Continuiamo a riflettere con un altro grande vecchio della politica, Emanuele Macaluso, intervistato da Daniela Preziosi per “il manifesto”

Macaluso: «Una destra pericolosa, nessuno ora indebolisca il centrosinistra»

Daniela Preziosi (il manifesto, 10 agosto 2019). Per orientarsi nella crisi di governo di questi giorni non si può trovare una traccia in una delle altre della storia repubblicana. Questo spiega Emanuele Macaluso, che pure di crisi di governo ne ha viste e vissute tante: da dirigente comunista, da sindacale, da direttore dell’Unità. A marzo ha festeggiato – anche qui sul manifesto – i suoi 95 anni. Ma, «una crisi così prima non poteva succedere», ragiona. E il motivo è semplice: prima «c’erano i partiti, le personalità politiche».

Di Maio, Conte e Salvini. Ecco le personalità di questi tempi. Che opinione ne hai?
Di Maio sembra uno che ha vinto la lotteria: vicepresidente del consiglio e due ministeri. E crede di sapere i numeri. Diciamo le cose come stanno: è un ignorantello, non ha cultura, né generale né politica, non ha storia, non esiste al mondo una persona che passa da quello che ha fatto, cioè niente, a vicepresidente del consiglio. Già questo dice cosa è stato questo governo. Non ha mai letto un libro, non so neanche se prima leggeva i giornali.

Inadeguato.
Diciamo le cose come stanno: sono stati loro. È stato Di Maio a costruire le fortune di Salvini. Che è arrivato al 36 per cento grazie a Di Maio. E a Conte. Gli hanno fatto fare quello che voleva. Gli hanno approvato tutte le leggi. Il cosiddetto ministro dei trasporti (Toninelli, ndr) gli ha chiuso i porti. Il presidente del consiglio, che costituzionalmente è il responsabile della politica del governo, non ha detto mai una parola su questo. Come se non ci fosse. Ha consentito che Salvini non facesse il ministro: non andava al Viminale, cambiava casacche, un giorno poliziotto, poi pompiere, poi finanziere. E Conte muto. Salvini è stato costruito dall’impotenza, dall’incapacità, dalla miseria politica dei grillini. Solo oggi che Salvini li ha messi fuori se ne sono accorti.

Conte in queste ore rivendica il suo ruolo. I 5 stelle sono emendabili, redimibili?

Conte si è accorto di essere presidente del consiglio da poco. Sono emendabili? Bisogna vedere come andrà il voto. Se diventano un partito marginale forse si innescherà un processo politico. Il Pd, con altre forze di centrosinistra – +Europa, Leu, altre – tutti insieme potrebbero superare il 30 per cento. A quel punto il sistema tornerà ad essere destra, estrema, contro centrosinistra. Anche con quelli che oggi pensano che ci voglia un partito centrista: ma un partito non si inventa a tavolino, o c’è o non c’è.

In quel caso c’è qualcosa da recuperare nei 5 stelle?
C’è una destra estrema molto pericolosa. Il problema centrale è la battaglia per la democrazia e le libertà, perché oggi questo è in discussione. E la questione sociale si è innervata con quella della libertà e della democrazia. Dunque i 5 stelle sono emendabili? Non lo so, se saranno un partito minore, se sparisce Di Maio e torna a fare quello che faceva – cioè niente –, se si sganciano da Rousseau e dalla dipendenza da Casaleggio. Forse la sconfitta può innescare processi che ora non possiamo rivedere.

Dicevi che la destra nazionalista è pericolosa. Questa legislatura ci lascia istituzioni indebolite, come ha detto Rino Formica a questo giornale?
In questa legislatura il parlamento non ha contato niente, tranne che per fare le leggi che servivano a Salvini. L’occupazione dell’informazione pubblica è sfacciata, basta guardare il Tg2. Ci sono le minacce ai giornalisti. Davanti al cronista di Repubblica (Lo Muzio, che ha ripreso il figlio di Salvini su una moto d’acqua della polizia, ndr) Salvini poteva chiedere scusa. E invece no, ha voluto dare un segnale: per i giornalisti che non sono servi c’è il disprezzo, il tentativo di ammutolirli. Questi miserabili dei grillini hanno tentato di uccidere Radio Radicale, il manifesto, l’Avvenire, i giornali locali. Quello che è avvenuto in questa legislatura è la premessa a possibili sviluppi peggiori.

Ora Salvini chiede agli elettori: «Datemi pieni poteri». Cosa vuol dire questa frase?
Ecco, l’altro problema, che per me è il principale del sistema democratico italiano, è un pauroso abbassamento della cultura politica di massa. Un bracciante siciliano dei miei tempi aveva più cultura politica di quanta ne abbia Conte o Di Maio. La tanto criticata educazione politica dei vecchi partiti non erano le Frattocchie, era il rapporto con le masse popolari, che ora si chiama ‘il territorio’. C’erano i giornali delle forze politiche, le riviste, le sezioni, si parlava con le persone. Tutto questo è finito, non da oggi, da trent’anni. Oggi i politici parlano alla pancia perché alla testa non parla nessuno. Oggi non si conosce e non si riflette su cosa succede nel resto mondo.

Sulla «situazione internazionale», come si diceva ai tempi del Pci?
Perché si sapeva che c’era un rapporto con la realtà che vivevi. Ecco, un’altra istituzione in pericolo è in Europa. Non so se Salvini pensa all’uscita dell’Italia dall’Unione, ma ha già annunciato che la conflittualità antieuropea sarà durissima. Ho letto sul Corriere l’intervista a Bannon. Rivela i rapporti con l’estrema destra americana e con Putin. Tutte forze antieuropee.

Salvini è eterodiretto?
Non dico questo, ma ha un’ispirazione politica nelle forze di estrema destra in America. E con Putin, che vuole fottere l’Europa.

Tu sei amico di un presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, considerato molto interventista. L’attuale presidente Mattarella ha un altro stile. Ma credi che ci sia bisogno di una sua azione più esplicita?
Conosco bene Mattarella. È un democratico, uno su cui il paese può fare affidamento. Forse non è riuscito ad avere uno staff all’altezza. E in una situazione del genere, glielo dico con grande amicizia, il presidente della Repubblica deve usare le sue competenze costituzionali fino in fondo. Se è vero quello che penso sui pericoli che corre il paese, certo al presiedente si pongono problemi seri e nuovi. La garanzia di alcune istituzioni, compreso il ruolo del Parlamento, si porrà in maniera più acuta. Ma ho fiducia che lui possa affrontare questi temi con energia. Non è un pavido, nel 1990 non esitò a dimettersi da ministro (contro la legge Mammì, ndr).

E siamo arrivati al Pd. 
Ma la storia comincia con il Pds e i Ds. L’obiettivo del governo era un problema importante per gli eredi di un partito, il Pci, che era stato sempre fuori dal governo, tranne che subito dopo la Liberazione e poi con Moro, nell’area di governo. Ma non poteva essere l’unico obiettivo: quei dirigenti non hanno più posto attenzione ai processi sociali, culturali e sociali. Altrimenti non si spiega che sia avanzata questa destra, anche nel Mezzogiorno dove la Lega tifava per l’Etna e il Vesuvio. È avvenuto un processo in cui le generazioni che c’erano e quelle che sono venute dopo hanno perso le fondamenta di una forza democratica di sinistra. È stata spazzata via la presenza nel territorio, il rapporto personale, nei quartieri, nelle fabbriche, nella scuola. Oggi c’è la rete, ma non basta. Obama faceva comizi, anche piccoli. Così Sanders e i democratici. Comizi in camicia come li facevamo noi negli anni 50 e 60. Salvini l’ha capito, infatti è l’unico che fa ancora comizi.

Il segretario Zingaretti intanto fa appello all’unità del partito. Renzi riuscirà ad accettarlo?
Lo spero. Con lui non ho mai parlato. Non nego che abbia delle qualità. Ma da come interviene si capisce che non ha esaminato autocriticamente le ragioni della sua caduta. Continua a dare le responsabilità agli altri, non vede il suo eccessivo personalismo. Da questo punto di vista non ha riflettuto. Invece dovrebbe. Potrebbe avere un avvenire politico, ma dentro una forza politica. Così si faceva nella Dc, visto che viene da lì. I ‘cavalli di razza’ si alternavano, Moro, Fanfani, De Mita. Fra loro c’è stata competizione, a momenti anche molto dura, ma avevano capito che se si spaccavano finivano. Dopo il ’68 Moro, che era stato presidente del consiglio, fu messo fuori dai dorotei; lui fece una corrente e al congresso prese il 7 per cento. Poi però diventò presidente del consiglio e capo del partito fino a quando fu rapito e ucciso. Questa è la dialettica. Non so se l’ha capito Renzi: se spacca, darà certo un colpo al Pd ma anche lui conterà niente. Se ne è capace, deve reggere una dialettica: competa, il futuro non lo sa nessuno.

Zingaretti ha i numeri per questa fase così delicata? 
Oggi in tutto il mondo politico non c’è più il meglio: i grandi partiti, i Togliatti, i De Gasperi, i Moro e i Nenni. Siamo in piena crisi della politica, altrimenti non avremmo i Di Maio e i Salvini. E la sinistra vive in questa crisi. Quindi bisogna stare attenti a quello che c’è, valutare quello che è possibile. Zingaretti è il meno peggio che oggi il Pd possa esprimere. Ha equilibro, sensibilità, un minimo di cultura politica, ha fatto il parlamentare europeo, ha fatto bene il presidente di regione. Io non sono iscritto al Pd, ho scritto un libro che si intitola «Al capolinea» e per me il Pd soffre il modo com’è nato. Ma siccome ora non c’è altro – ripeto: non c’è altro – dico a tutti che demolirlo significa rafforzare la destra. Quindi bisogna semmai dare argomenti, suggerire temi, mettere in campo questioni, anche fuori dal partito. E bisogna avere la capacità di cogliere quello che di positivo c’è fuori dal partito. Avere molta attenzione al mondo sindacale: il Pd, e non solo Renzi, ha la responsabilità di non averlo capito. E in Italia la questione sociale si intreccia alla questione dell’immigrazione. Perché la questione sociale resta sempre essenziale per una forza di sinistra.

Riflettiamo con Rino Formica, intervistato da Daniela Preziosi per “il manifesto”

Rino Formica

Rino Formica: «È l’ultima chiamata prima della guerra civile. Ora il Presidente parli».

Daniela Preziosi (il manifesto, 8 agosto 2019). «Quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica, o decide la forza. Se non ci sono soluzioni democratiche c’è la guerra civile». Con Rino Formica – classe 1927, socialista, più volte ministro, da più di mezzo secolo le sue definizioni della politica e dei politici sono sentenze affilate, arcinote e definitive – il viaggio per approdare all’oggi, un oggi drammatico, inizia da lontano. Con il Pietro Nenni «di quei dieci giorni lunghi quanto un secolo fra il 2 e il 12 giugno del ’46», racconta, «fra il referendum e la proclamazione della Repubblica c’è il tentativo del re di bloccare la proclamazione della Repubblica. Umberto resisteva al Quirinale. I tre grandi protagonisti, De Gasperi Togliatti e Nenni, presero la decisione di convocare il Consiglio dei Ministri e di dare i poteri di capo dello stato a De Gasperi, che era presidente del consiglio. De Gasperi andò al Quirinale sfrattò Umberto. In quei giorni noi, dalle federazioni del partito socialista, chiedemmo che fare. C’era il rischio reale che si bloccasse il processo democratico. Nenni appunto diramò la disposizione: quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica o la parola passa alla forza». Questa è la «questione», sostiene Formica.

Stiamo assistendo a una rottura istituzionale?
Questa rottura è antica, maturava già dagli anni 70, ma il tema viene strozzato. Il contesto internazionale è bloccato, un paese di frontiera come l’Italia deve fronteggiare equilibri interni ed internazionali. Nell’89 questo blocco salta, ma le classi dirigenti non affrontano il tema della desovranizzazione degli stati che diventavano affluenti dell’Europa unitaria. I grandi partiti entrano in crisi. Il Pci è in crisi logistica e di orientamento; il Psi perde la rendita di posizione; la Dc è alla fine della sua funzione storica.

Torniamo alla nostra crisi istituzionale.
Da allora abbiamo due documenti importanti. Il primo è del ’91, il messaggio alle camere di Cossiga che spiega che l’equilibro politico e sociale è superato. Poi, nel 2013, il discorso del secondo mandato di Napolitano. Due uomini diversi, con due approcci diversi, con coraggio pongono al parlamento il tema del perdurare della crisi. E i parlamentari, fino ad oggi, continuano a far finta che tutto va bene, che è solo un temporale, passerà. Oggi siamo alla decomposizione istituzionale del paese.

Quali sono i segnali della «decomposizione»?
Innanzitutto il governo: non c’è. Oggi ci sono tribù che occupano posizioni che una volta erano del governo. Il presidente del consiglio convoca le parti sociali, ma il giorno dopo le convoca il ministro degli interni. E i sindacati vanno. Quando il sindacato non ha un interlocutore istituzionale ma va da chi lo chiama si autodeclassa a corporazione: vado ovunque si discuta dei miei interessi. Allora: non c’è un governo, perché la sua attività è stata espunta; non ci sono i partiti né i sindacati. È la crisi dei corpi dello stato. Si assiste a un deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura.

Sta dicendo che non c’è alternativa alla guerra civile?
C’è. Oggi siamo in condizione di mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica? Chi può animarla? I leader politici sono deboli o screditati. Serve l’autorità morale e politica che può creare un nuovo pathos nel paese. Uno strumento democratico c’è, sta nella Carta. È il messaggio del presidente della Repubblica alle camere. Nell’81 la camera pubblicò un volume sui messaggi dei presidenti. Nella prefazione il costituzionalista Paolo Ungari spiega che il messaggio alle camere ha una grande importanza. Il presidente ha due modi per dialogare con il parlamento. Il primo è quando interviene nel processo legislativo. Quando rinvia alle camere un disegno di legge per incostituzionalità. È vero che non ha il diritto di veto ma – dice Ungari – porta il dissenso dinanzi al parlamento e anche all’opinione pubblica, «un terzo e non silenzioso protagonista».

Dovrebbe succedere con il decreto sicurezza bis?
Leggo che Mattarella ha dubbi. Forse ha dubbi su di sé: le norme incostituzionali stavano già nel testo che ha firmato e inviato alle camere. Lì si accettava il superamento della funzione del presidente del consiglio: non c’è più, viene informato dal ministro degli interni. È la negazione della norma costituzionale. Ma è vero che se oggi lo rimandasse alle camere la maggioranza potrebbe ben dire: abbiamo votato quello che tu hai già firmato.

Allora cosa può fare?
La situazione di oggi è figlia dell’errore del 2018. Il presidente dà l’incarico esplorativo a Cottarelli e questo incarico viene sospeso dall’esterno da due signori che notificano al Quirinale di non procedere perché stanno stilando un «contratto» di cui indicano l’arbitro, il presidente del consiglio. È il declassamento dall’accordo politico a contratto di natura civilistica, uno stravolgimento costituzionale. L’accordo di governo è altra cosa: stabilisce una cornice politica generale. L’errore è dei contraenti, ma chi lo ha avallato poteva fare diversamente? Se il presidente del consiglio è arbitro si accetta il fatto che la crisi istituzionale si supera attraverso una extrademocrazia aperta a tutti i venti.

Un punto di non ritorno?
Il problema ora è mettere uno stop. Il presidente della Repubblica dovrebbe fare un messaggio sullo stato di salute delle istituzioni. Il presidente del consiglio non c’è più, il governo neanche, la funzione della maggioranza è mutata fra decretazione e voto di fiducia. Ormai, di fatto, una camera discute, l’altra solo vota. Si sta consumando un mutamento dell’equilibrio istituzionale. Il presidente ci deve dire se questa Costituzione è diventata impraticabile.

Intanto il Viminale allarga i suoi poteri.
Salvini crea una novità nel nostro tessuto democratico. All’interno di un sistema di sicurezza crea una fazione istituzionale di partito: spezza un corpo dello stato in fazioni politiche. Il rischio è che nasca una polizia salviniana. Che avrebbe come conseguenza la nascita della Rosa bianca, come sotto Hitler. E non solo. Ormai Salvini fa in continuazione dichiarazioni di politica estera che si pongono al di fuori dei trattati a cui aderisce l’Italia.

Mattarella ha gli strumenti per fermarlo?
Mattarella viene da una educazione morotea, quella della inclusione di tutte le forze che emergono, anche le più incompatibili. Ma ne dà un’interpretazione scolastica. Moro spiega la sua visione nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari Dc, prima del sequestro. Convince i suoi all’inclusione del Pci nel governo ma, aggiunge, se dovessimo accorgerci che fra gli inclusi e gli includenti c’è conflitto sul terreno dei valori, noi passeremo all’opposizione. L’inclusione insomma non può prescindere dai valori. Altrimenti porta alla distruzione dei valori anche di quelli che li hanno. Infatti il contratto non è un’intesa fra i valori ma tra gli interessi.

Insomma questo governo è un cavallo di troia nelle istituzioni?
È la mela marcia che infetta il cesto.

Mattarella può ancora intervenire?
Non c’è tempo da perdere, deve rivolgersi al parlamento. L’opinione pubblica deve essere rimotivata, deve sapere che ha una guida morale, politica e istituzionale. Si sta creando il clima degli anni 30 intorno a Mussolini.

I consensi di Salvini crescono, l’opinione pubblica ormai si forma al Papeete beach.
Ma no, Salvini cresce perché non c’è un’alternativa. Un messaggio del presidente darebbe forza a quelle tendenze maggioritarie nell’Ue che hanno bisogno di sapere se in Italia c’è qualcuno che denuncia il deperimento democratico. Anche perché, non dimentichiamolo, l’Unione ha l’arma della procedura di infrazione per deperimento democratico, già usata per la Polonia.

In questo suo ragionamento l’opposizione non ha ruolo?
Il paese è stanco, il Pd non è in condizioni di rimotivarlo. Nessuno ne ha la forza. La stampa è sotto attacco, si difende, ma per quanto ancora? Hanno aggredito Radio radicale, i giornali, dal manifesto all’Avvenire, intimidiscono anche la stampa più robusta. Solo una forte drammatizzazione istituzionale può riuscire. All’incontro con i cronisti parlamentari Mattarella ha fatto un discorso importante. Ecco, tutti insieme dovrebbero chiedergli di ripeterlo ma in forma di messaggio alle camere. Per dare un rilievo ufficiale agli attacchi alla libera stampa. La signora Van der Leyen non potrebbe non intervenire.

Anche perché resta il dubbio che la Lega sia strumento della Russia contro l’Ue.
I rapporti fra Salvini e la Russia di Putin sono servili. La Russia ha un forte interesse a un’Italia destabilizzata per destabilizzare l’Europa. Il disegno non è di Salvini, lui è solo un servo assatanato di potere.

Ministro, con Salvini sono tornate le ballerine, stavolta in spiaggia?
Quando parlai di «nani e ballerine» intendevo che non si allarga alla società civile mettendo in un organo politico i professionisti del balletto. Qui siamo alla versione pezzente del Rubigate. Quello di Berlusconi era un populismo di transizione ma non si può negare che intercettasse sentimenti popolari. Salvini invece eccita i risentimenti plebei.

Chiede al Colle di agire un conflitto inedito nella storia repubblicana?
Ma se questa situazione va avanti, fra due anni Salvini si eleggerà il suo presidente della Repubblica, la sua Consulta, il suo Csm e il suo governo. Siamo al limite. Lo dico con Nenni: siamo all’ultima chiamata prima della guerra civile nazionalsovranista.

Libertà d’informazione o libertà di querela?

Un interessante articolo dell’avv. Caterina Malavenda sull’uso pretestuoso delle querele per diffamazione pubblicato su MicroMega (3/2019). Per leggere l’articolo integrale cliccare qui.

 

Perché il destino di Radio Radicale ci riguarda tutti

(Da: il manifesto 23 febbraio 2019)

Andrea Pugiotto. Ciò che non è riuscito – pur avendoci provato – a molti governi precedenti, è ora a portata di mano di quello felpa-stellato: chiudere Radio Radicale.

Sarà il trailer per le chiusure che seguiranno, con il programmato taglio dei contributi per l’editoria: Avvenire, Il Foglio, questo stesso quotidiano.

Poiché sono i mezzi a prefigurare i fini, c’è da essere seriamente preoccupati. Si tratta infatti di voci molto diverse tra loro, ma con un denominatore comune: pensare altrimenti, rispetto al populismo e al sovranismo imperanti.

Si difende il diritto all’informazione in un solo modo: informando. È quanto da sempre fa Radio Radicale, fedele al suo motto einaudiano «conoscere per deliberare».

Da un partito eterodosso non poteva che nascere un’emittente inedita nel suo fare informazione: di parte, ma non faziosa; privata, ma capace di fare servizio pubblico; piccola, ma non marginale; senza musica, solo parole; niente pubblicità, tutta informazione; vox populi grazie ai fili diretti e alle interviste per strada, ma non populista; una voce che dà voce a ogni voce; «dentro, ma fuori dal Palazzo».

Un ossimoro radiofonico, insomma, rivelatosi spazio ragionante grazie ai suoi tempi lunghi, e non menzognero grazie alla scelta di trasmettere tutto, da ovunque, per tutti, direttamente.

Così è stata fin dalle origini. Perché l’informazione di potere si batte così, mettendo in rete le istituzioni, i partiti, i sindacati, i movimenti, l’opinione pubblica, consentendo a ciascuno di sapere, capire, farsi un’idea. L’esatto contrario di una controinformazione altrettanto faziosa, destinata a farsi omologato senso comune a rapporti di forza rovesciati.

Se è la durata a dare forma alle cose, si è trattato di una felice intuizione: Radio Radicale, infatti, trasmette ininterrottamente dal 1975.

La sua probabile chiusura – come quella delle testate che seguiranno – segnala lo scontro in atto per la rappresentazione della realtà, di cui si vuole proibire una comunicazione non mediata, capace di mostrarla per ciò che è, fuori dal dominio controllato dei portavoce, dei blog eterodiretti, dei tweet autoreferenziali, dei narcisistici selfie.

Nel caso di Radio Radicale c’è dell’altro. Non è in gioco solo la rappresentazione del presente, ma anche la memoria del passato e del futuro.

Il suo archivio è il più grande tabernacolo audiovisivo di democrazia, dove sono custoditi nella loro integralità oltre quarant’anni di storia politica, giudiziaria, istituzionale. Una memoria collettiva di quel che è stato detto e fatto, fruibile da chiunque.

Sappiamo da Orwell che «chi controlla il passato, controlla il presente; chi controlla il presente, controlla il futuro». Ecco perché l’archivio di Radio Radicale è un’arma nonviolenta per resistere a coloro che nulla sanno e poco vogliono sapere, desiderosi di plasmare una storia semplificata e binaria, dove autorappresentarsi nuovi, giusti, innocenti, arcangeli vendicatori.

Qui lo stop all’attività di registrazione e catalogazione sarà già un colpo mortale per tutti, non solo per Radio Radicale: il suo archivio, infatti, è un fondo alimentato ogni giorno da documentazioni che si aggiungono a quelle già esistenti. Interromperne il flusso significa smarrire per sempre le tracce di quanto accadrà nel nostro Paese. Irrimediabilmente.

Dunque, preoccuparsi per Radio Radicale e occuparsi della sua sorte si deve, ma come?

Il cappio che può stringerla mortalmente è tutto normativo: è la legge di bilancio ad aver dimezzato il contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari, rinnovando la relativa convenzione solo per il primo semestre 2019. È la stessa legge a stabilire l’eliminazione del contributo per l’editoria a partire dal 1 gennaio 2020. Solo una sua duplice modifica può consentire di giocare il possibile contro il probabile.

«La stampa serve chi è governato, non chi governa»Corte Suprema degli Stati uniti, 30 giugno 1971

Mi (e vi) domando: dove sono i tanti parlamentari, di ogni schieramento, che mai si sono sottratti ai microfoni di Radio Radicale?

Perché i senatori a vita, custodi di un’autentica memoria collettiva, non si fanno promotori di un’iniziativa legislativa ad hoc?

Si può sperare in un’oncia di ascolto a Palazzo Chigi, dove siede un giurista che conosce il rango costituzionale del pluralismo informativo?

Il film The Post, citando la Corte Suprema, ha ricordato a tutti che «la stampa serve chi è governato, non chi governa». Vale ovunque esista uno stato di diritto che sia ancora tale. Anche per questo la sorte di Radio Radicale prefigura il destino che tutti ci accomuna.

«Chi è uscito vincitore dall’aspra tenzone ha idea di dove sta conducendo l’ateneo senese, vista l’ineludibile attualità dei problemi posti in luce da questo blog?»

Rabbi Jaqov Jizchaq. Le sentenze, come si usa dire, non si commentano. Ma non vorrei che per alcuni questa condanna in primo grado chiudesse la stagione del dibattito sul destino dell’Università di Siena: una volta messi alle corde ed isolati tutti coloro che hanno osato avanzare qualche obiezione, potremo giocondamente ricominciare a nutrirci di rassicuranti luoghi comuni, confortati dai sempre favorevoli giudizi del CENSIS intorno alle magnifiche sorti e progressive di Siena che trionfa immortale?

Le conseguenze individuali del terremoto che ha subito l’ateneo sulla vita di molte persone che all’università hanno avuto la ventura di capitare al momento del crollo, sono assai più gravi di una invettiva lanciata da un sito web, quando la polemica infuriava al calor bianco, che non offusca il valore del contributo politico e culturale offerto dal sito stesso. Suscita semmai raccapriccio la post-verità diffusasi oramai nella comunità cittadina, secondo cui, in fondo, all’università di Siena non è successo niente, tranne l’eliminazione di qualche persona inutile (cioè quattrocento su mille!) e qualche materiuccia superflua.

Ieri, il Corriere della Sera, recensendo il saggio di Gilberto Capano, Marino Regini e Matteo Turri «Salvare l’università italiana», ne pone in rilievo alcuni passaggi, laddove si biasimano i decenni di oscillazioni politiche intorno al modello da perseguire, “altalenando tra centralismo e autonomia, lassismo e rigore, bastone e carota”, e si sottolinea la necessità, al presente, di aggregare “i dottorati di ricerca in poche grandi scuole per differenziare in modo intelligente le aree di azione di ogni Ateneo e ottenere una massa critica che permetta di puntare a grandi progetti ed eccellenze senza disperdere energie.”

È vero che molti dottorati italiani sono la prima cosa da riformare, perché troppo spesso non costituiscono un autentico avviamento alla ricerca. In più, i posti di dottorato sono dimezzati in dieci anni. Del resto, sbocchi occupazionali non ve ne sono (“Università, crescono le borse post laurea, ma il 90% dei ricercatori sarà espulso“). Il Sole 24 Ore parla di un timido +5,5% di posti di dottorato nel 2017, a fronte di una drastica riduzione del 41,2% nell’ultimo decennio. Attualmente 10 atenei, di cui 8 del Nord, garantiscono il 42% dei posti a bando: il 49% dei posti è bandito dagli atenei del Nord, il 29% del Centro, il 21% del Sud.

Ebbene, questa lacerante incertezza è stata ripetutamente posta in evidenza in questo blog, così come l’espressione “massa critica” è stata usata, by the way, anche dal sottoscritto in alcuni interventi in questo blog. Da parte mia, alludevo in maniera più estesa e non circoscritta ai dottorati, al problema della desertificazione di vaste aree scientifiche, delle quali rimane solo il simulacro: sotto una certa “massa critica” è illusorio infatti cianciare di “ricerca” (o anche di buona didattica). Mi domando pertanto se coloro che sono usciti vincitori dall’aspra tenzone abbiano una precisa idea di dove stanno conducendo la nave. Certo non dipende solo da loro, ma i problemi dell’ateneo posti in luce da questo blog appaiono tutti di pressante ed ineludibile attualità.

Il Corriere parla anche della necessità di “una specializzazione in alcune aree scientifiche, di ciascuna università” (ibid.). Ecco, anche questo tema è stato anticipato dal blog, al momento in cui tale prospettiva è stata ventilata come panacea per la rinascita dell’ateneo senese: qui è stato ripetutamente sollevato il quesito se un ateneo ultraspecializzato (dunque ulteriormente ridimensionato) possa sopravvivere e bastare a sé stesso, oppure se questo disegno si inscrive nel progetto più generale di costituzione di grandi hub regionali, con ramificazioni locali specializzate. E in questo caso, cosa toccherebbe a Siena (siamo sicuri che ci tocchino le scienze della vita?).

Sempre il Corriere (tra gli altri), giorni or sono, recava la notizia della firma da parte della ministra, del decreto che istituisce le lauree triennali professionalizzanti: non è una svolta di poco conto, perché da un lato questo induce a chiedersi a cosa serviranno (ammesso che in passato siano servite a qualcosa) da ora in poi le lauree triennali non-professionalizzanti, e dall’altro autorizza il sospetto che accentui quella tendenza, già evidenziata in questo blog, a trasformare gli atenei medio piccoli in succursali di grandi “hub” regionali, dedite principalmente a questo compito, “teaching universities”, o scuole professionali parauniversitarie sul modello tedesco. Se all’università non si può più discutere nemmeno di questo, allora che razza di “università” sarebbe, quella attuale?

“Il termine post-verità è la traduzione dell’inglese post-truth: esso indica quella condizione secondo cui, in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza”. (Wiki)

A Siena non si vede il rapporto di causa ed effetto fra il numero quasi dimezzato di docenti e la scomparsa di aree scientifiche e corsi di studio

Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo sui quotidiani che abbiamo meno università, meno docenti (-20% dal 2008), meno studenti (-70.000 in un decennio), meno corsi di studio (25% in dieci anni) e meno scuole di dottorato. «L’unico segno “più” lo registriamo riguardo al numero di ricercatrici e ricercatori precari che hanno “sostituito” personale stabile proprio a causa dell’assenza di risorse e del blocco delle assunzioni»: pare che per 10 professori di ruolo che se ne vanno, siano rientrati solo due ricercatori precari, dando corso a quella tendenza che già paventavo in altri messaggi.

A Siena, come sempre, siamo all’avanguardia: se altrove si è perso il 20% del corpo docente, qui siamo attorno al 40%, falcidiati a casaccio, sfiorando quota 600, da oltre 1000 che erano. Strano che per alcuni questi posti perduti siano stati tutte inutili bocche da sfamare, e il mantra assai demenziale che si ode è che “il rapporto studenti/docenti è ancora alto”, come se chiunque potesse insegnare qualunque cosa, le materie dovessero essere insegnate solo per finta e gli insegnamenti dovessero limitarsi a corsi di basso livello.

Ciò che risulta più mortificante è essere poi guardati come marziani quando, alla domanda di ex compagni di studio, o persone che comunque hanno frequentato l’università trent’anni fa, riguardo a questo o quell’insegnamento, questo o quel corso di studio, tu rispondi: «guarda che non esiste più da un bel po’!». Perché la gente non sa, non si rende conto, trasecola, non vede un rapporto di causa ed effetto fra la scomparsa di quasi la metà della docenza e la cancellazione di aree scientifiche e corsi di studio, o la loro sussistenza solo nominale, come simulacro, e che questo fenomeno non riguarda gli insegnamenti “sul bue muschiato”.

Molti – anche tra gli addetti ai lavori, che raramente vedono oltre il proprio orticello – trovano impossibile che siano scomparse o stiano scomparendo diverse aree scientifiche di base. Sicché sei tu il lunatico, non la realtà che è dura. Se dici certe cose, infatti, ti fanno il vuoto intorno e vieni soffocato da nubi tossiche di banalità e di volgarità, buone per tutte le stagioni, ma ahimè, inadeguate alla particolare stagione che stiamo vivendo. Del resto il tappeto di luoghi comuni che come rumore di fondo si è steso su questo tema ha diffuso la falsa convinzione che ciò che è accaduto sia stato solo un lieve stormir di fronde: Roma rinascerà più forte e più potente che pria.

Vedo l’interessante trasmissione “La tela del ragno“, condotta da Raffaella Zelia Ruscitto, dedicata all’università di Siena. Capitolo concorsi. Il prof. Neri dice parole sagge. La proposta dell’esponente del M5S relativa ai concorsi è interessante e mi sentirei di condividerla, ma altro non mi sembra essere, se non il ritorno all’università precedente all’autonomia (simpatico eufemismo) universitaria, cioè a dire, sparare un pezzo da novanta. Quanto all’auspicio del prof. Neri che Siena non diventi un campus di un ateneo regionale, mi rimane difficile pensare cosa possa diventare un ateneo lillipuziano con seicento docenti a fronte di un ateneo con duemila docenti e quasi il quadruplo di studenti che insiste sul medesimo territorio, se non un suo satellite. Se poi il progetto è quello di realizzare un campus ultraspecializzato di uno “hub”, cosa di cui mi sentirei di dubitare), si decida la sorte di chi non rientra in questo progetto, che è grosso modo un terzo di quei seicento docenti circumcirca sopravvissuti al disastro. Soprattutto non si pensi (convinzione diffusasi perniciosamente in anni recenti) di fare le nozze coi fichi secchi.

Sulla strada della distruzione dell’Università pubblica italiana

Un articolo interessante che ha già sollevato inquietanti interrogativi e prese di posizione nei commenti al blog di Bellelli su “Il Fatto Quotidiano” del 15 novembre 2017.

Mi arrendo. Distruggete pure l’Università pubblica italiana (senza di me)

Andrea Bellelli. Ho scritto vari post su questo blog per denunciare la distruzione dell’università pubblica italiana, lucidamente perseguita dai governi Berlusconi e da quelli successivi. I dati sono alla portata di tutti: l’Università pubblica italiana ha subito una decurtazione del Fondo di Finanziamento Ordinario pari al 20% nel decennio 2008-2017, e una perdita del personale docente e non docente della stessa entità, dovuta alla mancata sostituzione dei docenti andati in pensione. Gli stipendi del personale docente sono stati bloccati tra il 2011 e il 2015. I finanziamenti pubblici alla ricerca sono stati erogati in quantità miserevoli e irregolari. Nessun comparto della pubblica amministrazione ha subito un simile ridimensionamento.

Nella situazione attuale, la possibilità di svolgere il lavoro di ricerca all’interno delle Università pubbliche è compromessa, per una serie di motivi. In primo luogo la riduzione dei finanziamenti e del personale rende impossibile mantenere gli standard di sicurezza nei luoghi di lavoro previsti dalla legge. La sicurezza di un laboratorio didattico, nel quale operano gli studenti, dipende criticamente non solo da una corretta manutenzione dei dispositivi di protezione collettivi, ma anche dalla presenza di personale esperto preposto alla vigilanza delle operazioni. Poiché la sicurezza degli studenti (equiparati per legge a lavoratori) è prioritaria, e le inadempienze alla normativa vigente hanno rilevanza penale, ho provveduto a sospendere le esercitazioni in laboratorio in precedenza previste nei miei corsi. Per le stesse ragioni non intendo più prendere sotto la mia supervisione studenti di dottorato di ricerca o tesisti: le tesi che io supervisiono sono oggi soltanto compilative.

In secondo luogo, anche il lavoro di ricerca che il docente può svolgere personalmente, è grandemente ridimensionato, perché la riduzione del numero dei docenti comporta un maggiore impegno didattico di ciascuno di noi, e una conseguente minore disponibilità di tempo da dedicare alla ricerca (che peraltro va di pari passo con la minore disponibilità di finanziamenti). Gli estensivi e vessatori obblighi di rendicontazione delle nostre attività, imposti da una inutile burocrazia ministeriale e dall’Agenzia di valutazione Anvur sottraggono ulteriore tempo alle attività di ricerca.

Infine, le normative concorsuali vigenti penalizzano il precariato e fanno sì che l’inizio della carriera universitaria privilegi persone che si sono formate all’estero, in condizioni molto più favorevoli di quelle vigenti in Italia. Per questo, io da tempo rifiuto di prendere precari sottopagati che, in occasione di un concorso si troverebbero a competere con colleghi di ritorno dagli Usa o da Paesi europei nei quali i colleghi hanno usufruito di tutt’altre strutture che le nostre. È deplorevole che l’anzianità di servizio in un laboratorio di ricerca pubblico in Italia non sia un merito valutabile.

Poiché ho lavorato nella ricerca scientifica per quarant’anni, abbandonarla mi dispiace: in fondo sento un debito nei confronti dei tanti scienziati che hanno speso il loro tempo prezioso per insegnarmi quello che ho imparato e che non insegnerò più ad allievi che non sarebbe giusto formare. Per questo, ho deciso di raccogliere quello che ho imparato negli scorsi quarant’anni nel trattato Reversible ligand binding, pubblicato da Wiley.

Ringrazio la Professoressa Jannette Carey di Princeton (NJ, Usa) che ha condiviso con me i due anni di lavoro che sono stati necessari a scriverlo. Pochissimi tra i lettori di questo sito saranno interessati al libro: è dedicato infatti a ricercatori e a studenti dei corsi di dottorato; ma molti potrebbero essere invece interessati alle ragioni per le quali il libro è stato scritto, e che io ho esposto in questo post: perché l’Università pubblica è di tutti i cittadini dello Stato e la sua distruzione è un furto ai loro danni.

Da un eccesso al suo opposto: in passato chi denunciava la malauniversità subiva un processo oggi è premiato e, forse, diventa ministro

«Il sistema sulla spartizione delle cattedre universitarie dura da decenni» come scrive, in questi giorni, “L’Espresso” e, in precedenza, era stato descritto in tanti libri sull’argomento. E qualche libro fu anche dedicato ai tanti «ribelli» che in quegli anni avevano «denunciato abusi, aperto blog e siti internet contro il malcostume accademico», come si legge in quello di Davide Carlucci e Antonio Castaldo, “Un paese di baroni”. Finì tutto in una bolla di sapone e chi aveva denunciato la malauniversità finì sotto processo. Oggi, chi denuncia i concorsi truccati è descritto come un eroe, da nominare su due piedi ministro. Da un eccesso al suo opposto.

La posizione del Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria sui recenti scandali concorsuali

La cura c’è: abolizione, con effetto immediato, del “tempo definito” che permette l’intreccio tra attività accademica e libero-professionale

Brunello Mantelli (da: mailing list unilex@list.cineca.it). Prima sensazione: giustizia a orologeria. Lo so che è slogan berlusconico e perciò sospetto, tanto più se usato da uno come me che, sia pur sommessamente, ha già scritto in passato di ritenere ciò che accadde in Italia tra il 2010 ed il 2011 qualcosa di simile ad un colpo di Stato postmoderno (che ancora attende un suo Curzio Malaparte), ma come non rilevare che l’annuncio dato esplosivamente sui mezzi di comunicazione di massa abbia coinciso quasi perfettamente con la riuscita oltre le previsioni dello sciopero dei docenti universitari indetto dal Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria (ciò al di là di ogni valutazione interna e specifica che dello sciopero stesso si voglia dare)?

I settori coinvolti, parrebbe (in attesa di sentenze della magistratura): alcuni rami del diritto, quegli stessi che per le caratteristiche della disciplina permettono di unire attività di ricerca e didattica con attività libero-professionale, caratteristica che accomuna questi settori con altri a suo tempo coinvolti in vicende similari (discipline mediche, discipline afferenti all’area economica et similia). Non per caso nella vicenda fiorentina si è letto che tutte le parti in causa, denunziante compreso, erano titolari di importanti studi professionali. Curiosamente (è una battuta, sia chiaro, non è affatto curioso), parrebbe che aree come la storia bizantina, l’etruscologia, la filologia germanica, la glottologia, la fisica teorica, la matematica siano meno inclini a trovarsi coinvolte in storie analoghe. Non sarà perché lì non si dà proprio l’intreccio tra potere accademico e denaro professionale?

Stupisce allora che, nella pletora di proposte autorevolmente avanzate per porre rimedio allo “scandalo” (per ora presunto ed esistente solo sulle pagine delle gazzette), non ne sia stata avanzata una molto semplice: l’abolizione con effetto immediato del tempo definito” (che permette, infatti, di intrecciare funzioni (attività universitaria e attività libero-professionale) ponendo, a chi desideri entrare all’università, l’alternativa secca: tempo pieno o nulla. L’impegno nell’Accademia ha da essere un’attività totalizzante. Del resto nelle aree che ho citato, e in molte altre, compresa la mia (Storia Contemporanea, M-STO/04), la scelta del tempo pieno è pressoché unanime. Sarà forse perché chi vi afferisce è dotato di cervelli meno multitasking di chi invece si occupa di diritto tributario, medicina, economia aziendale, et similia? Ipotesi interessante, andrebbe verificata (nuovamente, sto celiando). Del resto l’idea dell’alternativa secca tra tempo pieno nelle strutture pubbliche, o libera professione altrove non è una novità; era stata proposta ed attuata per i medici ospedalieri dal miglior ministro della Sanità (oops, della Salute.. sic!) che la Repubblica abbia mai avuto: Rosy Bindi. Non per caso la misura fu poi rapidamente ritirata quando il dicastero passò ad altri.