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Macaluso: «Una destra pericolosa, nessuno ora indebolisca il centrosinistra»
Daniela Preziosi (il manifesto, 10 agosto 2019). Per orientarsi nella crisi di governo di questi giorni non si può trovare una traccia in una delle altre della storia repubblicana. Questo spiega Emanuele Macaluso, che pure di crisi di governo ne ha viste e vissute tante: da dirigente comunista, da sindacale, da direttore dell’Unità. A marzo ha festeggiato – anche qui sul manifesto – i suoi 95 anni. Ma, «una crisi così prima non poteva succedere», ragiona. E il motivo è semplice: prima «c’erano i partiti, le personalità politiche».
Di Maio, Conte e Salvini. Ecco le
personalità di questi tempi. Che opinione ne hai?
Di Maio sembra uno che ha vinto la lotteria: vicepresidente del consiglio e due
ministeri. E crede di sapere i numeri. Diciamo le cose come stanno: è un
ignorantello, non ha cultura, né generale né politica, non ha storia, non
esiste al mondo una persona che passa da quello che ha fatto, cioè niente, a
vicepresidente del consiglio. Già questo dice cosa è stato questo governo. Non
ha mai letto un libro, non so neanche se prima leggeva i giornali.
Inadeguato.
Diciamo le cose come stanno: sono stati loro. È stato Di Maio a costruire le
fortune di Salvini. Che è arrivato al 36 per cento grazie a Di Maio. E a Conte.
Gli hanno fatto fare quello che voleva. Gli hanno approvato tutte le leggi. Il
cosiddetto ministro dei trasporti (Toninelli, ndr) gli ha chiuso i porti. Il presidente del consiglio, che
costituzionalmente è il responsabile della politica del governo, non ha detto
mai una parola su questo. Come se non ci fosse. Ha consentito che Salvini non
facesse il ministro: non andava al Viminale, cambiava casacche, un giorno
poliziotto, poi pompiere, poi finanziere. E Conte muto. Salvini è stato
costruito dall’impotenza, dall’incapacità, dalla miseria politica dei grillini.
Solo oggi che Salvini li ha messi fuori se ne sono accorti.
Conte in queste ore rivendica il suo ruolo. I 5 stelle sono emendabili, redimibili?
Conte si è accorto di essere presidente del consiglio da poco. Sono emendabili? Bisogna vedere come andrà il voto. Se diventano un partito marginale forse si innescherà un processo politico. Il Pd, con altre forze di centrosinistra – +Europa, Leu, altre – tutti insieme potrebbero superare il 30 per cento. A quel punto il sistema tornerà ad essere destra, estrema, contro centrosinistra. Anche con quelli che oggi pensano che ci voglia un partito centrista: ma un partito non si inventa a tavolino, o c’è o non c’è.
In quel caso c’è qualcosa da
recuperare nei 5 stelle?
C’è una destra estrema molto pericolosa. Il problema centrale è la battaglia
per la democrazia e le libertà, perché oggi questo è in discussione. E la
questione sociale si è innervata con quella della libertà e della democrazia.
Dunque i 5 stelle sono emendabili? Non lo so, se saranno un partito minore, se
sparisce Di Maio e torna a fare quello che faceva – cioè niente –, se si
sganciano da Rousseau e dalla dipendenza da Casaleggio. Forse la sconfitta può
innescare processi che ora non possiamo rivedere.
Dicevi che la destra nazionalista
è pericolosa. Questa legislatura ci lascia istituzioni indebolite, come ha
detto Rino Formica a questo giornale?
In questa legislatura il parlamento non ha contato niente, tranne che per fare
le leggi che servivano a Salvini. L’occupazione dell’informazione pubblica è
sfacciata, basta guardare il Tg2. Ci sono le minacce ai giornalisti. Davanti al
cronista di Repubblica (Lo Muzio, che ha ripreso il figlio di Salvini su una
moto d’acqua della polizia, ndr)
Salvini poteva chiedere scusa. E invece no, ha voluto dare un segnale: per i
giornalisti che non sono servi c’è il disprezzo, il tentativo di ammutolirli.
Questi miserabili dei grillini hanno tentato di uccidere Radio Radicale, il manifesto,
l’Avvenire, i giornali locali. Quello
che è avvenuto in questa legislatura è la premessa a possibili sviluppi peggiori.
Ora Salvini chiede agli elettori:
«Datemi pieni poteri». Cosa vuol dire questa frase?
Ecco, l’altro problema, che per me è il principale del sistema democratico
italiano, è un pauroso abbassamento della cultura politica di massa. Un
bracciante siciliano dei miei tempi aveva più cultura politica di quanta ne
abbia Conte o Di Maio. La tanto criticata educazione politica dei
vecchi partiti non erano le Frattocchie, era il rapporto con le masse popolari,
che ora si chiama ‘il territorio’. C’erano i giornali delle forze politiche, le
riviste, le sezioni, si parlava con le persone. Tutto questo è finito, non da
oggi, da trent’anni. Oggi
i politici parlano alla pancia perché alla testa non parla nessuno. Oggi non si
conosce e non si riflette su cosa succede nel resto mondo.
Sulla «situazione internazionale»,
come si diceva ai tempi del Pci?
Perché si sapeva che c’era un rapporto con la realtà che vivevi. Ecco, un’altra
istituzione in pericolo è in Europa. Non so se Salvini pensa all’uscita
dell’Italia dall’Unione, ma ha già annunciato che la conflittualità antieuropea
sarà durissima. Ho letto sul Corriere l’intervista a Bannon. Rivela i rapporti
con l’estrema destra americana e con Putin. Tutte forze antieuropee.
Salvini è eterodiretto?
Non dico questo, ma ha un’ispirazione politica nelle forze di estrema destra in
America. E con Putin, che vuole fottere l’Europa.
Tu sei amico di un presidente
della Repubblica, Giorgio Napolitano, considerato molto interventista.
L’attuale presidente Mattarella ha un altro stile. Ma credi che ci sia bisogno
di una sua azione più esplicita?
Conosco bene Mattarella. È un democratico, uno su cui il paese può fare
affidamento. Forse non è riuscito ad avere uno staff all’altezza. E in una
situazione del genere, glielo dico con grande amicizia, il presidente della
Repubblica deve usare le sue competenze costituzionali fino in fondo. Se è vero
quello che penso sui pericoli che corre il paese, certo al presiedente si
pongono problemi seri e nuovi. La garanzia di alcune istituzioni, compreso il
ruolo del Parlamento, si porrà in maniera più acuta. Ma ho fiducia che lui
possa affrontare questi temi con energia. Non è un pavido, nel 1990 non esitò a
dimettersi da ministro (contro la legge Mammì, ndr).
E siamo arrivati al Pd.
Ma la storia comincia con il Pds e i Ds. L’obiettivo del governo era un
problema importante per gli eredi di un partito, il Pci, che era stato sempre
fuori dal governo, tranne che subito dopo la Liberazione e poi con Moro,
nell’area di governo. Ma non poteva essere l’unico obiettivo: quei dirigenti
non hanno più posto attenzione ai processi sociali, culturali e sociali.
Altrimenti non si spiega che sia avanzata questa destra, anche nel Mezzogiorno
dove la Lega tifava per l’Etna e il Vesuvio. È avvenuto un processo in cui le
generazioni che c’erano e quelle che sono venute dopo hanno perso le fondamenta
di una forza democratica di sinistra. È stata spazzata via la presenza nel
territorio, il rapporto personale, nei quartieri, nelle fabbriche, nella
scuola. Oggi c’è la rete, ma non basta. Obama faceva comizi, anche piccoli.
Così Sanders e i democratici. Comizi in camicia come li facevamo noi negli anni
50 e 60. Salvini l’ha capito, infatti è l’unico che fa ancora comizi.
Il segretario Zingaretti intanto fa appello all’unità del partito. Renzi riuscirà ad accettarlo?
Lo spero. Con lui non ho mai parlato. Non nego che abbia delle qualità. Ma da come interviene si capisce che non ha esaminato autocriticamente le ragioni della sua caduta. Continua a dare le responsabilità agli altri, non vede il suo eccessivo personalismo. Da questo punto di vista non ha riflettuto. Invece dovrebbe. Potrebbe avere un avvenire politico, ma dentro una forza politica. Così si faceva nella Dc, visto che viene da lì. I ‘cavalli di razza’ si alternavano, Moro, Fanfani, De Mita. Fra loro c’è stata competizione, a momenti anche molto dura, ma avevano capito che se si spaccavano finivano. Dopo il ’68 Moro, che era stato presidente del consiglio, fu messo fuori dai dorotei; lui fece una corrente e al congresso prese il 7 per cento. Poi però diventò presidente del consiglio e capo del partito fino a quando fu rapito e ucciso. Questa è la dialettica. Non so se l’ha capito Renzi: se spacca, darà certo un colpo al Pd ma anche lui conterà niente. Se ne è capace, deve reggere una dialettica: competa, il futuro non lo sa nessuno.
Zingaretti ha i numeri per questa fase così delicata?
Oggi in tutto il mondo politico non c’è più il meglio: i grandi partiti, i Togliatti, i De Gasperi, i Moro e i Nenni. Siamo in piena crisi della politica, altrimenti non avremmo i Di Maio e i Salvini. E la sinistra vive in questa crisi. Quindi bisogna stare attenti a quello che c’è, valutare quello che è possibile. Zingaretti è il meno peggio che oggi il Pd possa esprimere. Ha equilibro, sensibilità, un minimo di cultura politica, ha fatto il parlamentare europeo, ha fatto bene il presidente di regione. Io non sono iscritto al Pd, ho scritto un libro che si intitola «Al capolinea» e per me il Pd soffre il modo com’è nato. Ma siccome ora non c’è altro – ripeto: non c’è altro – dico a tutti che demolirlo significa rafforzare la destra. Quindi bisogna semmai dare argomenti, suggerire temi, mettere in campo questioni, anche fuori dal partito. E bisogna avere la capacità di cogliere quello che di positivo c’è fuori dal partito. Avere molta attenzione al mondo sindacale: il Pd, e non solo Renzi, ha la responsabilità di non averlo capito. E in Italia la questione sociale si intreccia alla questione dell’immigrazione. Perché la questione sociale resta sempre essenziale per una forza di sinistra.
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Rino Formica: «È l’ultima chiamata prima della guerra civile. Ora il Presidente parli».
Daniela Preziosi (il manifesto, 8 agosto 2019). «Quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica, o decide la forza. Se non ci sono soluzioni democratiche c’è la guerra civile». Con Rino Formica – classe 1927, socialista, più volte ministro, da più di mezzo secolo le sue definizioni della politica e dei politici sono sentenze affilate, arcinote e definitive – il viaggio per approdare all’oggi, un oggi drammatico, inizia da lontano. Con il Pietro Nenni «di quei dieci giorni lunghi quanto un secolo fra il 2 e il 12 giugno del ’46», racconta, «fra il referendum e la proclamazione della Repubblica c’è il tentativo del re di bloccare la proclamazione della Repubblica. Umberto resisteva al Quirinale. I tre grandi protagonisti, De Gasperi Togliatti e Nenni, presero la decisione di convocare il Consiglio dei Ministri e di dare i poteri di capo dello stato a De Gasperi, che era presidente del consiglio. De Gasperi andò al Quirinale sfrattò Umberto. In quei giorni noi, dalle federazioni del partito socialista, chiedemmo che fare. C’era il rischio reale che si bloccasse il processo democratico. Nenni appunto diramò la disposizione: quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica o la parola passa alla forza». Questa è la «questione», sostiene Formica.
Stiamo
assistendo a una rottura istituzionale?
Questa rottura è antica, maturava già dagli anni 70, ma il tema viene strozzato.
Il contesto internazionale è bloccato, un paese di frontiera come l’Italia deve
fronteggiare equilibri interni ed internazionali. Nell’89 questo blocco salta,
ma le classi dirigenti non affrontano il tema della desovranizzazione degli
stati che diventavano affluenti dell’Europa unitaria. I grandi partiti entrano
in crisi. Il Pci è in crisi logistica e di orientamento; il Psi perde la
rendita di posizione; la Dc è alla fine della sua funzione storica.
Torniamo
alla nostra crisi istituzionale.
Da allora abbiamo due documenti importanti. Il primo è del ’91, il messaggio
alle camere di Cossiga che spiega che l’equilibro politico e sociale è
superato. Poi, nel 2013, il discorso del secondo mandato di Napolitano. Due
uomini diversi, con due approcci diversi, con coraggio pongono al parlamento il
tema del perdurare della crisi. E i parlamentari, fino ad oggi, continuano a
far finta che tutto va bene, che è solo un temporale, passerà. Oggi siamo alla
decomposizione istituzionale del paese.
Quali
sono i segnali della «decomposizione»?
Innanzitutto il governo: non c’è. Oggi ci sono tribù che occupano posizioni che
una volta erano del governo. Il presidente del consiglio convoca le parti
sociali, ma il giorno dopo le convoca il ministro degli interni. E i sindacati
vanno. Quando il sindacato non ha un interlocutore istituzionale ma va da chi
lo chiama si autodeclassa a corporazione: vado ovunque si discuta dei miei
interessi. Allora: non c’è un governo, perché la sua attività è stata espunta;
non ci sono i partiti né i sindacati. È la crisi dei corpi dello stato. Si
assiste a un deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la
magistratura.
Sta
dicendo che non c’è alternativa alla guerra civile?
C’è. Oggi siamo in condizione di mobilitare la calma forza democratica
dell’opinione pubblica? Chi può animarla? I leader politici sono deboli o
screditati. Serve l’autorità morale e politica che può creare un nuovo pathos
nel paese. Uno strumento democratico c’è, sta nella Carta. È il messaggio del
presidente della Repubblica alle camere. Nell’81 la camera pubblicò un volume
sui messaggi dei presidenti. Nella prefazione il costituzionalista Paolo Ungari
spiega che il messaggio alle camere ha una grande importanza. Il presidente ha
due modi per dialogare con il parlamento. Il primo è quando interviene nel
processo legislativo. Quando rinvia alle camere un disegno di legge per
incostituzionalità. È vero che non ha il diritto di veto ma – dice Ungari –
porta il dissenso dinanzi al parlamento e anche all’opinione pubblica, «un
terzo e non silenzioso protagonista».
Dovrebbe
succedere con il decreto sicurezza bis?
Leggo che Mattarella ha dubbi. Forse ha dubbi su di sé: le norme
incostituzionali stavano già nel testo che ha firmato e inviato alle camere. Lì
si accettava il superamento della funzione del presidente del consiglio: non
c’è più, viene informato dal ministro degli interni. È la negazione della norma
costituzionale. Ma è vero che se oggi lo rimandasse alle camere la maggioranza
potrebbe ben dire: abbiamo votato quello che tu hai già firmato.
Allora
cosa può fare?
La situazione di oggi è figlia dell’errore del 2018. Il presidente dà
l’incarico esplorativo a Cottarelli e questo incarico viene sospeso
dall’esterno da due signori che notificano al Quirinale di non procedere perché
stanno stilando un «contratto» di cui indicano l’arbitro, il presidente del
consiglio. È il declassamento dall’accordo politico a contratto di natura
civilistica, uno stravolgimento costituzionale. L’accordo di governo è altra
cosa: stabilisce una cornice politica generale. L’errore è dei contraenti, ma
chi lo ha avallato poteva fare diversamente? Se il presidente del consiglio è
arbitro si accetta il fatto che la crisi istituzionale si supera attraverso una
extrademocrazia aperta a tutti i venti.
Un
punto di non ritorno?
Il problema ora è mettere uno stop. Il presidente della Repubblica dovrebbe
fare un messaggio sullo stato di salute delle istituzioni. Il presidente del
consiglio non c’è più, il governo neanche, la funzione della maggioranza è mutata
fra decretazione e voto di fiducia. Ormai, di fatto, una camera discute,
l’altra solo vota. Si sta consumando un mutamento dell’equilibrio
istituzionale. Il presidente ci deve dire se questa Costituzione è diventata
impraticabile.
Intanto
il Viminale allarga i suoi poteri.
Salvini crea una novità nel nostro tessuto democratico. All’interno di un
sistema di sicurezza crea una fazione istituzionale di partito: spezza un corpo
dello stato in fazioni politiche. Il rischio è che nasca una polizia salviniana.
Che avrebbe come conseguenza la nascita della Rosa bianca, come sotto Hitler. E
non solo. Ormai Salvini fa in continuazione dichiarazioni di politica estera
che si pongono al di fuori dei trattati a cui aderisce l’Italia.
Mattarella
ha gli strumenti per fermarlo?
Mattarella viene da una educazione morotea, quella della inclusione di tutte le
forze che emergono, anche le più incompatibili. Ma ne dà un’interpretazione
scolastica. Moro spiega la sua visione nell’ultimo discorso ai gruppi
parlamentari Dc, prima del sequestro. Convince i suoi all’inclusione del Pci
nel governo ma, aggiunge, se dovessimo accorgerci che fra gli inclusi e gli
includenti c’è conflitto sul terreno dei valori, noi passeremo all’opposizione.
L’inclusione insomma non può prescindere dai valori. Altrimenti porta alla
distruzione dei valori anche di quelli che li hanno. Infatti il contratto non è
un’intesa fra i valori ma tra gli interessi.
Insomma
questo governo è un cavallo di troia nelle istituzioni?
È la mela marcia che infetta il cesto.
Mattarella
può ancora intervenire?
Non c’è tempo da perdere, deve rivolgersi al parlamento. L’opinione pubblica
deve essere rimotivata, deve sapere che ha una guida morale, politica e
istituzionale. Si sta creando il clima degli anni 30 intorno a Mussolini.
I
consensi di Salvini crescono, l’opinione pubblica ormai si forma al Papeete
beach.
Ma no, Salvini cresce perché non c’è un’alternativa. Un messaggio del
presidente darebbe forza a quelle tendenze maggioritarie nell’Ue che hanno
bisogno di sapere se in Italia c’è qualcuno che denuncia il deperimento
democratico. Anche perché, non dimentichiamolo, l’Unione ha l’arma della
procedura di infrazione per deperimento democratico, già usata per la Polonia.
In
questo suo ragionamento l’opposizione non ha ruolo?
Il paese è stanco, il Pd non è in condizioni di rimotivarlo. Nessuno ne ha la
forza. La stampa è sotto attacco, si difende, ma per quanto ancora? Hanno
aggredito Radio radicale, i giornali, dal manifesto all’Avvenire,
intimidiscono anche la stampa più robusta. Solo una forte drammatizzazione
istituzionale può riuscire. All’incontro con i cronisti parlamentari Mattarella
ha fatto un discorso importante. Ecco, tutti insieme dovrebbero chiedergli di
ripeterlo ma in forma di messaggio alle camere. Per dare un rilievo ufficiale
agli attacchi alla libera stampa. La signora Van der Leyen non potrebbe non
intervenire.
Anche
perché resta il dubbio che la Lega sia strumento della Russia contro l’Ue.
I rapporti fra Salvini e la Russia di Putin sono servili. La Russia ha un forte
interesse a un’Italia destabilizzata per destabilizzare l’Europa. Il disegno
non è di Salvini, lui è solo un servo assatanato di potere.
Ministro, con Salvini sono tornate le ballerine, stavolta in spiaggia?
Quando parlai di «nani e ballerine» intendevo che non si allarga alla società civile mettendo in un organo politico i professionisti del balletto. Qui siamo alla versione pezzente del Rubigate. Quello di Berlusconi era un populismo di transizione ma non si può negare che intercettasse sentimenti popolari. Salvini invece eccita i risentimenti plebei.
Chiede al Colle di agire un conflitto inedito nella storia repubblicana?
Ma se questa situazione va avanti, fra due anni Salvini si eleggerà il suo presidente della Repubblica, la sua Consulta, il suo Csm e il suo governo. Siamo al limite. Lo dico con Nenni: siamo all’ultima chiamata prima della guerra civile nazionalsovranista.
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