Premi ai dipartimenti sani e di eccellenza e cure compassionevoli a quelli sofferenti e “disabili”

Rabbi Jaqov Jizchaq. «Sono quattro i dipartimenti di eccellenza dell’Università di Siena entrati nella lista dei 180 dipartimenti che otterranno fondi straordinari dal Miur nel quinquennio 2018-2022, ripartendosi 271 milioni di euro complessivi previsti annualmente, secondo quanto stabilito dalla legge di bilancio 2017. Gli esiti della selezione, molto attesi, sono stati resi noti questa sera dal Ministero. I dipartimenti premiati sono Biotecnologie, chimica e farmacia, Biotecnologie mediche, Filologia e critica delle letterature antiche e moderne, Scienze sociali, politiche e cognitive, sulla base di progetti di alto valore scientifico elaborati e presentati nei mesi scorsi, e successivamente valutati da una commissione di sette esperti individuati dal ministero in collaborazione con ANVUR.» (il Cittadino online)

Complimenti senza dubbio ai vincitori dei “ludi dipartimentali”, ultima gara dei ludi cartacei che hanno occupato gli atenei a tempo pieno in questi anni. Rimane il dubbio di fondo sul fatto che un medico non dovrebbe “giudicare” il paziente, premiandolo se è sano. Così la politica universitaria dovrebbe considerare le aree scientifiche in pesante sofferenza e valutare se culturalmente e strategicamente è il caso di curarle, piuttosto che limitarsi a giudicarle negativamente. Insomma, dovrebbe avere una visione. Molte aree scientifiche sono prossime alla scomparsa: mi chiedo se la politica universitaria, abdicando al suo ruolo, debba intervenire solo post mortem e limitarsi al ruolo di becchino, affiggendo manifesti funebri alla memoria del “caro estinto”, una volta constatato il decesso.

Fermo restando che dopo lo scioglimento delle Facoltà, dai nomi di molti nuovi dipartimenti non si capisce nemmeno quale ne sia il contenuto effettivo (e mi metto nei panni di un referee neozelandese di una rivista, che in calce ad un articolo legga l’affiliazione dell’autore), nelle condizioni in cui sono ridotti, molti settori che fanno parte di questi contenitori non sono più in grado di competere con le corazzate di grandi atenei. S’intravede per essi solo una lenta agonia e una sopravvivenza grama in una posizione ancillare. Mi domando se non sarebbe meglio chiuderli definitivamente e dislocare altrove chi vi lavora, e qui tornano utili le considerazioni fatte in precedenti messaggi intorno alla necessità di una “massa critica” per produrre qualità. Ma il punto è che il giudizio pare irreversibile in aeternum: un meccanismo che si autoalimenta, per cui ai “ludi” prossimi venturi vinceranno sempre i soliti. Questa continua accentuazione dei divari esistenti, finanziando alcuni dipartimenti a danno degli altri (ulteriormente indeboliti dunque in modo deliberato), finisce difatti per chiamare inevitabilmente in causa il destino dell’intero sistema degli atenei, questione che non può più essere elusa.

Dice giustamente Viesti: «un gruppo di tecnocrati “illuminati”… in base alla conoscenza che solo essi hanno del Bene e del Male, perseguono un disegno politico-ideologico (assai simile nelle sue linee ispiratrici a quello del partito conservatore britannico) volto ad un radicale ridisegno del sistema dell’istruzione superiore, che concentra risorse su poche sedi da essi prescelte, e destina misure compassionevoli alle altre, caratterizzate “da disabilità”, secondo l’espressione coniata da (due membri del) direttivo ANVUR.»

Per costruire “pochi grossi hub della ricerca” si marginalizza chi lavora negli atenei minori del centro-sud

Altan-tagli-culturaRabbi Jaqov Jizchaq. «Il risveglio di Forza Italia». De mortuis nil nisi bonum dicendum est, certo Siena ha combinato dei guai attribuibili principalmente (ma non solo: il “groviglio armonioso” politico-familiare) alla sua élite politica ed accademica, che afferisce ad un’area politica ben precisa. Essa ha offerto su un piatto d’argento la propria testa a chi gliela voleva tagliare (sempre all’avanguardia!), ma il fenomeno detto della “compressione selettiva” del sistema universitario, che vede la marginalizzazione sempre maggiore degli atenei medio-piccoli è politica nazionale, perfettamente bipartisan, oramai da tempo.

A me pare che la politica universitaria sia perfettamente bipartisan all’insegna della continuità. Scrive il prof. Viesti, autore del volume «Università in declino. Indagine sugli atenei da Nord e Sud»: «la cosa che stupisce è che non c’è nessuna differenza fra Berlusconi, Monti, Letta, Renzi. La politica è assolutamente identica. Di questa politica non si è occupato il Parlamento, nel senso che non ho trovato evidenza di discussioni parlamentari su questi temi. Ho trovato invece evidenza di un pensiero unico, di una rappresentazione sciatta dell’università». Si fa notare in particolare che l’Italia investe meno di 7 miliardi nella sua università, mentre la Germania 26. L’Italia ha tagliato gli investimenti del 22%, la Germania li ha aumentati del 23%.

L’articolo citato comincia col ricordare anche il fallimento della legge Berlinguer-Zecchino del «3+2», che ha mancato in pieno l’obiettivo del 40% di laureati entro il 2020: «Siamo all’ultimo posto nell’Europa a 28 con il 23,9%.» Si è altresì sostenuto in modo bipartisan che la riforma Gelmini fosse «di gran lunga la migliore riforma fatta dal governo Berlusconi» (Zingales). Sulla stessa linea editorialisti come Abravanel o Giavazzi: dunque, perché discostarsene? Alla riforma Gelmini dobbiamo l’ANVUR e Renzi ha fatto suo il “dictum” gelminiano della qualità e dei “pochi hub della ricerca”, che porta a distinguere fra sommersi e salvati: «Negare che vi siano diverse qualità nell’università è ridicolo – ha detto Renzi – Ci sono università di serie A e B nei fatti e rifiutare la logica del merito e la valutazione dentro l’università e pensare che tutte possano essere uguali è antidemocratico, non solo antimeritocratico».

Sotto Profumo è proseguita la contrazione dell’università italiana, e in particolare si è verificata la riduzione del numero di docenti dai quasi 60.000 a circa 40.000. Allora di che lamentarsi, se sono tutti d’accordo? Il compianto Giorgio Israel ebbe a scrivere: «non c’è né Spectre né Protocolli, ma un’agenzia molto trasparente che ha lanciato da tempo un’Opa sul sistema dell’istruzione italiano (tutto, scuola e università). È Confindustria […]. Un modo per formare quadri aziendali gratis e avere un ufficio studi a costo zero.»

Lo dico in maniera del tutto oggettiva ed avalutativa. Nel senso che può darsi che tutti codesti signori che propugnano la teoria dei “pochi grossi hub della ricerca” affiancati da satelliti detti “teaching universities”, con tutte le prevedibili conseguenze (non equipollenza di fatto delle lauree, contrattualizzazione delle posizioni lavorative ecc.) abbiano ragione e chi li osteggia abbia torto. Chiedo solo che siano conseguenti e traggano le conclusioni dai principi che postulano: come pensano di attuare i loro propositi?

Anche ammettendo la plausibilità di una simile metamorfosi del sistema, essa non può attuarsi difatti semplicemente attraverso la mera marginalizzazione, dunque la punizione di massa, nei confronti di chi lavora negli atenei minori, principalmente del centro-sud, né lasciando marcire le situazioni, attraverso la lenta eutanasia delle aree scientifiche non funzionali al disegno di trasformazione degli atenei minori in una sorta di Fachhochschule o Community College professionalizzanti. Vogliono realizzare sistemi integrati di atenei, ma non c’è coordinamento, né mobilità: come già detto, qualcuno pensa di realizzare “l’armonia prestabilita” fra monadi non comunicanti. La disaffezione dalla politica, l’opzione nichilista o “populista”, alla fine sono conseguenza della rassegnata constatazione di questa incapacità della politica di uscire dalla stasi e dalla stagnazione.

«Mieux vaut un désastre qu’un désêtre.» Alain Badiou