Università: con il mantra della valutazione e della meritocrazia siamo in pieno delirio

Donato Zipeto

Da: Unilex, 17 e 18 gennaio 2018

Donato Zipeto. Ha senso parlare di merito quando si parte tutti dalle stesse condizioni.
Gara dei 100 metri… partono tutti dalla stessa linea, nello stesso momento, sulla stessa pista, con lo stesso tipo di scarpe, ecc. ecc. Non parte uno prima, uno dopo, uno zoppo, uno monco, qualcuno scalzo o con i chiodi seminati lungo la pista.
Nelle gare “meritocratiche” all’italiana, chi arriva primo la prossima volta parte 10 metri più avanti. L’ultimo 10 metri indietro. Così aumentiamo la “meritocrazia” e continuiamo a premiare i primi.

Quello non è merito, è reiterare e aumentare disuguaglianze e divari.
Facile la “competizione” e la sedicente “meritocrazia” quando si hanno a disposizione aeroporti, ferrovie, infrastrutture adeguate per organizzare convegni, per alimentare collaborazioni fra sedi diverse, per ricevere tempestivamente reagenti o strumentazioni. Quando si possono invitare colleghi dall’estero per corsi e seminari.
Mi piacerebbe prendere i tanti fautori di questa meritocrazia “pelosa”, confinare le tante sedicenti “eccellenze” in sedi decentrate senza risorse, strutture e infrastrutture, e vedere dove va a finire, da lì a poco, la loro eccellenza e la loro meritocrazia.
La ricerca, la cultura, sono innanzitutto collaborazione, scambio, ibridazione, idee che circolano, che si muovono, che si diffondono.
Parlare di competizione, gara, eccellenze e simili, nell’ambito della conoscenza, è una totale idiozia. Il neoliberismo lasciatelo agli economisti vecchia scuola, quelli della crescita infinita e indefinita, e ai danni che stanno facendo.

Risponde Franco Pavese: «Zipeto ha messo come “gara” il significato di riconoscimento del merito…»

Replica Zipeto: «Caro collega, non l’ho “messo” io. È il sistema messo in piedi da politici ignoranti, imprenditori beceri e truffaldini, giornalisti lecchini, opinione pubblica ostile e manipolata e colleghi ignavi.
Si brandiscono termini, quali meritocrazia ed eccellenza, come clave per far fuori chi canta fuori dal coro. Mi limito a costatare quello che è davanti agli occhi di tutti.»

Scrive ancora Franco Pavese: «sottoscrivo le parole di Zipeto solo quando dice “la ricerca, la cultura, sono innanzitutto collaborazione, scambio, ibridazione, idee che circolano, che si muovono, che si diffondono”, ma ciò è ben chiaro e realizzato solo da chi svolge bene la sua professione intellettuale, che può dimostrare senza timori a chicchessia il suo “merito”, mediante il suo curriculum fondato su dati oggettivi: pubblicazioni per la ricerca, soddisfazione degli studenti ai suoi corsi.»

Replica Zipeto: La ricerca, quella vera non la “catena di montaggio” che va di moda oggi per essere “eccellenti”, è serendipity. E non c’è tutto questo merito nella serendipity.
Quando ero ancora studente, una vita fa, ricordo l’ultima lezione del professore di fisiologia, che da lì a poco sarebbe andato in pensione. Ci raccontò, quell’ultimo suo giorno in università, la storia della principessa che perde l’anello durante il ballo, in giardino. Il re chiama il capo delle guardie, e tutti a cercare l’anello smarrito in ogni fosso, dietro ogni cespuglio, sotto ogni sasso. Finalmente una guardia lo trova, torna con l’anello, e il re propone per lui un premio. Il capo delle guardie si oppone. Perché la guardia che ha ritrovato l’anello smarrito c’è riuscita perché tanti altri, tutti gli altri, cercavano da qualche altra parte. Da solo non ce l’avrebbe mai fatta.

Prendendo spunto da questa storiella e arrivando alla realtà dei giorni nostri, va scovata e sanzionata la guardia che invece di cercare s’imbosca, si nasconde, schiaccia un pisolino, o comunque non fa il suo dovere.
Magari una pacca sulla spalla o una mezza giornata di libera uscita a chi ha trovato l’anello. E un grazie a tutti quelli che hanno svolto il loro compito.
Con la retorica dell’eccellenza e della “mediocrazia” de noantri invece, facciamo generale la guardia che ha trovato l’anello, e tutti gli altri a pulire le latrine.

I comportamenti poco etici (scambi di citazioni, salami-publishing, dati vagamente confermati et similia) stanno minando la credibilità della scienza e della ricerca. Tutto nel nome del mantra della valutazione e della meritocrazia. Altrove stanno cominciando a capirlo, e a fare qualche passo indietro. Da noi siamo in pieno delirio.

Un’ultima osservazione. Se per scovare e non finanziare un, diciamo, 5% di fannulloni, e non “sprecare” x € per nulla, imbastiamo una valutazione dai costi esorbitanti, diciamo 10x €, stiamo facendo una boiata pazzesca. Perché ci saranno meno fondi per il 95% che lavora bene, e andremo a ingrassare valutatori scopiazzatori, politici in libera uscita, editor di riviste predatorie, burocrati asfissianti, e tutto il resto del circo che vi gira intorno.
My 2 cents.

Università: in attesa di un nuovo Einstein (ma è più probabile che ci arrivino altri Weinstein)

Il paragone (azzardato) di Taverna: «Pure Einstein poteva nascere al Quarticciolo» (La Repubblica, 24 novembre 2017)

La senatrice del Movimento 5 stelle Paola Taverna, durante un convegno, ha sottolineato quanto spesso venga associata al suo quartiere di origine, il Quarticciolo a Roma, aggiungendo un paragone curioso con Albert Einstein. «Sono sempre stata presentata come quella che ‘viene dal Quarticciolo’, come se avessi addosso la lettera scarlatta. E cosa vuol dire? Perché, se Einstein veniva dal Quarticciolo non sarebbe stato capace di formulare la teoria della relatività?”. Taverna poi si è accorta del parallelismo, un po’ azzardato, e ci ha scherzato su.

Rabbi Jaqov Jizchaq. Un errore madornale, frutto di una concezione “eroica” della ricerca, un Archimede solitario nella vasca da bagno che ad un certo punto se ne esce in braghe esclamando “Eureka!”. Se non si comprende che la scienza è un fatto corale, che nasce in un ambiente, che serve un humus culturale, continueremo a desertificare allegramente le strutture universitarie aspettando un nuovo Einstein (ma è più probabile che ci arrivino altri Weinstein).

Sulla ricerca “pura”: in linea di principio, ogni nuova scoperta scientifica è “utile” e “applicabile”

L'uomo di Altamura

L’uomo di Altamura

L’odio viscerale per la cultura è uno dei tratti distintivi della società italiana di oggi

Rabbi Jaqov Jizchaq. Facendo seguito alle considerazioni svolte nei precedenti post, e visto che il dibattito sul futuro dell’ateneo pare prescindere totalmente dall’argomento (come se un dibattito sul Palio prescindesse dai cavalli), cade a fagiolo questo interessante articolo sul Corriere della Sera di pochi giorni fa, del quale raccomando la lettura aggiungendo un mio commento:

“Proposta semiseria per una revisione: abolire una congiunzione nel primo comma dell’articolo 9. Oggi è improponibile la cultura distinta dalla ricerca scientifica e tecnica […] Recita l’articolo 9, primo comma: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Sì: cultura e ricerca…. l’arte poetica non sembra avere troppo in comune con la chimica, dunque in un certo senso le distinzioni sono giustificate almeno sulla base di una convenienza pratica. Meno apprezzabile è tuttavia l’incoronazione di un dominio specifico a Cultura per antonomasia o, meglio, l’esclusione della ricerca scientifica da essa.”

Giambattista Vico coniò l’espressione “Ingegni minuti”, poi recuperata da Benedetto Croce, per significare lo scarso valore intellettuale che egli attribuiva agli scienziati, contrapposti ai “filosofi”. Questo melenso leitmotiv pervade tutt’oggi, a livello più o meno consapevole, la didattica delle scuole superiori italiane, secondo una visione peraltro lievemente retrograda rispetto gli sviluppi della cultura di quest’ultimo secolo. Quelli che vogliono sovvertire questo punto di vista (L’è peso el tacon del buso), spesso fanno solo danno, asserendo la totale inutilità della cultura.

Vico affermava di aver provato invano a leggere gli Elementi di Euclide, senza tuttavia andare oltre la quinta proposizione, perché la sua mente di metafisico non riusciva a piegarsi a quei ragionamenti adatti agli “ingegni minuti” dei matematici, che si sogliono chiamare “dimostrazioni”. Che dire? Eppure quanto a raffinatezza metafisica, matematici come Cartesio o Leibniz non furono certo da meno di Vico.

La cultura italiana recente, incomprensibilmente oltremodo anti-illuministica, non è andata molto al di là di questo anatema verso le scienze e “la tecnica”. Partendo da una base storicista, si è evoluta ispirandosi ora ad un Heidegger, magari cercando di coniugarlo con il marxismo, salvo poi scoprire con imbarazzo che il fu rettore di Friburgo era integralmente nazista ed antisemita. Oppure a certi temi della Scuola di Francoforte, con ciò rimanendo sostanzialmente estranea alla cultura illuministica.

Gentile si chiedeva, con scetticismo, come potessero coesistere in una stessa rivista “l’elettromagnetismo e la coscienza”, e questo nell’Europa dei Poincaré, degli Hilbert, dei Carnap, dei Cassirer, dei Russell, o degli Einstein (!!!!). Un simile atteggiamento liquidatorio ha sortito due effetti: un tratto provincialistico e superficiale della cultura italiana dei nostri giorni, ed una concezione della ricerca scientifica che tratta con disprezzo la ricerca “pura” non immediatamente convertibile in danaro contante. Salvo poi non saper delineare con esattezza il confine e dire esattamente quale parte delle scienze è “applicabile” ed “utile”, visto che ogni nuova scoperta in linea di principio lo è.

Entrambi i partiti concordano sull’inutilità della “scienza pura” e della cultura di livello non superficiale che dialoga con le scienze. L’odio viscerale per la cultura, d’altra parte, è uno dei tratti distintivi della società italiana di oggi. Il prodotto di questa concezione non può che essere la totale sterilità sia della scienza che della cultura e la loro completa estraneità alla migliore tradizione europea.

P.S. Segnalo sul tema questo libro: Lucio Russo ed Emanuela Santoni “Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia”, Feltrinelli, 2011.

Buone vacanze, se ci andate.

Chiara fama all’italiana: una storia esemplare

Paolo -MacchiariniMarco Gasperetti. Lascia il segretario del Nobel che assunse il chirurgo italiano (Corriere della Sera, 8 febbraio 2016).

Michele Bocci. Trapianti falliti e falsi curriculum il super chirurgo messo alla porta (La Repubblica, 9 febbraio 2016).

Macchiarini, le 3 accuse del saggio (Corriere Fiorentino, 10 gennaio 2016)

Sergio Romagnani. Caro direttore, ho letto venerdì l’articolo di Alessio Gaggioli e il suo commento sulla incredibile recente evoluzione della storia del chirurgo Paolo Macchiarini e ho anche consultato il resoconto apparso il cinque gennaio sul sito della nota rivista americana Vanity Fair, intitolato «The Celebrity Surgeon Who Used Love, Money, and the Pope to Scam an NBC News Producer», che penso rappresenti la pietra tombale sul prestigio di questo personaggio. Dal resoconto di Vanity Fair emerge infatti in maniera indubbia il quadro di una personalità che va al di là di ogni più torbida previsione. Poiché come lei sa bene, io ho partecipato in prima persona ad alcuni eventi che hanno segnato il soggiorno di Macchiarini a Firenze e sui quali avevo già espresso alcuni commenti sul suo giornale a quel tempo ed anche successivamente, mi sento in dovere di trarre alcune conclusioni con riferimento ai protagonisti fiorentini della vicenda. Escludo dalle mie considerazioni la magistratura fiorentina, anche se le sue accuse sono state decisive nell’allontanamento del chirurgo dall’ospedale di Careggi, perché esse riguardano comportamenti professionali non di mia diretta conoscenza e che del resto sono oggetto di un processo attualmente in corso. Vorrei invece fare alcune considerazioni su altri protagonisti della vicenda, sui quali ho maggiore cognizione, cioè i politici, i professori della Facoltà di Medicina e i media.

I politici

Appare chiaro che il Macchiarini fu chiamato a Firenze a causa di una scelta politica basata sulla fama da poco acquisita di innovatore nelle tecniche chirurgiche sulla trachea e a tal fine furono al medesimo promessi un compenso molto elevato, un laboratorio creato e sostenuto con fondi regionali e, in accordo col Preside della Facoltà di Medicina, anche la nomina a Professore Ordinario senza necessità di un concorso nazionale (come avviene solitamente), ma utilizzando una legge che consente una chiamata «per equipollenza», cioè una chiamata diretta da parte della Facoltà possibile nel caso che Macchiarini avesse svolto una funzione equivalente a quella di Professore Ordinario in almeno una università straniera. Da quanto mi risulta non furono prese informazioni dirette dal Direttore del Dipartimento dell’Università di Barcellona (Spagna) dove il Macchiarini aveva effettuato il suo intervento chirurgico innovativo e nessun esperto nazionale o internazionale del settore delle cellule staminali usate nel suo intervento venne consultato. I bravi politici sono spesso chiamati ad avere intuizioni per scelte strategiche anche in settori molto diversi e perciò hanno la necessità di avvalersi del parere di esperti ben riconosciuti come competenti ed autorevoli in ciascuno di questi settori. Sfortunatamente, nelle scelte di politica sanitaria fatte a Careggi negli ultimi decenni sono state decisive le indicazioni di clinici, anche bravi professionalmente, ma privi di reale spessore scientifico. Uno spessore ormai da tempo evincibile semplicemente attraverso la consultazione di un sito («Web of ScienceTM della Thomson Reuters»), dove sono chiaramente indicati i principali parametri di valutazione oggettiva di tutti i ricercatori del mondo (numero delle pubblicazioni, fattore di impatto, numero delle citazioni, h-index). Questa politica sanitaria, basata sui suggerimenti di consulenti non accreditati a livello internazionale ha peraltro condotto nel tempo alla trasformazione dell’azienda ospedaliero-universitaria di Careggi da centro di alta specializzazione, ricerca e formazione delle nuove leve di medici, di assoluto livello nazionale ed internazionale, ad un semplice ospedale di pur ottimo livello assistenziale. Ma questo è tutt’altro discorso e meriterebbe un diverso contesto per il suo approfondimento.

I professori di Medicina

Una volta interpellata dal preside, la Facoltà di Medicina non accettò la chiamata del Macchiarini a professore ordinario a scatola chiusa con la formula dell’«equipollenza», ma chiese un esame del suo curriculum da una commissione di saggi, della quale io fui chiamato a far parte. La commissione nel giro di 3-4 sedute stilò il rapporto richiesto nel quale si faceva presente che il Macchiarini non aveva mai svolto funzioni analoghe a quelle di un professore ordinario, nonostante che nel suo curriculum vitae fosse chiaramente esplicitato che egli aveva rivestito un ruolo corrispondente a quello di professore ordinario nelle università di Parigi, Hannover e Barcellona. Ciò risultava ben chiaro, nonostante che alla commissione fosse stata interdetta la possibilità di effettuare le necessarie controprove tramite contatti diretti con le università in questione. Ottenuto il rapporto della commissione, il preside ritenne opportuno non riferirne le conclusioni in Facoltà ai fini di una approvazione o di un rifiuto sulla chiamata, ma al tempo stesso decise di mantenerne segreto il contenuto. Nonostante ciò, la decisione finale della componente universitaria dell’azienda di Careggi fu quella sostanzialmente giusta perché si risolse nella mancata chiamata del Macchiarini a professore ordinario presso l’università di Firenze. Quindi i «baroni» della Medicina furono gli unici a prendere in questa occasione la decisione più corretta. Leggo oggi sulle «News» dell’istituto Karolinska di Stoccolma che in seguito all’articolo su Vanity Fair l’istituto ha deciso una rapida azione investigativa per verificare l’accuratezza delle informazioni fornite da Macchiarini nel suo curriculum vitae prima del suo impiego in quella sede universitaria in qualità di «visiting professor».

I media

I media, sia gli altri giornali della città nelle loro cronache locali, sia alcuni quotidiani a livello nazionale, con l’unica eccezione del Corriere Fiorentino, svolsero nel corso di questa vicenda un ruolo veramente deteriore accendendo un tifo da stadio in favore del Macchiarini. Le motivazioni di questo tifo erano probabilmente diverse, alcune legati a meccanismi di ossequio o di affinità nei confronti dei politici responsabili ed altre probabilmente di natura più sotterranea. Ma il punto centrale della indegna gazzarra di stampa fu la presentazione ai lettori della decisione sostanzialmente negativa della Facoltà come un rifiuto da parte dei «biechi baroni» a consentire il rientro in Italia di un giovane «cervello in fuga». Peraltro in quegli anni la posizione «bieca» dei professori di Medicina era di gran moda anche in molte trasmissioni televisive. A cause di queste ingiuste accuse, io chiesi agli altri membri della commissione ed al preside di rendere pubblico il rapporto dal quale si evinceva invece chiaramente come Macchiarini avesse truccato il suo curriculum vitae per ottenere la chiamata a professore ordinario e che quindi esisteva la prova di una vera truffa, che dopo le rivelazioni di Vanity Fair sappiamo essere una delle tante da lui perpetrate. A questo proposito, un grande esperto di psicopatie, il dottor Ronald Scheuten direttore del servizio di legge e psichiatria del Massachusetts General Hospital di Boston, interpellato sempre da Vanity Fair a proposito dei comportamenti del Macchiarini, li ha definiti come l’espressione della forma estrema di truffatore («the estreme form of a conman»). Da tutta questa storia si evince che almeno per quanto riguarda il rapporto tra Macchiarini e Firenze gli unici ad aver agito in maniera corretta, oltre al giornale da Lei diretto, siano stati proprio i «biechi baroni» della commissione nominata dalla Facoltà di Medicina. Per questo vorrei chiudere ringraziando pubblicamente i miei colleghi membri di quella Commissione, nonché il suo giornalista Alessio Gaggioli per la sagacia investigativa, la correttezza e l’onestà intellettuale che ha sempre dimostrato nella descrizione delle varie fasi di questa fantasmagorica storia.

Le falsità sull’AIDS: ancora imbrogliati dalla scienza?

Le-falsita-sull-aidsL’AIDS (sindrome da immunodeficienza acquisita) fu identificato nel 1981 e tre anni dopo, nell’aprile del 1984, con una conferenza stampa convocata dal Ministro della Sanità americano e dal ricercatore Robert Gallo, fu dato l’annuncio che l’agente responsabile della cosiddetta “peste” del XX secolo è un virus. Annuncio del tutto irrituale, poiché non esisteva un solo articolo scientifico su riviste specializzate che confermasse la teoria virale. Eppure, il “virus dell’AIDS” diventò subito un dogma che orientò Istituzioni, Governi, Fondazioni, Riviste scientifiche, finanziamenti, ricercatori, industria farmaceutica, giornalisti, potenti lobbies, opinione pubblica in una guerra (fallimentare ancora oggi) all’insegna di un’ipotesi, mai dimostrata scientificamente, secondo la quale è l’HIV (il Virus dell’Immunodeficienza Umana) a provocare l’AIDS.

Nella stessa suddetta conferenza stampa, Robert Gallo promise, con tanta presunzione e sicurezza, che entro due anni sarebbe stato disponibile un vaccino in grado di bloccare l’epidemia di AIDS. Sono passati trentacinque anni da allora e un vaccino efficace non esiste ancora. Esiste, però, “una chiara e definita possibilità che al vaccino non si arrivi mai!”. Lo afferma, negli Stati Uniti, la massima autorità sull’argomento: il direttore dell’Istituto Nazionale delle Malattie Allergiche e Infettive, Anthony Fauci.

La definizione di AIDS è stata più volte rivista, spesso in modo artificioso e politico, con l’intento di far aumentare i casi di AIDS e creare l’illusione del diffondersi dell’epidemia. L’AIDS, che non è un’unica malattia, ma una sindrome, comprende – secondo il Centro americano per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie – più di trenta patologie diverse. Di conseguenza, una polmonite in un paziente che presenta anticorpi anti-HIV viene riclassificata come AIDS, mentre, in assenza di anticorpi anti-HIV, è diagnosticata come una normale polmonite infettiva. Lo stesso per altre malattie come tubercolosi, demenza, leucemia, candidiasi, cancro.

Scriveva nel 1996 Kary B. Mullis (premio Nobel per la Chimica nel 1993) nella sua prefazione al libro di Peter H. Duesberg (Inventing the AIDS virus): “Entrambi sappiamo con certezza che cosa non provoca l’AIDS; (…) non esistono prove scientifiche che dimostrino che l’AIDS sia una malattia causata dall’HIV”. E aggiungeva: “Non siamo riusciti a scoprire perché mai i medici prescrivano un farmaco tossico chiamato AZT (Zidovudina) a persone che non presentano altri disturbi se non la presenza di anticorpi anti-HIV nel loro sangue”, che, com’è noto, indica un’inattivazione permanente del virus. A tal proposito, undici anni dopo, nel 2009, anche Luc Montagnier (premio Nobel per la Medicina nel 2008) dirà la sua: “Possiamo essere esposti all’HIV molte volte senza essere infettati cronicamente. Il nostro sistema immunitario, se è efficiente, può eliminare il virus in poche settimane”.

Se l’HIV provoca l’AIDS, come si spiegano tutti quei pazienti con una diagnosi clinica di AIDS che non presentano l’HIV? Albert Sabin (che sviluppò il vaccino contro la poliomielite), nel 1987, nel corso di una conferenza pubblica, disse la sua in modo abbastanza duro. Riferendosi alla paventata diffusione dell’AIDS alla popolazione generale affermò: “Sono allibito davanti a queste reazioni isteriche: è pazzia pura. Si fanno affermazioni irresponsabili senza alcun fondamento scientifico. La presenza del virus in sé e per sé non vuol dire nulla e i virologi sanno che la quantità conta, eccome se conta. Questo significa che, essendo l’HIV estremamente raro nei malati di AIDS, la sua trasmissione da individuo a individuo dovrebbe essere molto difficile. Alla base delle attuali campagne e misure sanitarie c’è il concetto che chiunque risulti sieropositivo deve essere considerato fonte di contagio, eppure non ci sono prove per dirlo. Fino ad oggi tutta questa fantastica conoscenza della biologia molecolare dell’HIV non ci sta aiutando granché”.

Nel 1998 fu pubblicata l’edizione italiana del libro di Duesberg (AIDS. Il virus inventato), che ebbe un notevole successo anche nel nostro Paese. Oltre a ribadire che l’AIDS non è contagioso, Duesberg fornì in poche righe una descrizione precisa ed efficace (valida ancora oggi) del clima di quegli anni e dei guasti provocati dall’insensato atteggiamento, favorevole alla teoria virale, dell’establishment: “Morti tragiche, spreco di tempo e di denaro, un dibattito pubblico isterico su un virus innocuo: ecco quali sono i frutti nati da un ambiente scientifico cresciuto a dismisura e ormai troppo vasto per produrre vera Scienza. La ricerca del sapere è stata soppiantata dal carrierismo, dalla sicurezza del posto di lavoro, dalle sovvenzioni, dai benefici finanziari e dal prestigio. Ma il mostro che ne risulta è doppiamente colpevole, perché distrugge o emargina quei pochi scienziati che osano formulare interrogativi”.

La competenza e l’autorevolezza (proprio in Virologia) di Duesberg, l’ampia e convincente documentazione a sostegno delle sue posizioni (l’HIV non provoca l’AIDS, l’AIDS non si trasmette per via sessuale, l’AZT peggiora l’AIDS), le evidenti falsità sull’HIV sostenute dall’establishment scientifico internazionale, il fallimento della messa a punto di un vaccino contro l’AIDS, l’inesistenza di una cura per l’infezione da HIV, il dissenso in crescita tra la Comunità Scientifica … alla fine degli anni ’90 facevano prevedere un declino certo, entro pochi anni, dell’ipotesi virale dell’AIDS.

Purtroppo così non è stato, come dimostra il libro di Domenico Mastrangelo, che esce giusto vent’anni dopo l’edizione inglese del libro di Duesberg, colmando un’evidente lacuna sull’argomento. Quello di Mastrangelo è un libro agile (si legge tutto d’un fiato), chiaro, aggiornato (con i riferimenti bibliografici alla fine di ogni capitolo), rivolto, nelle intenzioni dell’Autore, “a tutti coloro che nella vita si occupano di altro”, che sono invitati, servendosi di logica, buon senso e dei riferimenti scientifici internazionali citati, ad analizzare i fatti documentati riguardanti l’interrogativo di fondo: è davvero l’HIV a provocare l’AIDS?

Ed è proprio questo il punto! Quel che, giustamente, Mastrangelo suggerisce al Lettore comune – analizzare i fatti, servendosi di logica, buon senso e riferimenti bibliografici per farsi un’idea in piena libertà – la Scienza Ufficiale non l’ha mai imposto ai numerosi studiosi dell’AIDS e alle Riviste scientifiche specializzate. Sintomatico il punto di vista di Harvey Bialy, della rivista Bio/Technology, che nel 1992 dichiarò al Sunday Times of London: “Che tipo di Scienza è quella che continua a dare il cervello all’ammasso e che concede alla teoria virale dell’AIDS tutta la fiducia e tutto il denaro stanziato per la ricerca? La risposta che continua a venirmi in mente è che non ha niente a che vedere con la Scienza: le ragioni sono tutte non scientifiche”. Del resto, come non restare sbalorditi se, come ci racconta Mastrangelo, la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità nell’ottobre 2013 ha presentato il suo “fact sheet” in tema di HIV/AIDS, che contiene notizie importanti sulla sindrome – sintomi, trasmissione, diagnosi, fattori di rischio, test, prevenzione, terapia –, senza citare un solo riferimento bibliografico a sostegno dei fatti riportati!

È comprensibile, perciò, quello che, ventitré anni dopo le dichiarazioni di Harvey Bialy, Mastrangelo scrive sulla “peste del XX secolo, che alcuni considerano l’ennesima «bufala» prodotta da una Scienza malata d’ignoranza, supponenza, presunzione, arroganza, corruzione e malaffare. Non sorprenda la durezza del giudizio per la ricerca sull’AIDS!

Già nel 1979, il grande biochimico e padre della biologia molecolare, Erwin Chargaff, aveva scritto che “le Facoltà di Medicina negli Stati Uniti sono controllate da un tipo particolarmente virulento di operatori scientifici e una parte di ciò che ora viene spacciata come ‘ricerca biomedica’ rientra negli annali della criminalità. Fabbricanti di dogmi e speculatori di assiomi si affollano intorno al tavolo dei doni, dove si distribuiscono le sovvenzioni per le ricerche, e le Riviste specializzate traboccano di nuovi fatti concreti rastrellati un po’ dappertutto, ma per lo più questi fatti, prodotti in fretta e furia, non reggono a lungo, spariscono con il vento, che a sua volta ne raduna ancora un bel mucchio”.

Aveva ragione Chargaff quando descriveva la situazione dei suoi tempi! E cosa avrebbe detto, oggi, con riferimento agli operatori scientifici che, adorando il dogma del virus dell’AIDS, fanno ricerca sulla cosiddetta “peste” del XX e XXI secolo? E perché la “bufala” dell’HIV che provocherebbe l’AIDS dura da trentatré anni? Lo si capirà leggendo anche questo libro.

Agli intellettuali senesi di una certa età manca tensione etica, apertura mentale e spessore culturale

IntellettualeRabbi Jaqov Jizchaq. Scrive Raffaella Zelia Ruscitto su Il Cittadino online: «Dove sono gli intellettuali senesi? In quali antri si nascondono? A quale esilio si sono autocondannati? È pur vero che l’Università perde docenti e che questi non vengono sostituiti da altri ma sarà rimasto vivo, da qualche parte, lo spirito dialettico e rigenerativo che si è sempre respirato lungo i corridoi e nelle aule dell’Ateneo!»

…Où sont les neiges d’antan? Della neve di due giorni fa, rimane solo un po’ di fango. Lo “spirito dialettico”? Cara Direttrice, di spirito dialettico, attualmente, di voglia, cioè, di discutere costruttivamente, mi pare che non ci sia rimasta nemmeno la puzza: parlare del senso delle cose è assolutamente vietato. Azzoppate le istituzioni culturali (già in passato colonizzate dalla partitocrazia) facendo fuori dall’università o emarginando le leve meno anziane (media di età dei “giovani ricercatori” senesi, 52 anni; età media degli ordinari, 62 anni) viene meno l’humus stesso dove cresce lo spirito dialettico. Quanto agli intellettuali di una certa età, quando non suonano bucolicamente il piffero, normalmente passano il tempo a parlare male l’uno dell’altro: manca tensione etica, apertura mentale e, in definitiva, spessore culturale.

Altrimenti risulterebbe chiaro, per esempio, che per la “cultura” (in senso rigoroso, scientifico od umanistico, per chi ama queste oziose distinzioni), nell’attuale impostazione aziendalistica dell’università, di spazio, proprio non ce n’è e non ce ne sarà in futuro. Verrà preservato forse qualche esemplare di “intellettuale”, preferibilmente con la “erre” moscia, da destinarsi al museo delle razze estinte, tra scheletri di brontosauri e nerboluti uomini di Neanderthal. L’efficienza aziendalistica, da mezzo è diventata il fine e peggio ancora una religio: vuota liturgia, ideologia, rovesciando il rapporto fra mezzi e fini; una finzione di efficienza che ammonta a un girare a vuoto soffocando ogni domanda di senso, in una metastasi di materiale cartaceo sfornato dall’apparato burocratico. Un susseguirsi di minacciose “circolari” che accompagnano, a livello del corpo accademico, la recrudescenza di certo autoritarismo, legato forse al fatto che i ruoli sono congelati da dieci anni, molti settori sono stati marginalizzati, e le gerarchie istituitesi paiono pertanto eterne e inamovibili. Risorge, dietro questa parodia della matematica oggettività, una certa insofferenza verso i “ludi cartacei” della democrazia…

L’aziendalismo dogmatico, da un lato sta conducendo alla mcdonaldizzazione del sistema dell’istruzione superiore (senza oltretutto raggiungere lo scopo di sfornare un maggior numero di laureati), e dall’altro, con la volontà di ridurre tutte le dinamiche interne dell’istruzione e della ricerca a leggi di mercato, si è ridotto esso stesso a un’astratta ideologia, malcelata dietro un profluvio di disposizioni burocratiche che, di fatto, contraddicono ogni idea pratica di efficienza.

Max Born diceva: «sono convinto che la teoria fisica sia oggi filosofia», ma oramai, qui, nella cornice aziendalistica dell’università riformata, anche “filosofia” è una parola proibita, o usata con significato dispregiativo. Oggi, invece dei filosofi, imperversano semmai i tuttologi, razza perniciosa che pontifica su tutto, non dicendo niente.

Va detto che tutti i rami delle scienze moderne sono oramai giunti a un tale livello di specializzazione che rasenta l’incomunicabilità; questo fatto taglia fuori l’intellettuale che, senza essere specializzato in nulla, svolazza di fiore in fiore; ma crea nondimeno eserciti di ignoranti altamente specializzati, i quali ritengono che non esista altra cultura, se non quel centimetro quadro di cui essi stessi sono cultori.

Il tutto si dovrebbe ricomporre nella cornice di quella che chiamiamo solitamente “civiltà” (la “civiltà occidentale”, uno pensa al già citato Musil, ad Einstein, a Turing – che ora va di moda – ecc.). La specifica vocazione professionale di ciascuno non dovrebbe esimere dal dovere etico di cercare di informarsi su ciò che accade in altri campi, e soprattutto dal piacere di farlo, pur senza pretendere di pontificare: «gli scienziati non leggono Shakespeare e gli umanisti sono insensibili alla bellezza della matematica», lamentava Ilja Prigogine.

È deprimente osservare come i poeti mediocri vantino con civetteria la loro ignoranza in cose di fisica e matematica, e gli scienziati mediocri disprezzino la poesia e la musica, senza rendersi conto di come, nella cornice sopra descritta, gli uni e gli altri si trovino al contrario dalla stessa parte della barricata. Quel che è peggio, è che, nonostante oramai tutti si sentano volteriani e brandiscano ampi cartelli “Je suis Charlie”, è rischioso dire queste cose in giro.

Che vuol dire rilanciare “la cultura” a Siena? Come si fronteggia la concorrenza di atenei italiani ed esteri che offrono corsi di studio prestigiosi?

Martin Heidegger

Martin Heidegger

Rabbi Jaqov Jizchaq. Ieri sera, in occasione della trasmissione del film della Von Trotta su Hannah Arendt e della ricorrenza del Giorno della Memoria, mi sono andato a rileggere il Discorso di rettorato che fu pronunciato sabato 27 maggio 1933 da Martin Heidegger, filosofo “agreste e boschivo” e discretamente nazista, in occasione della cerimonia ufficiale del suo insediamento come nuovo rettore dell’Università di Friburgo in Bresgovia. Non ho molta affinità con il personaggio, e men che mai condivido le sue simpatie, risalenti a questo periodo, per il regime nazionalsocialista, o certi lati criptonazisti del suo pensiero. Aborro altresì, per più ragioni, il suo disprezzo antisemita (i “Quaderni Neri”) per quel popolo che si distingue per “il rimarcato talento nel dar di conto” (sic), ossia gli ebrei. Ma il tono non è certo quello ragionieristico di chi parla solo ed esclusivamente di requisiti minimi e crowdfunding, intercalando qua e là la parola “cultura”:

«Scienza non è per loro [i greci] neppure il semplice mezzo del potenziamento del sapere che rende consapevole ciò che è inconsapevole; essa è invece quella potenza che, nel mantenere acuto e intenso l’intero Dasein (l’intero rapporto con l’essere), lo contiene e lo abbraccia completamente. Il sapere scientifico è l’interrogante e stabile stanziarsi nel bel mezzo dell’ente che, colto nella sua interezza, costantemente si nasconde. Tale operante perseverare è pienamente consapevole del proprio disconforto dinanzi al destino ecc.»

Lasciamo perdere il resto… probabilmente, ai nostri giorni, non del tutto senza ragione, l’uditorio, anziché inquietarsi laddove Heidegger accennava alla “missione storica e spirituale del popolo tedesco”, si sarebbe semplicemente addormentato, dopo aver cercato invano qualche istogramma da rimirare o qualche sito da compulsare; quello che voglio dire è che nel frenetico fare e disfare di questi anni, nell’università italiana e senese in particolare, mi pare che sia mancato e manchi un orizzonte di senso.

Ho più simpatia invece per quell’altra università germanica, di proporzioni non dissimili da Siena, dove di “talenti nel dar di conto” non mancarono certo e che vide succedersi o coesistere, tra gli altri, personaggi come Gauss, Dirichlet, Emmy Noether, Riemann, Klein, Hilbert, Born, Planck, Minkowski, Wigner, Husserl, Weber ecc. (sto parlando ovviamente della Goettingen che fu e diversi dei succitati illustri personaggi furono allontanati in occasione della “Grande purga” antisemita del 1933); tanto per dire che quando si parla di “eccellenza”, senza citare la solita “Ossforde” e “senza nulla a pretendere”, i punti di riferimento storici nella cultura europea, sarebbero di questa scala: allora, “senza nulla a pretendere” e contendandoci anche di parecchio meno, che cosa vuol dire che si vuol rilanciare “la cultura” a Siena?

Non è chiara in particolare, in una tale cornice, la sorte che in seno all’ateneo si riserva a quelle aree dove “l’approssimazione” non è di casa, cioè ai rami più astratti ed esatti della scienza e della cultura: “l’uomo impreciso domina il tempo presente”, scriveva Musil, ma non si capisce come si pensi di fronteggiare la concorrenza di atenei italiani ed esteri che oramai offrono ben delineati corsi di studio solidi e di tutto prestigio, concorrenziali non solo dal punto di vista dei contenuti e delle prospettive, ma oramai anche dal punto di vista economico.

Aids: dal virus inventato al vaccino osannato

E la storia del virus dell’Aids continua con risvolti italiani del tutto peculiari, come ci racconta Duccio Facchini suil Fatto Quotidiano“.

IlFatto22luglio2014

Il bricolage genetico è servito

Erwin Chargaff

Erwin Chargaff

Dopo la notizia di Nature sulla creazione del primo organismo vivente con un Dna semisintetico in grado di replicarsi, ritornano attuali le riflessioni di Chargaff pubblicate su Science nel 1976.

Il pericolo di un pasticcio genetico (On the dangers of genetic meddling, Science, vol. 192, pagg. 938-940, 1976)

Erwin Chargaff. Il tentativo recentemente intrapreso di far gustare al pubblico il bricolage genetico, pone un curioso problema. I National Institutes of Health (NIH) si sono lasciati coinvolgere in una controversia (probabilmente perché qualcuno li ha pregati di stabilire «linee direttrici»), in cui non hanno proprio nulla da cercare. Forse, si sarebbe dovuto rivolgere una siffatta richiesta al dipartimento della giustizia, il quale, però, dubito che si sarebbe occupato dei problemi di una biologia molecolare colposa.

Anche se non credo che un’organizzazione terroristica abbia mai chiesto alla polizia federale di emanare direttive riguardanti l’esecuzione corretta di esperimenti con esplosivi, sono sicuro del tipo di risposta: dovrebbero mantenersi estranei a qualsiasi azione illegale. Ciò rientra anche nel caso di cui intendo ora parlare: nessuna cortina fumogena e nessun laboratorio di sicurezza del tipo P3 o P4 possono esimere il ricercatore dalla colpa, se ha recato danno a un suo simile. Devo riporre le mie speranze nelle donne delle pulizie e negli addetti agli animali impiegati nei laboratori a giocherellare con i DNA ricombinanti, o nel legislatore che deve ravvisare un’occasione d’oro nella possibilità di perseguire le pratiche biologiche illecite, e nelle corti d’assise che disdegnano dottori di ogni tipo.


Nell’esecuzione della mia impresa donchisciottesca – una lotta contro mulini a vento muniti di laurea in medicina – comincerò con la follia principale, cioè con la scelta dell’Escherichia coli come ospite. In tale contesto vorrei citare una definizione contenuta in un prestigioso manuale di microbiologia: «L’Escherichia coli viene indicato come il “bacillo dell’intestino crasso”, perché è la specie predominante in quel tratto dell’intestino». In realtà noi ospitiamo molte centinaia di diverse varianti di questo utile microorganismo, responsabile di poche infezioni, ma forse del maggior numero di lavori scientifici che qualsiasi altro organismo vivente. Se gli uomini del nostro tempo si sentono chiamati a produrre nuove specie di cellule viventi (specie che il mondo non ha probabilmente mai visto dagli inizi della sua esistenza), perché scegliere proprio un microorganismo che da gran tempo è convissuto con noi in rapporti più o meno felici? La risposta è che noi ne sappiamo di più sull’Escherichia coli che su qualsiasi altro essere vivente, inclusi noi stessi. Ma questa è una risposta valida? Prendetevi tempo, fate con diligenza le vostre ricerche e ricaverete alla fine molte cose su microorganismi che non possono vivere nell’uomo e nell’animale. Non c’è fretta, non c’è per niente bisogno di avere premura. A questo punto, molti colleghi mi interromperanno assicurandomi di non poter aspettare più a lungo, di avere una fretta incredibile di aiutare l’umanità sofferente. Orbene, senza mettere in dubbio la nobiltà dei loro motivi, devo dire che, per quanto io sappia, nessuno ha mai presentato un progetto chiaro di come preveda di guarire tutto, dall’alcaptonuria alla degenerazione di Zenker, per non parlare del modo con cui intende migliorare e sostituire i nostri geni. Ma schiamazzi e vuote promesse riempiono l’aria: «Non volete in fin dei conti avere un’insulina a buon mercato? Non vi piacerebbe vedere il grano prendere il suo azoto direttamente dall’aria? E non sarebbe bello se la verde umanità potesse preparare il suo cibo mediante fotosintesi: dieci minuti al sole come colazione, trenta minuti per il pranzo e un’ora per la cena?». Bene, forse sì, forse no.

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Quando Giovanni XXIII parlava agli scienziati del sistema periodico degli elementi

Erwin Chargaff

Erwin Chargaff

Nel giorno della canonizzazione di Giovanni XXIII, un breve ricordo del papa fatto dal grande ricercatore Erwin Chargaff nel 1979, diciotto anni dopo l’incontro.

Erwin Chargaff. (…) E che dire delle visite proustiane ai papi? Ne ho visti due da vicino, prigionieri delle pieghe irrigidite di un ufficio impossibile: essere insieme luogotenenti e ragionieri di Dio in Terra, direttori di una banca teocratica di investimento con una vista obbligata sull’eternità. La prima volta, a Castel Gandolfo, assistetti a un’allocuzione del pontefice a un gruppo di ematologi miscredenti, che con gli scatti delle loro macchine fotografiche sovrastavano le cadenze armoniose del discorso. Pio XII, nella sua bianca veste, un monumento di manierismo, scandiva con le sue belle mani dalle dita affusolate, il ritmo di una spossatezza sublime: il santo più elegante che il mondo abbia mai visto, come se un Francisco de Zurbarán avesse d’un tratto prodotto un capolavoro di bondieuserie. Ciò deve essere avvenuto nel 1958. Che atmosfera diversa, tre anni più tardi, con Giovanni XXIII, il papa gradito a tutto il mondo, esclusi i prelati. L’opportunità di incontrarlo mi fu offerta da un piccolo simposio sulle macromolecole biologiche, organizzato dall’Accademia pontificia delle scienze in coincidenza di una delle sue regolari riunioni. Fu un piccolo convegno, uno dei più gradevoli a cui abbia partecipato; il tipico atteggiamento italiano nei confronti delle scienze si manifestò nel suo modo migliore, come se la riunione si fosse tenuta sotto gli auspici di Spallanzani o Malpighi, Volta o Galvani: assoluta disponibilità e cortesia, senza le durezze che caratterizzano la nostra epoca. Una lieve, ironica mestizia si effondeva tra le graziose colonne di un padiglione rinascimentale: il Casino di Pio IV, eclettico capolavoro di Ligorio, in cui si svolgeva il convegno, nobilitava anche i contributi più rozzi; ma ancor meglio si stava nel bel cortile ovale, davanti al colonnato, nella pallida luce solare di una giornata di tardo autunno. Il sole al di sopra del piccolo edificio, un sole più saggio degli altri, aveva visto tutto, anche l’immortale Sibilla Cumana, che voleva morire. (…)

Alla fine del convegno Giovanni XXIII avrebbe dovuto dare udienza agli ospiti, ma si ammalò e il ricevimento fu disdetto. Tre giorni più tardi, stando meglio, fece invitare i partecipanti al convegno ancora presenti a Roma. I castori più zelanti erano già tornati in tutta fretta ai loro argini e alle loro costruzioni, così il gruppo che si raccolse nel Palazzo del Vaticano fu molto esiguo: alcuni membri dell’accademia e qualcuno di noi meno abbiente. Bastò una saletta con sei-otto file di posti, i membri dell’accademia erano in frack: Otto Hahn, già ottantaduenne e di salute molto cagionevole; Leopold Ruzicka, che si inginocchiò baciando l’anello al papa e alcuni altri. Quanto a me, ero seduto in terza fila e potevo vedere tutto da vicino. L’uomo tarchiato, in là con gli anni, con un volto insolitamente bonario e occhi un po’ buffi di contadino, non era un attore. Sistemando con disinvoltura il bianco zucchetto che spesso gli scivolava da una parte, il papa parlava correntemente in francese con un forte accento italiano. Non intendeva, ci disse, tenere un discorso preparato, ma preferiva richiamarsi ai suoi primi giorni di liceo, quando studiava le scienze naturali, ed ebbe particolari parole di lode per quello che egli definì «il nobile sistema periodico degli elementi». C’è chi deride ciò che i vecchi raccontano, altri li ascoltano volentieri tornare agli anni lontani della giovinezza, levigando per un troppo breve attimo le rughe del tempo e del declino. Io sono di questa specie e la voce del vecchio papa che ci raccontava del tempo quando era bambino e ragazzo non mi è ancora uscita dalle orecchie.