di figure (dottorandi, borsisti, assegnisti, ricercatori a tempo determinato, ecc). Precari senza i quali non sarebbe possibile assicurare i già ridotti livelli di ricerca e di didattica.»

Les martyrs ignorés
Ed ecco su cosa si fonda la “meritocrazia” italica. Vorrei sapere questi qua che stipendio hanno, come faranno a mettere su famiglia (se nessuno li mantiene) e che pensione avranno. L’implementazione della riforma del 3+2 è avvenuta con lo sfruttamento massiccio del lavoro precario e della “terza fascia” (i ricercatori) poi abolita. È evidente che un simile metodo di scrematura prevede che il ricercatore non abbia necessità economiche di sopravvivenza, dunque è basato essenzialmente sul censo, altro che abracadabravaneliana “meritocrazia”!.

Les parents pauvres
Il sottosegretario, Gabriele Toccafondi afferma: «Con un tasso di disoccupazione giovanile che è tornato a sfiorare il 40% è opportuno che anche l’università allarghi la sua offerta professionalizzante, ma ciò non deve andare a discapito degli Its, un segmento dell’offerta formativa che ha dimostrato, in questi anni, di funzionare con un tasso d’occupazione dei neo-diplomati superiore all’80 per cento».

A pensar male si fa peccato, ma… non è che quello di sfornare diplomi professionalizzanti diverrà lo scopo principale degli atenei minori (i parenti poveri) di provincia?

Histoire des Treize (meno 1)
«Assoluzione dall’accusa di falso in atto pubblico per i 12 imputati al processo per il ‘buco’ da 200 milioni di euro nei bilanci.»
Il Tribunale di Siena sentenzia: «la vicenda dell’Università di Siena che oggi occupa il Tribunale, in definitiva, “non è una storia di ruberie”, nel senso che il buco di bilancio non è risultato essere il frutto di appropriazioni o distrazioni. Con riferimento a tale ultima affermazione, occorre però precisarsi che – se è ben vero, come appena detto che quella dell’Università di Siena “non è una storia di ruberie” – è altrettanto innegabile come essa costituisca il frutto di una (non meno grave ed allarmante) gestione di ingenti risorse pubbliche assolutamente dissennata e fuori controllo (…), di dipendenti infedeli e di mancati o inadeguati controlli da parte degli organi apicali di indirizzo politico-amministrativo (Rettori e Direttori amministrativi) e di vigilanza (Collegio dei Revisori). Tutto ciò in totale spregio, non solo delle comuni regole di buona amministrazione, ma anche e soprattutto del senso dello Stato che dovrebbe costituire l’idem sentire di chi svolge una funzione pubblica “con disciplina ed onore” (come impone l’art. 54, comma 2, della Costituzione) e con evidentissime ricadute negative sul buon andamento della gestione della res publica (art. 97 Cost.).»

Splendeurs et misères des courtisanes
Come reazione alle esternazioni di Cantone (un assist perfetto) sul nepotismo e la cortigianeria: «il governo sta per varare una contromisura: un fondo intitolato al Nobel Giulio Natta per finanziare la chiamata diretta di 500 docenti scelti, senza concorso, tra i migliori ricercatori italiani e stranieri» (scrive Francesco Margiocco, giornalista del Secolo XIX). Gli fa eco, lesta, una esponente politica della maggioranza: «il decreto Natta sarà una sperimentazione per la selezione dei docenti universitari. Potrebbe rivelarsi un procedimento da estendere a tutti i docenti universitari, non solo alle supercattedre.»

Per abolire la cortigianeria si istituisce un canale speciale di reclutamento, con commissioni … di diretta nomina politica?!?!?! Pensando di generalizzare il metodo?!?!?!?!! Ohibò…

Illusions perdues
«Sono bravi: questo nessuno lo mette in dubbio. Ma sono penalizzati dal vivere nel Paese che investe meno di tutti in ricerca, in Europa. Le capacità degli scienziati italiani non sono evidentemente in discussione, se uno studio clinico su cinque di quelli prodotti nel Vecchio Continente giunge da quello che era il Belpaese.
Numeri che vengono confermati su scala mondiale, dove gli scienziati italiani sono ottavi, alle spalle dei colleghi che operano in contesti di ben altra levatura: dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Cina alla Germania. Paesi che investono molto più dell’Italia e che attraggono i cervelli nostrani: poco apprezzati entro i confini nazionali, merce pregiata al di là delle Alpi.»

«In Italia … la spesa complessiva per l’istruzione universitaria è ferma allo 0.9% del PIL, penultima fra gli Stati dell’area Ocse e contro una media UE pari all’1,5%.»