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Basilicata, professoressa universitaria vince causa contro Eni: la multinazionale l’aveva querelata per diffamazione. (Da: Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2017)
La professoressa Albina Colella aveva svolto uno studio sulle acque affiorate vicino a qualche chilometro di distanza da un impianto gestito da Eni. E la multinazionale aveva chiesto oltre 5 milioni di euro di risarcimento danni. Il tribunale ha dato ragione alla docente, condannando il Cane a Sei Zampe per lite temeraria
Lei, professoressa universitaria di geologia, aveva fatto degli studi. E ne aveva parlato in televisione, anche durante trasmissioni trasmesse a livello nazionale. Le ipotesi scientifiche di Albina Colella, ordinaria all’università della Basilicata, riguardavano le acque sotterranee ricche di idrocarburi, gas, metalli e tensioattivi che 6 anni fa erano affiorate in Contrada la Rossa, a Montemurro, a poco più di 2 chilometri dal pozzo di reiniezione di scarti petroliferi di Costa Molina 1 in Val d’Agri. E le acque – sosteneva la professoressa – mostravano diverse affinità con i reflui di scarto petrolifero.
Così Eni, che gli impianti della Val d’Agri li gestisce, l’aveva querelata per diffamazione e danni morali e patrimoniali, chiedendo un risarcimento di poco più di 5 milioni euro. Ma lo scorso 19 luglio, la Prima Sezione Civile del tribunale di Roma ha rigettato integralmente la richiesta di risarcimento danni avanzata da Eni, dando ragione alla professoressa. Sancendo, di fatto, la legittimità dell’informazione scientifica.
Gli avvocati di Colella, Giovanna Bellizzi e Leonardo Pinto, hanno spiegato che la sentenza stabilisce il diritto all’informazione in materia ambientale e riconosce la valenza costituzionale della libertà di opinione: “Non vi è dubbio che la divulgazione dei risultati della ricerca costituisca legittima espressione del diritto di libertà di manifestazione del pensiero, sancito dall’art. 21 della Costituzione, e di libertà della Scienza garantita dall’art. 33 della Costituzione, senza limiti e condizioni”, si legge nel testo con cui il tribunale ha dato ragione alla professoressa. Non solo: perché vista la somma richiesta dalla multinazionale, sganciata da qualsiasi parametro che regola il risarcimento in materia, hanno spiegato i legali, Eni è stata anche condannata per lite temeraria.
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Il termine per la presentazione delle candidature alla carica di rettore dell’Università di Siena scade il 17 maggio e l’articolo 27 dello Statuto prevede che il Rettore sia eletto «tra i professori ordinari in servizio presso le Università italiane». Quindi, a dirigere l’ateneo senese potrebbe essere anche un docente di un’altra università italiana. Il gruppo di potere (guidato dal “grande vecchio” Luigi Berlinguer e da Piero Tosi), che in questa competizione elettorale schiera addirittura due candidati (i “Berlinguer boys” Francesco Frati e Felice Petraglia), non farebbe meglio a candidare a rettore Aldo Berlinguer? Vuoi mettere, per un candidato, l’importanza di chiamarsi Berlìnguer («con l’accento sulla prima “i” perché è così che parlano gli italiani di Siena», come dice Francesco Merlo)? Vuoi mettere l’affidabilità garantita dal figlio biologico rispetto a quella “assicurata” dall’affiliazione simbolica e “politica”? E “quanto è bravo Aldo Berlinguer“, come puntualmente lo descrive Giancarlo Marcotti! E poi, con Aldo rettore si realizzerebbe al massimo livello la dinastia accademica della famiglia Berlinguer: professore il padre e professore il figlio; rettore il padre e rettore il figlio. Infine, Aldo eviterebbe la grana ecologica, che da assessore all’ambiente della regione Basilicata sta affrontando in questo momento, dopo l’inchiesta sulle attività petrolifere e l’inquinamento delle campagne e dell’invaso del Pertusillo, che rifornisce d’acqua oltre che la Lucania anche la Puglia, con evidenti conseguenze sulla salute dei lucani e dei pugliesi.
Pubblicato anche da:
– Bastardo Senza Gloria (16 maggio 2016) con il titolo: «Un’idea di Giovanni Grasso per Aldo Berlinguer».
– il Cittadino online (16 maggio 2016) con il titolo: «Grasso: “Perché non candidare a rettore Aldo Berlinguer?”.
Basilicata, l’assessore all’ambiente è Aldo Berlinguer: giurista senese, ma pittelliano (Il Fatto Quotidiano, 7 aprile 2016)
Daniele Martini. (…) Dice Berlinguer: «Certo che ho un’interlocuzione con le società petrolifere ed energetiche che operano in Basilicata, il Dipartimento Ambiente ha competenza sugli impatti ambientali, compresi quelli degli impianti petroliferi. Da non molto ho ufficialmente diffidato l’Eni a proseguire con le sue fiammate che preoccupano tantissimo, e con ragione, la popolazione locale». A distanza gli risponde Albina Colella, professore ordinario di geologia all’Università della Basilicata e autrice con Massimo Civita del libro «L’impatto ambientale del petrolio in mare e in terra»: «Le fiammate impressionano, ma c’è molto, ma molto di peggio. Il punto è semplice: le tecniche di estrazione non sono tutte uguali, se si procede con la stessa attenzione usata in Norvegia, per esempio, l’impatto sull’ambiente è ridotto in limiti tollerabili. Se si pensa invece di fare come in Ghana tutto si complica. In Basilicata, regione delicata e fragile anche da un punto di vista sismico, finora si è proceduto con un rispetto assai basso per l’ambiente circostante. La Regione potrebbe fare molto, ma mi pare che l’assessorato all’Ambiente finora sia stato latitante. Sarebbe opportuno che l’assessore avesse competenze specifiche, ambientali più che legali, ma non mi risulta che il professor Berlinguer ce l’abbia».
Il fatto è che Aldo Berlinguer, professore ordinario di diritto privato comparato all’Università di Cagliari, in vita sua non si era mai occupato di questioni ambientali fino a quando alla fine del 2013 è stato catapultato nella giunta regionale della Basilicata dalla Toscana con una decisione che lasciò tutti di stucco. La storia è questa: ai tempi delle primarie Pd i Berlinguer del ramo senese, cioè Luigi, rettore dell’università toscana, già presidente della Commissione di garanzia del partito e ministro della scuola in governi di centrosinistra, e suo figlio Aldo fecero campagna per il lucano Gianni Pittella. I due, Aldo e Gianni, si conoscevano fin dai primi anni Duemila: Aldo era consulente giuridico a Bruxelles del Parlamento europeo e Gianni fresco di elezione da europarlamentare. Pure Gianni è rampollo di un’altra dinastia politica, quella lucana dei Pittella di cui capostipite nella Prima Repubblica fu il discusso senatore socialista Domenico e di cui fa parte anche Marcello, fratello minore di Gianni e ora governatore della Basilicata.
Le primarie furono stravinte da Matteo Renzi, ma per la famiglia allargata Berlinguer-Pittella la sconfitta fu provvidenziale. Nonostante il repulisti rottamatore di Renzi, Gianni Pittella, diventato nel frattempo un renziano convinto, ha potuto candidarsi per la quarta volta consecutiva con successo al Parlamento europeo mentre il fratello Marcello è diventato governatore della Basilicata. E per risolvere i mille guasti causati all’ambiente dall’estrazione del petrolio è andato a scovare proprio un professore toscano di diritto. L’amico senese Aldo Berlinguer.
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Dopo la durissima condanna di Albina Colella, si riportano il link a una sua intervista e, di seguito, l’articolo di Massimo Zucchetti.
Albina Colella: non è cosa (il manifesto 23 ottobre 2015)
LO SCIENZIATO BORDERLINE Massimo Zucchetti. “Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che può venire chiamata una piccola storia ignobile. Io so i nomi dei responsabili che hanno portato alla condanna, presso il Tribunale di Potenza, a una pena complessiva di nove anni di reclusione, e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, di una docente dell’Università della Basilicata, Albina Colella, accusata di concussione e peculato per fatti avvenuti tra il 1999 e il 2001, relativamente a un progetto di ricerca con fondi europei da lei coordinato. Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scienziato, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero. Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere.”
È venuto molto facile utilizzare una parte del testo di Pier Paolo Pasolini, “Io so”, apparso sul Corriere della Sera del 1974, per descrivere quanto sta accadendo in questa storia del 2015, che riguarda una collega con la quale ho avuto saltuari rapporti di lavoro e una reciproca stima. Albina Colella è una geologa, più o meno lo stesso mestiere che faceva mio padre; ed è professore ordinario di geologia presso il Dipartimento di Scienze dell’Università degli Studi della Basilicata. Da alcuni anni, Albina Colella svolge attività di ricerca e di denuncia sul preoccupante inquinamento dell’invaso del Pertusillo, in Val D’Agri, regione Basilicata, in una zona di massima concentrazione di pozzi petroliferi. Si noti come dall’invaso artificiale del Pertusillo venga tratta acqua potabile consumata dalla popolazione. Parlando di una scienziata e non soltanto di un’attivista, si riporta un esempio di un articolo scientifico su rivista internazionale nella quale l’autrice illustra le basi scientifiche della sua denuncia ambientale. Oltre al libro recentemente pubblicato, “Impatto Ambientale del Petrolio, in mare e in terra”, che si vede in figura in fondo all’articolo.
Per riassumere – dato che non di Lago del Pertusillo si parla qui, ma di nove anni di carcere inflitti ad una collega — le analisi effettuate nel corso delle attività di ricerca della prof. Colella mostrano come l’acqua di quell’invaso sia inquinata da idrocarburi, derivanti con ogni probabilità dall’attività estrattiva petrolifera. Albina Colella è pertanto una docente universitaria che è stata sempre in prima fila nel denunciare i gravi inquinamenti da idrocarburi derivanti dalle estrazioni petrolifere in Basilicata. Ha rifiutato, e di questo sono testimone, molti incarichi prestigiosi, e sono anche testimone di come si sia opposta a tutti i tentativi di mettere a tacere la vicenda, che è tuttora in divenire.
Mentre molti se la aspettavano fra i Consulenti Tecnici di una Procura, in un eventuale processo a carico della Compagnie Petrolifere, che facesse chiarezza su questioni che, riguardando un disastro ambientale potenziale, costituiscono un rischio per la salute degli abitanti di Basilicata e Puglia, la vediamo invece sul banco degli imputati per una vicenda risalente oramai ad un quindicennio fa. A dire il vero, non soltanto imputata, ma condannata – sebbene soltanto in primo grado – ad una pena di ben nove anni di carcere. Entriamo un poco nel merito, dato che non ci piace adombrare ingiustizie soltanto collegando eventi apparentemente non correlati. Albina Colella è colpevole, e merita nove anni di carcere? Il processo riguardava la malversazione di fondi europei destinati alla ricerca e l’uso improprio di un “gommone” di proprietà dell’Università, destinato alle escursioni scientifiche nel lago.
Il progetto di ricerca riguardava le risorse idriche in Val d’Agri, finanziato dalla Regione con fondi europei. Secondo l’accusa, la prof. Colella, per ultimare il progetto che era rimasto privo di fondi, avrebbe richiesto ad alcuni ricercatori di restituire parte dei loro compensi – si parla in tutto di una cifra equivalente a 50.000 euro, in realtà circa cento milioni di lire in totale, dato che i fatti risalgono a prima dell’avvento dell’euro – in maniera da riavere a disposizione fondi per il prosieguo del progetto. Che si è infatti concluso, poi, con soddisfacenti risultati, e senza insuccessi e restituzione di fondi all’Unione Europea, come invece capita spesso per progetti di quel genere.
Albina Colella non ha intascato un euro (anzi, una lira), ma ha – diciamo, sempre secondo l’accusa – commesso l’errore di chiedere indietro dei compensi già erogati, ai fini della chiusura di un progetto. Una procedura forse non piacevole per chi si è visto rivolgere una tale richiesta e che si poteva – tutto sommato – evitare. Ma sono cose che succedono, di restare senza fondi sul più bello e di avere bisogno ancora di un piccolo quid. Compiuta questa necessaria critica, sarebbe interessante approfondire in base a quali deduzioni – nelle motivazioni della sentenza – un tale atto meriti la reclusione per cinque anni. Anni cinque, ripeto, non vi sono errori di sorta, non si parla di mesi. Cinque anni.
La questione del gommone sarebbe quasi il caso di neppure menzionarla, tanto appare di trascurabile importanza. Ma dobbiamo invece parlarne, perché l’accusa ha ipotizzato che venisse usato dalla professoressa per motivi personali e non legati alla ricerca, contestando anche il fatto che la manutenzione del natante avveniva in Puglia (secondo la Colella a Potenza non vi erano officine specializzate in questo settore). Questo vale, sempre nella sentenza di primo grado, quattro anni di reclusione. Anni quattro, ripetiamo anche qui, non vi sono neppure stavolta errori di sorta, non si parla di mesi. Quattro anni.
Notiamo appena che il pm, in aula, aveva chiesto otto anni di reclusione, che il giudice ha dunque aumentato a nove (cinque anni per la concussione e quattro per il peculato). Notiamo che l’avvocato della docente ha dichiarato che “la sentenza non risponde all’esito dell’istruttoria dibattimentale” e che “l’impugnazione in appello sarà su elementi oggettivi che escludono la sussistenza dei reati contestati”. Notiamo appena che gli avvocati della geologa hanno chiesto la ricusazione del giudice che ha emesso la sentenza per manifesta inosservanza della procedura processuale. Non ci permettiamo di criticare una sentenza della Giustizia Italiana, ovviamente. Poniamo soltanto dei dati di fatto e delle domande che emergono da questi dati di fatto.
I dati di fatto sono questi. La supposta colpevolezza della prof. Colella appare imputabile per lo più ad un comportamento improprio – se vi è stato – atto a raddrizzare e ben concludere le sorti di un progetto di ricerca europeo. Se vi è colpevolezza, la pena appare assai severa, per utilizzare un eufemismo. La prof. Colella si è, in questi anni, resa assai scomoda per le sue denuncie riguardanti l’inquinamento in acque potabili della Basilicata dovuto alla presenza di attività di estrazione di idrocarburi da parte di compagnie petrolifere. Sebbene lo scrivente – così come molti altri finora – esprimano la propria solidarietà ad Albina Colella, e sebbene si tratti soltanto di una sentenza di primo grado, appare probabile che l’attività suddetta di denuncia e di lotta da parte di Albina Colella possa subire una battuta d’arresto, o perlomeno che ne venga danneggiata, influendo questa sentenza, ad occhi superficiali, sulla sua credibilità.
Questi sono i dati di fatto. Le domande, le lascio emergere da chi — leggendo questo spunto — approfondirà questa storia. Io, essendo uno scienziato ed un attivista, ho trovato subito le risposte alle mie domande. Le stesse risposte di Pier Paolo Pasolini, si parva licet. L’auspicio, amaro perché ci appare quasi superfluo, è ovviamente che Albina Colella possa uscire da questa vicenda, negli ulteriori gradi di giudizio, scagionata dalle accuse o comunque non condannata ad una pena che — sinceramente — atterrisce e costerna. Nel frattempo, anche se so che non ascolterà questo suggerimento, le consiglierei di occuparsi di geologia lunare, o marziana, o – meglio – di Plutone. E lasciar stare il Pertusillo: Albina, amica mia: non è cosa.
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