Università: dopo i baroni i bari. Come prima, più di prima… mentre l’ANAC tace



Per saperne di più:
il Fatto Quotidiano (11 luglio 2017). Università: truccate le pagelle dei premi da 2miliardi di euro.
Roars (11 luglio 2017). Modificati più di 100 file della VQR. La difesa di ANVUR: «il rapporto Vqr non è da considerarsi un atto ufficiale».
il Fatto Quotidiano (11 luglio 2017). Indicatori inaffidabili: Londra li scarta, ma l’Italia li mantiene.
il Fatto Quotidiano (11 luglio 2017). Il mistero di quanto costa davvero.

In Italia il sistema università sarà costituito da qualche ateneo eccellente, una ventina di serie B e gli altri di serie C

Vincenzo Vespri

Vincenzo Vespri

‘L’Università non può sostituirsi all’impresa’. Parola al prof. Vincenzo Vespri (da: il Fatto Quotidiano/Blog di Fabio Scacciavillani, 6 agosto 2016)

Fabio Scacciavillani. Questo post contiene un’intervista a Vincenzo Vespri, professore universitario di matematica a Firenze, personaggio atipico nell’accademia italiana, soffocata da tromboni e parentopoli.

Domanda: Qual è la percezione dell’opinione pubblica sull’Università italiana?

Risposta: i ritornelli più diffusi sono due:
a) L’Università, l’alta formazione e la ricerca sono sotto-finanziati. Un paese che vuole rimanere in serie A non può investire un misero 0.98% del Pil in Università, innovazione ed alta formazione;
b) L’Università attualmente è autoreferenziale e di scarsa utilità per il Paese.

D: Quali dei due riflette meglio la realtà?

Entrambi. Per partecipare alla Champions League occorre investire non solo in goleador, ma anche in giovani, in centrocampisti e difensori. L’allenatore, inoltre, è fondamentale per imprimere coralità ed incisività, contenendo le “prime donne”.

D: Quindi cosa suggerisce per cambiare rotta?

Per prima cosa occorrerebbe definire quali siano le missioni da affidare all’Università. Io credo che in ordine d’importanza siano:

1) L’alta formazione;
2) Il trasferimento della conoscenza accademica al mondo produttivo. Se l’Università non svolge questa funzione viene considerata autoreferenziale;
3) L’attività di ricerca che allarghi il campo della conoscenza.

Attualmente il mondo accademico tende a sopravvalutare il punto 3), il mondo industriale il punto 2). L’ ”Allenatore”, cioè il governo, dovrebbe operare le scelte per contemperare queste tre esigenze e manifestarle pubblicamente.

D: E invece cosa accade?

Attualmente sembra prevalere la logica di penalizzare le sedi deboli, mantenere stabile il finanziamento per le sedi consolidate e sovra-finanziare centri di ricerca che, per quanto prestigiosi, non si sobbarcano l’onere della formazione della massa degli studenti. Quindi stiamo scivolando, più o meno consapevolmente, verso un sistema con qualche università eccellente, una ventina di serie B e la gran parte di serie C.

D: È sempre più diffusa un’avversione alla scienza. Come mai la gente crede alle falsità sulla Xylella, i vaccini che provocano l’autismo, alle scie chimiche o al ritorno alla lira che magicamente creerebbe il Bengodi?

In genere, ai talk show, invitano o squinternati o talebani, dando un’immagine devastante della nostra categoria. I politici si circondano di professori di fisica digiuni di leggi della fisica o di professori di economia a disagio nel far di conto. I matematici frequentemente in TV sono Odifreddi, la cui produzione scientifica di punta risale a circa 25 anni fa e il matematico dei pacchi, Matiacic (che non è un universitario).
Per di più il presentatore del talk show, secondo le leggi espresse da Eco su Mike Bongiorno, deve sembrare più cretino del telespettatore medio. Pertanto non contraddice mai le bestialità profferite, anzi zittisce gli esperti. Ricordo un dibattito in cui Rubbia fece notare che l’affermazione di un interlocutore contraddiceva le leggi della fisica. Il presentatore ammonì prontamente Rubbia che in un dibattito televisivo ogni opinione meritava rispetto. Ultimamente Red Ronnie è stato messo a confronto con un virologo sui vaccini. Nei dibattiti per il referendum sulle trivelle intervenivano professori che ignoravano cosa fosse un kw o la potenza oppure che non sapevano fare un bilancio energetico.

D: Torniamo agli obiettivi del sistema universitario. Quale sarebbe il mix ideale tra ricerca e formazione?

La ricerca è fondamentale. Se uno non è stato in grado nella vita di fare una ricerca decente, non è in grado di fare bene né l’attività 1) né l’attività 2). È necessaria una valutazione della ricerca al fine di selezionare le eccellenze dalla zavorra, ma non si può estremizzare questa funzione. Né si può affidare il timone a esponenti di grandi gruppi di ricerca, che non abbiano dato contributi nel trasferimento tecnologico e che spesso non hanno grande esperienza didattica e formativa. Tenderanno a premiare ricerca di discreta caratura ma con scarso impatto pratico, esacerbando l’autoreferenzialità e la sostanziale inutilità sociale dell’Università.
Nella valutazione della ricerca non vanno esclusi i ricercatori di grandi scuole, ma devono essere affiancati da esponenti del mondo reale che tengano conto anche delle altre due finalità. Inoltre non si può considerare la produzione scientifica come discriminante unica per la carriera.

D: Insomma un’università meno impermeabile al mondo reale.

Il trasferimento tecnologico è sicuramente l’azione più visibile e apprezzata dal mondo “reale”. Ma la ricerca universitaria non può essere confindustrializzata, altrimenti si rinuncerebbe ai benefici della ricerca pura. L’Università non può sostituirsi all’impresa. Sono due mondi collegati, ma non intercambiabili. Il trasferimento tecnologico è una fase delicata che richiede un impegno specifico. Tuttavia ai vertici della carriera accademica dovrebbe assurgere chi ha dato un contributo sia nella ricerca che nelle applicazioni.

D: E l’attività formativa?

Rimane l’attività principe. L’attività didattica non si esaurisce nell’insegnare formule o concetti. Occorre instillare un pensiero critico ed autonomo. Non è cruciale insegnare le tecnologie attuali, ma va plasmata nello studente una flessibilità mentale per adattarsi alle innovazioni. In definitiva dovrà essere in grado di imparare da solo le nuove tecnologie/metodologie/tecniche che l’evoluzione scientifica imporrà.

Il caso Pannella: un paradigma italiano

Adelaide Aglietta e Marco Pannella

Adelaide Aglietta e Marco Pannella

In vita lo silenziarono
Gli ordini sono ordini: Pannella no
(da: Il Fatto Quotidiano, 22 maggio 2016)

Furio Colombo. (…) quando e dove questo Marco Pannella, adesso al colmo della celebrazione, abbia mai messo mano alle vicende, leggi o cambiamenti della vita italiana. Il suo caso è di estremo interesse (…) per ciò che è avvenuto in vita. Pannella non doveva apparire nei mezzi di comunicazione di massa, e non è mai apparso. Pannella non doveva parlare, benché fosse il più prolifico e sorprendente oratore politico del Paese, e non ha mai parlato, salvo frammenti di frasi isolate dal contesto.

Gli ascoltatori di Radio Radicale ricordano le meticolose ricerche nella mattutina rassegna della stampa di Bordin. Dopo un evento a cui Pannella aveva inteso dedicare una rivoluzione culturale (come “il diritto alla conoscenza” oppure “lo Stato di diritto” invece del “diritto di Stato”, oppure l’invocazione per la salvezza di un popolo) il giornalista accantonava una dopo l’altra le grandi testate, e doveva quasi sempre concludere che no, sui radicali oggi non c’è alcuna notizia. Impossibile non pensarci vedendo sfilare direttori e colleghi giornalisti di fronte alla salma dell’appena defunto leader radicale, dicendo al microfono, subito disponibile, almeno qualcuna delle cose che in 40 anni non sono mai state dette, e anzi fingendo che gli eventi a cui quelle parole si riferivano non fossero mai avvenuti.

Gli ordini sono ordini, ora da destra e ora da sinistra. Ma Pannella deve stare fuori. E il vero successo che oggi stiamo celebrando e che merita attenzione, perché è un fenomeno ben radicato, non sono tutte le cose (diritti, difese, rivelazioni, affermazioni, impegni internazionali) che Pannella è riuscito a realizzare nonostante tutto. Ma il fatto che, nonostante tutto, un enorme richiamo politico, una straordinaria capacità di toccare il punto in anticipo, una vena profetica e una di naturale e fortissima empatia per il mondo estraneo al potere a cui si rivolgeva (ma anche una straordinaria inclinazione pedagogica per i capi partito che il leader radicale si ostinava a tentare di salvare), Pannella è stato lasciato fuori da ogni canale di comunicazione del Paese e privato di ogni contatto con la grandissima maggioranza degli italiani.

Il vero capolavoro è che ci siano riusciti. Sempre. Per ogni decennio del lavoro instancabile di un grande politico ricco di intuizione istantanea, di abilità strategica, di anticipazione del dopo, di una straordinaria visione del contesto, Pannella ha avuto le sue rivincite, e in molti casi impossibili è riuscito a imporre qualla che lui vedeva (e che era) la sola strada possibile. (…) Il vero capolavoro è la sistematica eliminazione di voce, presenza e azione nella vita di un grande Paese. (…) Il fenomeno ha due aspetti che riguardano entrambi le condizioni della nostra democrazia: il silenzio di Pannella è stato ordinato (Chiesa, Stato, interessi organizzati, necessità di eliminare l’obiezione intelligente). Il silenzio di Pannella è stato eseguito, nel senso che praticamente tutti, nella vita pubblica italiana, hanno osservato quel silenzio come se si trattasse di un normale dovere civico.

Non si ricordano importanti violazioni del comandamento. Ma si sono visti rendere omaggio, anche con dichiarazioni vibranti davanti alla salma, coloro (tutti) che hanno eseguito scrupolosamente la linea di partito del silenzio su ogni iniziativa radicale. Pannella è stato un grande e nuovo uomo politico italiano. Perciò conta molto l’operazione della perfetta esclusione della vita pubblica. È una operazione fondata sulla disciplina, senza se e senza ma, di direttori, commentatori, cronisti, che scrivono volentieri solo ciò che si può scrivere. (…)

Perché non candidare Aldo Berlinguer a rettore dell’Università di Siena?

Aldo Berlinguer

Aldo Berlinguer

Il termine per la presentazione delle candidature alla carica di rettore dell’Università di Siena scade il 17 maggio e l’articolo 27 dello Statuto prevede che il Rettore sia eletto «tra i professori ordinari in servizio presso le Università italiane». Quindi, a dirigere l’ateneo senese potrebbe essere anche un docente di un’altra università italiana. Il gruppo di potere (guidato dal “grande vecchioLuigi Berlinguer e da Piero Tosi), che in questa competizione elettorale schiera addirittura due candidati (i “Berlinguer boys” Francesco Frati e Felice Petraglia), non farebbe meglio a candidare a rettore Aldo Berlinguer? Vuoi mettere, per un candidato, l’importanza di chiamarsi Berlìnguer («con l’accento sulla prima “i” perché è così che parlano gli italiani di Siena», come dice Francesco Merlo)? Vuoi mettere l’affidabilità garantita dal figlio biologico rispetto a quella “assicurata” dall’affiliazione simbolica e “politica”? E “quanto è bravo Aldo Berlinguer“, come puntualmente lo descrive Giancarlo Marcotti! E poi, con Aldo rettore si realizzerebbe al massimo livello la dinastia accademica della famiglia Berlinguer: professore il padre e professore il figlio; rettore il padre e rettore il figlio. Infine, Aldo eviterebbe la grana ecologica, che da assessore all’ambiente della regione Basilicata sta affrontando in questo momento, dopo l’inchiesta sulle attività petrolifere e l’inquinamento delle campagne e dell’invaso del Pertusillo, che rifornisce d’acqua oltre che la Lucania anche la Puglia, con evidenti conseguenze sulla salute dei lucani e dei pugliesi.

Pubblicato anche da:
– Bastardo Senza Gloria (16 maggio 2016) con il titolo: «Un’idea di Giovanni Grasso per Aldo Berlinguer».
il Cittadino online (16 maggio 2016) con il titolo: «Grasso: “Perché non candidare a rettore Aldo Berlinguer?”.

Basilicata, l’assessore all’ambiente è Aldo Berlinguer: giurista senese, ma pittelliano (Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2016)

Daniele Martini. (…) Dice Berlinguer: «Certo che ho un’interlocuzione con le società petrolifere ed energetiche che operano in Basilicata, il Dipartimento Ambiente ha competenza sugli impatti ambientali, compresi quelli degli impianti petroliferi. Da non molto ho ufficialmente diffidato l’Eni a proseguire con le sue fiammate che preoccupano tantissimo, e con ragione, la popolazione locale». A distanza gli risponde Albina Colella, professore ordinario di geologia all’Università della Basilicata e autrice con Massimo Civita del libro «L’impatto ambientale del petrolio in mare e in terra»: «Le fiammate impressionano, ma c’è molto, ma molto di peggio. Il punto è semplice: le tecniche di estrazione non sono tutte uguali, se si procede con la stessa attenzione usata in Norvegia, per esempio, l’impatto sull’ambiente è ridotto in limiti tollerabili. Se si pensa invece di fare come in Ghana tutto si complica. In Basilicata, regione delicata e fragile anche da un punto di vista sismico, finora si è proceduto con un rispetto assai basso per l’ambiente circostante. La Regione potrebbe fare molto, ma mi pare che l’assessorato all’Ambiente finora sia stato latitante. Sarebbe opportuno che l’assessore avesse competenze specifiche, ambientali più che legali, ma non mi risulta che il professor Berlinguer ce l’abbia».

Il fatto è che Aldo Berlinguer, professore ordinario di diritto privato comparato all’Università di Cagliari, in vita sua non si era mai occupato di questioni ambientali fino a quando alla fine del 2013 è stato catapultato nella giunta regionale della Basilicata dalla Toscana con una decisione che lasciò tutti di stucco. La storia è questa: ai tempi delle primarie Pd i Berlinguer del ramo senese, cioè Luigi, rettore dell’università toscana, già presidente della Commissione di garanzia del partito e ministro della scuola in governi di centrosinistra, e suo figlio Aldo fecero campagna per il lucano Gianni Pittella. I due, Aldo e Gianni, si conoscevano fin dai primi anni Duemila: Aldo era consulente giuridico a Bruxelles del Parlamento europeo e Gianni fresco di elezione da europarlamentare. Pure Gianni è rampollo di un’altra dinastia politica, quella lucana dei Pittella di cui capostipite nella Prima Repubblica fu il discusso senatore socialista Domenico e di cui fa parte anche Marcello, fratello minore di Gianni e ora governatore della Basilicata.

Le primarie furono stravinte da Matteo Renzi, ma per la famiglia allargata Berlinguer-Pittella la sconfitta fu provvidenziale. Nonostante il repulisti rottamatore di Renzi, Gianni Pittella, diventato nel frattempo un renziano convinto, ha potuto candidarsi per la quarta volta consecutiva con successo al Parlamento europeo mentre il fratello Marcello è diventato governatore della Basilicata. E per risolvere i mille guasti causati all’ambiente dall’estrazione del petrolio è andato a scovare proprio un professore toscano di diritto. L’amico senese Aldo Berlinguer.

Servizi informatici nell’Università: ignoranza, negligenza o malaffare?

Cineca-U-GovUniversità, terremoto sul consorzio degli errori. ‘Basta milioni senza gare a Cineca’ (da: il Fatto quotidiano, 30 maggio 2015)

Thomas Mackinson. Il Consiglio di Stato demolisce il gigante dell’informatica per la scuola, scivolato nei mesi scorsi sui test di medicina. Cineca prende soldi da 80 atenei, 40 milioni dal Miur. “Ma non è una società pubblica”. E per avere risorse dallo Stato deve fare le gare. E quello che sembrava solo una tegola rischia di diventare invece un terremoto per l’università italiana. A traballare è il “sistema Cineca”, il consorzio interuniversitario tornato alla ribalta delle cronache per la vicenda del flop dei test di medicina che a fine ottobre ha gettato nel panico 12mila candidati. L’incidente è finito presto nel dimenticatoio, archiviato come “mero errore tecnico” e sono rimasti al loro posto i vertici che avevano annunciato a caldo le dimissioni. Il Consiglio consortile, in sordina, le ha respinte un mese fa.

Ma la vera storia è un’altra. In un articolo successivo all’incidente, ilfattoquotidiano.it aveva ricostruito cosa c’era dietro la falla: come la fusione dei consorzi universitari per lo sviluppo di soluzioni informatiche in “Cineca” avesse dato vita a un gigante da 700 dipendenti in grado di monopolizzare e alterare il mercato grazie a fondi e finanziamenti attribuiti direttamente, senza gare. Per circa 100 milioni di euro l’anno, tra stanziamenti diretti e compensi per servizi. Una montagna di soldi pubblici che Miur e 80 atenei concedevano al consorzio sulla base di un presupposto che appariva molto incerto: che la sua natura giuridica fosse quella di una società “in house”, con attività esclusiva nell’ambito di pubblici servizi. Tale da qualificarlo per legge come “unico soggetto a livello nazionale”, ovviamente secondo l’interpretazione dei “consorziati” Cineca, ossia gli stessi che gli affidavano il denaro pubblico senza gara e gli stessi che dall’altra parte li ricevevano.

Allora avevamo messo in dubbio questa natura “speciale”, sostenendo invece che il mega consorzio non avesse nessuno dei requisiti di cui sopra e che facesse invece affari milionari qualificabili come attività d’impresa tradizionale, al punto che il 95% dei ricavi gli arrivava dalla produzione commerciale e solo il 5% dalla produzione “istituzionale”, cioè da progetti di ricerca e sviluppo affidati dal ministero. Così, sostenevamo allora, si sono aperte le falle nei servizi resi allo Stato, come nel caso clamoroso dei test di medicina. Non solo. Cineca, il ministero e le università italiane avevano alterato negli anni la concorrenza del settore, fino a compromettere un mercato di servizi che in Italia non è mai nato, appunto perché “oscurato” dal gigante pubblico.

Che di pubblico, in realtà, non ha proprio nulla. A certificarlo – in via definitiva – è una sentenza del Consiglio di Stato. I giudici di Palazzo Spada, sesta sezione, hanno fatto chiarezza sul punto, dopo i dubbi sollevati negli anni passati anche dall’Agcm (due volte, nel 2010 e poi nel 2013) e dalla Corte dei Conti. Erano chiamati a decidere sul ricorso presentato da Cineca stesso contro una sentenza del Tar Calabria che aveva accolto il ricorso proposto in primo grado da Be Smart srl, una società privata che opera nel campo delle soluzioni informatiche per l’università.

Il contenzioso riguardava un affidamento dei servizi informatici di segreterie studenti e didattica (U-GOV ed Esse3) che il Cda del 14 aprile 2014 dell’Università della Calabria aveva concesso un anno prima a Cineca, senza espletare alcuna gara, per un importo triennale pari a 1.592.843 euro +Iva. Il titolare della società, che aveva proposto una soluzione economicamente più vantaggiosa, si è ritenuto ingiustamente escluso e ha contestato l’assegnazione e l’insussistenza dei requisiti che l’hanno permessa: il fatto che Cineca sia titolare di un “diritto esclusivo”, che il rapporto tra università e consorzio si configuri come “in house”, e che il servizio affidato rientri nell’ambito della “attività prevalente” del consorzio.

Tocca dunque ai giudici definire una volta per tutte la natura giuridica del Consorzio. E il responso, stavolta, rischia di innescare un effetto a catena su tutti gli affidamenti concessi negli anni, legittimamente o meno, dalle università italiane. Stesso discorso per i contributi a fondo perduto, 40,7 milioni di euro nel solo anno 2014, erogati senza gara dal Miur a Cineca. Dietro questa disamina, apparentemente tecnica e in punta di diritto, ballano dunque centinaia di milioni di euro.

I giudici scartabellano tra codici, documenti e contratti e arrivano al verdetto: no, Cineca non è un soggetto pubblico. Non lo è mai stato. E dunque né lui né le università consorziate o il ministero possono far valere questa natura per “affidare in via diretta i servizi senza alcuna procedura competitiva”. Chi volesse addentrarsi sulle motivazioni non ha che da leggere integralmente la sentenza (clicca). Quello che qui conta è rilevare i possibili effetti della decisione, sui quali c’è grande incertezza. La sentenza infatti da una parte mette un punto fermo e agisce sui futuri affidamenti costringendo di fatto Stato, Miur e Università a fare le gare.

Ma pone anche una pregiudiziale rispetto a quella quarantina di milioni che il Ministero eroga ogni anno al Cineca sulla base di un presupposto di pubblicità del soggetto che è smentito ora per sentenza. Lascia tuttavia il campo aperto rispetto agli effetti delle decisione sugli affidamenti passati e in corso. Di certo salta quello a Cosenza, per la soddisfazione del titolare di Be Smart che esulta: “Giustizia è stata fatta: ci auguriamo che finalmente potremo partecipare alle gare pubbliche e concorrere con i nostri prodotti in un mercato libero”. Tutto il resto si vedrà, ma di sicuro l’incidente ai test di medicina non è era una tegola caduta accidentalmente. Era il presagio di un terremoto.

Aids: dal virus inventato al vaccino osannato

E la storia del virus dell’Aids continua con risvolti italiani del tutto peculiari, come ci racconta Duccio Facchini suil Fatto Quotidiano“.

IlFatto22luglio2014

Sette anni fa, per molto meno, fu sospeso il rettore Tosi. Che si aspetta a interdire Riccaboni?

Altan-criccaUniversità di Siena: la Lega torna a invocare il commissariamento

Francesco Giusti. La querelle tra il rettore Riccaboni e il Fatto Quotidiano, secondo il nostro modo di vedere, dà luogo a due riflessioni. La prima è che tutto ciò conferma quanto asserito ormai da anni dalla Lega Nord di Siena, che ha sempre tenuto sotto la lente d’ingrandimento le vicende universitarie senesi, dandosi da fare per tenere alta l’attenzione sull’enorme problema che la pessima gestione dell’Ateneo avrebbe (come, infatti, ha) causato all’intera Città. La seconda, più importante, riflessione è che da questo diverbio a distanza viene messa in evidenza l’assoluta mancanza di trasparenza e l’altrettanta assoluta arroganza gestionale dei vertici dell’Ateneo. Com’è possibile, ci chiediamo, che documenti così importanti, come i verbali dei Revisori dei Conti, vengano tenuti celati ai cittadini? A maggior ragione quando contengono osservazioni, critiche e prescrizioni (oltre che auspici) che – per legge – i Revisori comunicano a Rettore, Direttore Amministrativo e CdA dell’Ateneo, con l’intenzione, evidente, di ricondurre l’attività amministrativa e finanziaria entro i limiti della legge. Com’è possibile che documenti così importanti siano portati a conoscenza dei Cittadini da fonti non istituzionali come i blog?

Da questa vicenda emerge, a nostro parere, tutto il profondo distacco che gli attuali vertici dell’Ateneo hanno dalle istituzioni, per prima quella a capo della quale si trovano. Ciò non fa che rafforzare l’opinione della Lega Nord di Siena che i suddetti vertici debbano essere estromessi, tramite quel commissariamento che noi invochiamo dalla scoperta del buco, dalla gestione di una così prestigiosa e antica istituzione in modo che vengano attutiti, se non annullati i disastrosi effetti di una gestione così approssimativa, dilettantesca e ambigua.

Sullo stesso argomento: David Busato – Università di Siena a rischio commissariamento? Primapagina online (2 febbraio 2013).

Sulla vicenda Monte dei Paschi di Siena: chi parla e chi tace

Piccini-Mussari-Ascheri

Camilla Conti (intervista a Pierluigi Piccini) – “D’Alema voleva la fusione con Bnl, io no e mi cacciò” (il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2013).

Stefano Feltri (intervista a Raffaele Ascheri) – “Mussari, Siena era tutta in mano sua” (il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2013).

RedazioneMps, spunta la pista della maxi tangente per l’acquisizione di Antonveneta (il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2013).

Pierangelo Maurizio (intervista a Raffaele Ascheri) – «Accusai Mussari, venni isolato» (Libero, 29 gennaio 2013).

Nicola Cariglia (intervista a Vittorio Mazzoni della Stella) – MPS: prima andavano nel pollaio a mangiare le uova, ora le galline «Un regolamento di conti all’interno di una vicenda criminale» (Pensalibero.it, 28 gennaio 2013).

Si consiglia la lettura di un articolo dell’anno scorso:

Paolo Baroni – I magistrati sulle tracce di una cresta da 1,5 miliardi (La Stampa, 10 maggio 2012).

Ovviamente nessuno controlla quel che accade all’Università di Siena!

Emilio-Giannelli

Sergio RizzoMontepaschi: le colpe non viste (Corriere della Sera, 25 gennaio 2013).

Alessandro De AngelisMps, Silvio Berrlusconi non affonda sullo scandalo senese.  Da Milano 2 alle Olgettine, i conti del Cav sono targati Monte dei Paschi (Huffington Post, 24 gennaio 2013).

Mps, Grillo accusa il Pd: “Sono i veri responsabili. Hanno spolpato la banca” (Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2013).

Antonio Padellaro. Il voto e MPS (Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 23013).

In nome di un merito retorico e salvifico, invocato ma non declinato, finiremo per costruire una società di tutti uguali e di inevitabili perdenti che “non-se-lo-meritano”

La differenza tra merito e “me-lo-merito” (il Fatto Quotidiano 25 novembre 2012)

Antonio Nicita. Finalmente – e inevitabilmente – la questione del merito è diventata centrale nel dibattito politico-elettorale del nostro paese. Essa riguarda la selezione della classe dirigente, non solo nel pubblico, ma anche nel privato. Oggi, ne parlano tutti. Ma pochissimi riconoscono l’equivoco tra merito e “me-lo-merito”. Mi spiego. Spesso i sostenitori del merito non sono solo interessati a una società ‘aristocratica’, cioè dei migliori: essi sostengono il merito perché pensano di possederlo. Capovolgendo la famosa frase di Groucho Marx, una società che non riconosce il mio merito non può che esser sbagliata, se non corrotta.

Per questa ragione – oltre all’oggettiva schifezza che oggi ci circonda – le campagne sul merito attirano molti consensi: perché offrono a molti la speranza che ciò che essi ritengono di meritare sarà sempre riconosciuto in un’ipotetica “società dei migliori”. Ma è davvero così? O meglio: quanti di noi sono disposti ad accettare una ‘società dei migliori’ che ci escluda? Cosa accade quando qualcuno ha i requisiti minimi, ma ci viene preferito dal valutatore per qualche criterio che non comprendiamo o, peggio, non condividiamo (e spesso non condividiamo proprio perché ci danneggia)? Siamo disposti ad accettare il giudizio sul merito anche quando quel giudizio ci esclude? Oggi è del tutto assente dal discorso sul merito la circostanza che, nella sua declinazione concreta, il merito si ‘misura’ in termini relativi e comparativi, cioè all’interno di uno schema concorrenziale. Esser meritevoli (o pensare di esserlo) non basta a far parte della “società dei migliori”, dipende anche, e soprattutto, dal merito degli altri.

La concorrenza è un modo semplice per selezionare: vinca il migliore. Vero. Ma restano comunque due problemi. Il primo è che, in molti ambiti – nel lavoro e nell’istruzione – la valutazione è spesso soggettiva e comunque parziale (nel senso che tende a premiare di più ciò che è più facile da misurare). Si pone il problema di individuare criteri di valutazione del merito condivisibili e condivisi (anche quando si perde). Il secondo è che la concorrenza per il merito genera quella che Fred Hirsch (“I Limiti sociali allo sviluppo”, 1976, Bompiani) chiamava ‘la scarsità sociale’. Prendiamo l’istruzione. Se dobbiamo selezionare i migliori dobbiamo basarci sul titolo di studio e sul voto. Ma quando cresce l’offerta di lavoratori con lo stesso titolo di studio, la domanda dovrà selezionare sulla base di titoli aggiuntivi, generando inflazione da titoli. Un maggior grado di istruzione cresce in valore se decresce il numero di quelli che lo posseggono e diventa un ‘bene posizionale’. La corsa ai titoli di studio genera ‘scarsità sociale’: più sono i titoli mediamente posseduti da una popolazione di aspiranti candidati a un ruolo, minore è la chance di ottenere il ruolo cui si aspira. È qui che la questione del merito cessa di essere facile retorica e diventa un problema serio di meccanismo di selezione.

Se la corsa al merito genera scarsità sociale nell’istruzione possono crearsi tre effetti perversi: il primo è che solo chi ha mezzi personali idonei può accedere ‘in media’ a percorsi di successo e resistere alla gara per i titoli, permettendosi di rinviare l’ingresso nel lavoro a forza di sommare titoli e ciò alimenta diseguaglianza e l’equazione aristocrazia-plutocrazia; il secondo è che viene meno l’offerta di lavoratori per occupazioni con ‘conoscenza tacita’ non misurabile (specie nei servizi, nell’artigianato, nei beni culturali ecc.); il terzo è che la concorrenza per il merito genera standardizzazione dei percorsi formativi e dei curriculum, un esercito di uguali in concorrenza. Finiamo per far tutti la stessa gara, indipendentemente dai nostri talenti e dalle nostre inclinazioni, aumentando il numero di perdenti. L’insopportabile retorica del ‘devi-avere-un-master’ (quale? di che tipo? in quale disciplina? per far cosa?), rivolta a ogni giovane laureato italiano, è figlia di questi equivoci (e del nostro provincialismo atavico).

Beninteso: siamo tutti concordi nel volere una società basata sul merito, ma – oltre gli slogan – c’è il rischio che, in nome di un merito retorico e salvifico, invocato ma non declinato, finiremo per costruire una società di tutti uguali e di inevitabili perdenti che ‘non-se-lo-meritano’, smarrendo in noi, e nei nostri figli, la scoperta dell’originalità, della diversità, dei talenti e delle inclinazioni. La “società dei migliori” sarà certo meglio di quello che abbiamo oggi, ma dubito sia la migliore società. Quantomeno discutiamone nel merito, del merito.