Il governo gialloverde sull’Università

Più controlli sui professori universitari? Attenzione all’autonomia (da: Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018)

Dario Braga. Nel capitolo «Università e ricerca» del contratto di governo sottoscritto da Lega e M5S si legge: «Occorre inserire un sistema di verifica vincolante sullo svolgimento effettivo, da parte del docente, dei compiti di didattica, ricerca e tutoraggio agli studenti». Ragioniamoci sopra un momento. Leggendo questo punto, un “non addetto ai lavori” è automaticamente portato a pensare che all’università non esistano regole e che ognuno faccia o non faccia senza controlli di sorta. Da qui la necessità di introdurre nell’accordo come elemento qualificante anche la «verifica vincolante» dei compiti dei docenti. Cosa hanno in mente gli estensori? Che conoscenza hanno dei sistemi di verifica attualmente in atto? Parliamone.

Sul lato della didattica, il docente è tenuto a indicare luogo, data, ora e argomento di ogni lezione in un registro ufficiale che, a fine corso, è firmato dal titolare del corso e consegnato alla Scuola di appartenenza. Il registro è quindi controfirmato dal presidente della Scuola che, in questo modo, ne certifica la correttezza. Per ogni singolo corso viene anche raccolta annualmente l’opinione degli studenti su svolgimento, contenuti, capacità espositiva del docente e viene chiesto di dichiarare quanta parte del corso è stata svolta dal docente titolare. Il coordinatore del corso di studio ha accesso a queste valutazioni ed è tenuto a intervenire direttamente con il docente nei casi critici.

Sul lato della ricerca, da diversi anni l’Agenzia di valutazione della università e ricerca (Anvur) richiede periodicamente ai singoli e ai Dipartimenti la esposizione puntuale della attività svolta. Gli atenei poi raccolgono annualmente le informazioni sulla produzione scientifica dei docenti e le utilizzano nella distribuzione delle risorse per la ricerca e dei posti. Nel dottorato di ricerca, poi, la verifica della qualità scientifica dei collegi dei docenti è requisito per ottenere da Anvur l’accreditamento annuale necessario per continuare a operare.

Le università sembrano quindi avere tutti gli strumenti che servono per la «verifica vincolante» e sono anzi tenute a utilizzarli sia per l’autogoverno sia per accedere a quote del fondo di finanziamento ordinario. Semmai questi strumenti andrebbero semplificati, ma questa è altra storia. Se una critica abbonda nei “social” è proprio verso l’accanimento parametrico e la «ossessiva raccolta di informazioni» sulle attività di docenza e di ricerca del singolo e degli atenei.

Ma allora di che stiamo parlando? Non vorrei essere accusato di processo alle intenzioni. Ma c’è da preoccuparsi. E se a non piacere fosse invece il principio di autonomia, base del funzionamento di tutti i sistemi universitari? Spero di sbagliarmi.

Chi non conosce il lavoro universitario potrebbe, ad esempio, pensare che sia ora di finirla con questi ricercatori e professori che vanno e vengono a piacimento, frequentano convegni e workshop, visitano altre università, non “timbrano”, e, tranne che a lezione, non sembrano avere un vero e proprio orario di lavoro. In realtà è così non solo perché “studio e creatività non hanno orario”, ma anche perché spesso le giornate di lavoro vengono assorbite dai compiti amministrativi e dall’interazione con gli studenti. Ci si porta sempre il lavoro a casa: lezioni da preparare e/o compiti d’esame da correggere, pubblicazioni da leggere, progetti da scrivere, “talk” da preparare. Alla sera o durante il weekend. Ore e ore di lavoro per le quali è difficile pensare a una «verifica vincolante».

Ci sono docenti poco seri e/o disonesti che approfittano di questa autonomia? Certo che ci sono, come in ogni professione. Per queste situazioni esiste la gerarchia delle responsabilità di chi governa dipartimenti, scuole, e atenei. Si operi su questa, gli strumenti ci sono già tutti. L’università italiana produce, nonostante tutto, ottimi laureati e tanta ricerca. Di tutto ha bisogno tranne che di (ulteriore) delegittimazione.

Nell’università c’era più libertà quando c’era meno autonomia

Altan-futurodimerdaRabbi Jaqov Jizchaq. «Fra il 2007 e il 2015 il numero dei docenti ordinari delle università italiane è sceso da poco meno di 20.000 a poco più di 13.000. Dove vogliamo fermarci?»

Come eravamo: «Nel 2010 il personale impegnato in attività di ricerca nell’Università degli Studi di Siena ammonta a 1743 unità. I ricercatori universitari sono 947» (Rapporto ricerca 2010). Adesso i ricercatori di ruolo (ad esaurimento) sono 350, un quinto circa dei quali diventeranno associati od ordinari con gli imminenti avanzamenti; il personale docente di ruolo (ricercatori ad esaurimento+associati+ordinari) complessivamente ammonta ancora a 750 unità (giacché gli avanzamenti non sono chiamate di esterni) e si accinge ad essere ridotto di altre 150 unità circa, un po’ a pene di segugio, cioè a dire con la roulette russa dei pensionamenti.

Secondo l’ANVUR nel 2013, l’età media a livello generale era 59 anni per gli ordinari, 53 per gli associati e 46 per i ricercatori; un quotidiano nazionale che citai tempo addietro riportava i dati senesi, che risultavano sensibilmente più alti di 4-6 anni a seconda delle categorie. Ecco, io capisco e apprezzo gli sforzi diretti al risanamento, ma perché da parte dei media prendere per le natiche l’opinione pubblica millantando una realtà che non c’è o che non c’è più? Insomma, io trovo strano che non si riesca in nessun luogo pubblico e sui media a impostare una discussione in termini seri, sobri e realistici, abbandonando per un attimo la consueta oratoria encomiastica, lo stile apologetico, la voce nasale di annunciatore dell’EIAR che canta i recenti trionfi (e cela le recenti sconfitte).

Il Rettore annuncia: «La conferma del miglioramento dei conti consente ora di proseguire su questo percorso, aprendo nel prossimo futuro le procedure per altre 30 posizioni». Evviva, Siena triumphans: ma si tratta di 30 avanzamenti di carriera (da tempo agognati, certo, e benvenuti, ma mi conferma il prof. Grasso che non si tratta di nuovi assunti) e le considerazioni che mi viene da fare sono sempre quelle: avanza chi ha ancora le gambe; chi nell’attesa di avanzare viene azzoppato, non avanza e ai caduti recenti si aggiungeranno a breve altre vittime; nel senso che settori e corsi di studio che nel frattempo sono entrati in crisi per via dei massicci pensionamenti, non “avanzeranno” da punte parti: 500 professori usciti di ruolo vuol dire uno su due a casaccio, sin qui senza turn over.

Un anno prima dello scoppio del “buho” vi erano settori che contavano oltre venti docenti di ruolo, e mi pare che ciò non fosse giustificabile alla luce del fabbisogno di didattica; all’estremo opposto altri settori contavano uno o due docenti: si capirà che da un lato quando il maledetto uomo della strada ripete che “eh, so’ troppi”, interpretando a suo modo la dottrina del “taglio lineare”, bellamente ignorando gli squilibri mostruosi entro il personale docente e tra personale docente e personale tecnico amministrativo, non fa allora un discorso equo, e dall’altro che togliendo due docenti a settore, ai primi non fai un baffo, mentre i secondi li condanni a morte. Poi ci sono le situazioni intermedie: quelle in cui il fabbisogno di didattica oramai è insostenibile e i requisiti di docenza non sono più soddisfacibili con le poche forze rimaste.

A meno che, la regola non sia “chi ha avuto, ha avuto”, questi dati imporrebbero qualche riflessione un po’ meno disinvolta sull’andamento delle cose. Ma, oramai temo che siano cavoli del rettore prossimo venturo, e che giunto a scadenza, l’attuale se ne lavi volentieri le mani (“il settimo si riposò”). Il mantra che Siena deve diventare una specie di “Life Valley” (“Siena Biotech, licenziati alla vigilia del primo maggio”, La Nazione; come esordio non c’è male: una valley di lacrime) non chiarisce qual è la sorte riservata a tutto il resto e alla gente che ci lavora, né come debba leggersi tutto ciò alla luce dell’idea più volte ventilata di trasformazione del sistema degli atenei riducendo molti di essi a “teaching universities” e conservando solo “pochi hub” della ricerca: qui, almeno per una decina di anni, il tempo cioè di fare piazza pulita della cultura e della ricerca di base in altre, non meno vitalistiche “valli”, avremo dunque una situazione schizofrenica, con la researching university in alcuni comparti e la teaching university in altri, ridotti a simulacro?

Ricerca nelle “scienze della vita” o poco più, e pura didattica di basso profilo altrove, in corsi rimaneggiati con quel poco che resta e accorpati, privi di logica interna, di specializzazioni e dottorati (e dunque di attrattiva)? Ha senso tutto ciò? E scusate, perché della gente titolata dovrebbe accettare la prospettiva di regredire al rango di garzone, rinunciare alla carriera, se è giovane, per assecondare questo disegno e perché i colleghi sono andati in pensione? Perché uno studente dovrebbe esserne attratto? Sarebbe sensato, come logico corollario di un progetto di smantellamento di mezzo ateneo, che si “organizzasse l’esodo”, tipo operazione Mosè coi Falascià, ovvero si consentisse (o si intimasse!) a costoro di andarsene in altra sede a svolgere il lavoro per il quale sono pagati, giacché sono dipendenti dell’università statale italiana, e non di qualche nobil contrada senese. Si dirà che si tratta di una boutade, ma la tua soluzione qual è, hypocrite lecteur?

Cosa vorrà dire soddisfare le richieste dell’ANVUR e della SUA in ordine alla produzione scientifica in contesti ove di fatto sarà vieppiù difficoltoso adoperarsi per la buona ricerca? E questo, by the way, in un sistema dove la quasi totalità della «quota premiale» del Fondo di Finanziamento Ordinario viene assegnata alla produzione scientifica e la didattica viene quasi punita come inutile passatempo (ammesso e assolutamente non concesso che “fare ricerca” coincida con il soddisfare le richieste della SUA e dell’ANVUR).

Dice il governo: «più poteri ai rettori… bisogna ridare autonomia vera agli atenei, imporre meno regole dal centro»; ma potere di far che? Serve ben più, temo, che la briglia sciolta ai rettori persino sulla retribuzione dei docenti o la “contrattualizzazione” (jobs act) di tutti i ruoli; anche perché mi pare che i piccoli atenei già siano sin troppo nelle mani del notabilato locale che fa il bello ed il cattivo tempo: in primo luogo devono dirci cosa intendono farne dell’attuale configurazione degli atenei pubblici e del sistema della ricerca e della didattica universitaria.

Personalmente sarei incline, piuttosto, a richiedere un maggiore centralismo e protagonismo da parte del ministero, che non può tirare il sasso in piccionaia e poi nascondere la mano, essendo convinto che c’era più libertà quando c’era meno “autonomia” e ravvisando nella trasformazione degli atenei in monadi senza finestre, non solo una delle cause dei mali che li affliggono, ma anche dell’impossibilità di addivenire per i problemi di cui stiamo parlando a soluzioni del tipo di quelle prospettate nei precedenti messaggi.

Sarei felicissimo se qualcuno mi convincesse che quanto ho scritto è privo di fondamento.

«Le dichiarazioni di Luigi Berlinguer mostrano che l’autonomia universitaria è intesa dai suoi stessi architetti come viatico all’impunità»

Un suicidio assistito(Editoriale del Corriere del Veneto, 26 novembre 2010)

Lorenzo Tomasin. Una formula che si presta, forse, a sintetizzare in due parole ciò che sta accadendo nell’università italiana negli ultimi tempi è: suicidio assistito. Le basi per la imminente e totale perdita di autorevolezza, di centralità nella vita civile, di capacità di formare la classe dirigente, di selezionare la miglior parte degli operai dell’intelligenza: le basi, insomma, per il declino del sistema universitario sono state poste con vigore e determinazione da chi l’università ha gestito e politicamente condotto negli ultimi venti o trent’anni. È quasi imbarazzante ripetere – ma occorre farlo, visto che la questione viene troppo spesso obliterata – che uno snodo cruciale nella decadenza dell’università italiana rappresentò, una dozzina d’anni fa, l’adozione pressoché simultanea, e largamente condivisa dai docenti, di nuove norme sulla didattica (l’ordinamento «tre più due», sancito da un ministro-professore, Luigi Berlinguer) e sull’organizzazione interna (autonomia universitaria: ogni ateneo gestisce liberamente le risorse a sua disposizione, senza rispondere, o rispondendo solo debolmente, al mercato, perché di ente pubblico si tratta).

Una simile rivoluzione – che apriva nell’immediato la possibilità di una proliferazione di posti, di sedi, di opportunità: insomma, di italiche abbuffate – non poteva restare, nel medio o nel lungo termine, priva di conseguenze negative. Su questo punto, l’autocritica della corporazione universitaria nel suo complesso è stata sempre come minimo sommessa, o coperta da una preoccupante omertà. Le dichiarazioni rese qualche giorno fa dallo stesso Berlinguer in veste di ex-rettore dell’Università di Siena mostrano chiaramente come il concetto di autonomia universitaria venisse inteso dai suoi stessi architetti come viatico all’impunità. Non si può pretendere di diventare istituto di formazione di massa, e al tempo stesso continuare a reclamare i privilegi, l’attenzione e la considerazione di cui si godeva quando si era fucina di élites. Né si può pretendere il diritto all’autonomia quando si dà prova di gestirla con sistematica irresponsabilità e in assenza di politiche lungimiranti. Questo è accaduto: e la contraddizione non si è manifestata finché gli aspiranti suicidi non hanno trovato, per loro sventura, un medico fin troppo indulgente alle pratiche eutanasiche. Staccare la spina, come sta facendo l’attuale governo, ai finanziamenti all’università pubblica significa solo accelerare un processo i cui esiti sarebbero stati, alla lunga, gli stessi, se la storia politica e quella economica avessero regalato all’università italiana la possibilità di un ancor più lungo stato di coma.

Possibile che per una corretta gestione delle università debba sempre intervenire la magistratura?

patane_2.jpgUn articolo sempre attuale (da Ateneo palermitano novembre/dicembre 2008) per capire a che livello di degenerazione sono arrivate le università.

Terremoto in tre università siciliane: i dirigenti si premiavano da soli. Rilievi dalla Corte dei Conti

Francesca Patanè. Maurizio Graffeo è il magistrato della Corte dei Conti di Palermo che sta facendo tremare tre dei quattro Atenei siciliani. Per la precisione, i vertici amministrativi dei tre Atenei di Catania, Messina e Palermo. Che in barba a bilanci e atti amministrativi si sarebbero premiati per ritagliarsi un bel gruzzoletto con la scusa della produttività.
Il periodo preso in esame dal magistrato contabile riguarda il biennio 2003-2005, ma in più punti dell’ordinanza è precisato che i rilievi avanzati per quel periodo sono ancora attuali. 

Le reazioni intanto non si sono fatte attendere. Rettori, direttori amministrativi e dirigenti vari negano di avere firmato relazioni autoreferenziali e giurano che è tutto in regola, ma l’inesorabile Corte dei Conti di via Notarbartolo – presidente della sezione di controllo Maurizio Meloni – ha giudicato i criteri di valutazione tutt’altro che trasparenti e ha fissato in sei mesi il termine massimo perché ciascun rettore si adegui alle obiezioni avanzate dal magistrato oppure motivi la scelta di non farlo.

Ma entriamo nel merito di ciascun Ateneo.
Quello di Catania è l’Ateneo più bacchettato: oltre che autoreferenziali, le relazioni dei suoi dirigenti sono apparse incomplete e gli obiettivi generici e “ben lontani dal possedere le necessarie caratteristiche di chiarezza, misurabilità e coerenza”. Eppure – hanno osservato dalla Magistratura contabile – proprio gli obiettivi per quel biennio erano stati dati per raggiunti al cento per cento (con conseguente corresponsione dei premi nella misura massima possibile). 

A Messina la situazione è analoga, con un sistema giudicato poco trasparente dalla Corte dei Conti, pur avendo l’Ateneo adottato recentemente un regolamento proprio sui criteri di valutazione: una sorta di vademecum di cui però a quanto pare non se n’è fatto uso non avendo l’Università fornito alcuna documentazione sulla sua effettiva utilizzazione.

 Anche la documentazione trasmessa dall’Università di Palermo si è rivelata insufficiente e non consona a quanto attestato. Anche qui tutto il materiale documentale trasmesso si basa sulle relazioni compilate dagli stessi dirigenti interessati che, quanto ai premi in denaro, hanno sempre ricevuto la massima erogazione possibile.

Per la Corte dei Conti, insomma, occorrerebbe prevedere una gradualità dei premi “in relazione agli effettivi esiti della valutazione”. E per fare questo bisognerebbe prima stabilire gli obiettivi da raggiungere “in termini di misurabilità”.

Riuscirà la Gelmini a chiudere le lauree a gogò e le università di quartiere?

L’immotivata proliferazione dei corsi di laurea e di sedi universitarie decentrate – con conseguenti assunzioni di docenti e amministrativi – ha dato il colpo di grazia ai conti di molti atenei. Di seguito sono riportati brani di un vecchio articolo di Umberto Eco (L’Espresso 2 febbraio 1992) nel quale sono elencate le obiezioni di Cesare Segre alla diffusione delle università sul territorio.

Benvenuti all’Università di Coccolato

Umberto Eco. (…) un articolo di Cesare Segre sul “Corriere della Sera”, ha acceso un dibattito sul bacillus universitatis e cioè sulla tendenza, che pare accentuarsi nel nostro paese, ad attivare nuovi centri universitari in città di provincia. Le ragioni possono essere sia di malintenzionato clientelismo, sia di benintenzionato proposito di ovviare al sovraffollamento dei grandi centri.
Le obiezioni al bacillus – e le ragioni per cui di bacillo letale potrebbe davvero trattarsi – sono state elencate da Segre. Il piccolo centro non può avere le tradizioni delle grandi università storiche, avrà fatalmente per decenni biblioteche e laboratori inadeguati, i docenti vi andranno di malavoglia, con pendolarismo smandrappato, e cercheranno al più presto di tornare alle metropoli. Questi centri verranno a soddisfare la pigrizia (spesso dettata anche da motivi economici) di studenti di provincia che non vogliono allontanarsi da casa, e che quindi perderanno la grande occasione che l’esperienza universitaria offre allo studente sin dal Medioevo, e cioè di conoscere qualcosa oltre la cerchia delle proprie mura e di venire a contatto con ambienti pervasi da flussi internazionali. Meglio sarebbe dunque potenziare i grandi centri con strutture di accoglienza per gli studenti e ridurre il sovraffollamento eliminando il valore legale di una laurea che spesso si prende di malavoglia solo per vincere un concorso nella pubblica amministrazione (dove basterebbero buoni e solidi diplomi). E sono, naturalmente, parole sante.
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Anche Mario Pirani danneggia l’immagine dell’Università italiana?

Si riporta una parte dell’articolo di Mario Pirani sull’università pubblicato su “la Repubblica” di oggi.

Quanto costa al Paese l´università di Parentopoli

Mario Pirani. “Basta con i tagli!”, intimano gli striscioni e gli slogan scanditi dai cortei universitari. Ma se avessero contezza, in primo luogo del fiume di soldi dirottati a favore di una casta accademica pletorica e clientelare, che le oasi di eccellenza non bastano a controbilanciare, gli studenti dovrebbero rivendicare più tagli e non meno. 
 E dovrebbero, come diceva Mao Zedong, «bombardare il Comitato centrale», non stringersi, in definitiva, in sua difesa. Certo, molti studenti sono angosciati dalla nebulosità di un futuro neanche minimamente prevedibile, dalle deplorevoli condizioni del percorso scolastico, dalla disorganizzazione dei corsi e degli esami e quant´altro la vita universitaria offre o, meglio, nega. Gli studenti prevedono che i tagli annunciati dalla Finanziaria aggraveranno maggiormente questo stato di cose ma, per contro, non sembrano percepire l´origine prima della scarsezza dei fondi. E, cioè, lo sconsiderato spreco di risorse ingoiate dalla greppia accademica, clientelare e familistica, che avrebbe dovuto essere spazzata via da tempo a furor di popolo.
 Come altro giudicare i casi raccontati in queste settimane da tutti i quotidiani sulla parentopoli infiltrata nelle più diverse facoltà universitarie in quasi tutte le Regioni d´Italia, con una tendenza più grave e generalizzata nel Mezzogiorno? Emerge un organigramma che denota una degenerazione ormai sistemica.

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Tra università di quartiere, lauree fantasiose e materie stravaganti al nuovo ministro non resterà che commissariare gli atenei e/o abolire l’autonomia universitaria

MiurSulla Repubblica di oggi, Davide Carlucci pubblica un’inchiesta dal titolo: Università, tra “Scienze equine” e “Fitness” ecco l’Italia delle lauree pazze. Sul Messaggero del 18 ottobre 2007, Anna Maria Sersale pubblicò un articolo dal titolo: Università, 171 mila materie per moltiplicare le cattedre. Di seguito riporto quanto dichiarai alla giornalista sull’argomento.

«Purtroppo l’esplosione di insegnamenti non mi meraviglia – sostiene Giovanni Grasso, ordinario di anatomia umana –. Ciò si accompagna ad una proliferazione ingiustificata e spesso fantasiosa dei corsi di laurea. La richiesta del mercato di avere figure professionali diversificate ma qualificate è stata completamente disattesa dagli atenei, che hanno sfruttato l’occasione per aumentare in modo sconsiderato il proprio potere attraverso la crescita incontrollata di discipline e corsi e attraverso il reclutamento di nuovi docenti. Questa proliferazione ha portato anche all’impoverimento, frammentazione e diluizione del corpo di discipline fondamentali di un corso di laurea. È impensabile che discipline essenziali di antica tradizione vengano penalizzate in favore di materie di scarsa valenza e di modesto interesse. Eppure succede. Le anomalie sono tante. Faccio l’esempio di quello che succede a Siena, dove c’è un corso di nuova istituzione in “Biotecnologie per la salute umana” in cui si insegnano la fisiologia e la patologia della riproduzione umana. Peccato che manchi l’Anatomia come insegnamento di base e propedeutico alle altre! Tutto ciò si collega all’uso improprio, distorto e inquietante dell’autonomia universitaria».

Il prefetto di Padova: atenei tra privilegi e sperperi è urgente una Mani Pulite accademica

Riportiamo l’intervista del giornalista Filippo Tosatto (il Mattino di Padova, 24/1/08) a Paolo Padoin (Rinnovare le Istituzioni), Prefetto di Padova.

Maledetti toscani, scriveva Malaparte. Restii alla museruola come sono, finiscono puntualmente per suscitare un vespaio. E Paolo Padoin, il prefetto fiorentino di Padova, non fa eccezione. E dal suo cliccatissimo sito (rinnovare le istituzioni) esplode una bordata diretta all’università, al sistema degli atenei dove l’intreccio tra baronie, concorsi chiacchierati e sperperi diventa scandalo nazionale.
«La tutela della legalità» commenta Paolo Padoin «investe ogni ambito della vita civile e nel mondo dell’università le numerose inchieste avviate dalla magistratura, da Trieste a Firenze da Bologna a Bari, solo per citarne alcune, segnalano situazioni allarmanti e talvolta gravi. È inquietante che, alla vigilia di un concorso, tutti siano in grado di anticipare il nome del vincitore della cattedra. Capacità, curricula, pubblicazioni scientifiche: certo, tutto questo influisce nella valutazione ed è di dominio pubblico. Ma quando, a parità di titoli, il prescelto è amico o parente di un docente di “peso”, e limitiamoci a questa tipologia di rapporti per carità di patria, allora il sospetto diventa legittimo».
Sospetti pesanti, a volte.
«Si, certi esposti, inviati all’autorità giudiziaria da candidati esclusi, delineano scenari dove la legalità è tranquillamente presa a calci: concorrenti eliminati “scientificamente” per agevolare il designato, o addirittura aspiranti docenti “persuasi” a desistere, magari con la promessa di risarcimento in occasione del concorso successivo».
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Autonomia universitaria fasulla e demagogica: stiamo correndo verso il disastro

Riportiamo l’intervista a Lucia Lazzerini (Ateneopulito) del giornalista Filippo Tosatto sul Mattino di Padova (24/1/08).

Lucia Lazzerini, professore ordinario di Filologia romanza all’università di Firenze, è l’animatrice del movimento Ateneo pulito che dall’omonimo sito bacchetta i vizi degli atenei italiani. Chi gliel’ha fatto fare, verrebbe da chiedere alla docente, moglie del prefetto di Padova Paolo Padoin… «Ho cominciato per una questione di decenza, è stata una reazione al degrado ambientale del mio dipartimento, poi il raggio d’azione si è ampliato. Mi sono guadagnata molte critiche e parecchie inimicizie ma ho ricevuto anche il sostegno affettuoso di tanti colleghi che si sono rivelati informatori preziosi del sito, fornendo notizie, curiosità, vignette; alcuni sono usciti allo scoperto, altri meno. Anche gli studenti hanno apprezzato. Insomma, non mi sento isolata». Lei è molto critica verso l’università italiana… «Qualche notte fa, in tv, un noto critico d’arte ha testualmente definito l’università italiana “un letamaio”. Io dico che è allo sfascio, che versa in una situazione disastrosa e che non so più cosa ci stiamo a fare qui. Siamo ai saldi di fine stagione: titoli screditati, gara a chi sforna più lauree a buon mercato, lezioni in pillole, studenti in condizioni di semi-analfabetismo. Sono pessimista, si». Quando è iniziato il declino? «Nel Sessantotto, direi, con la sua ventata di demagogia. Ma il vero degrado è coinciso con quest’autonomia fasulla che vorrebbe scimmiottare gli atenei americani ma nei fatti ne capovolge i criteri. Negli Stati Uniti non esiste il valore legale del titolo di studio: contano il merito effettivo e il prestigio degli studi compiuti. Le università competono per migliorarsi perché vivono grazie alle tasse, salate, degli studenti: se non sono in grado di fornire una preparazione adeguata, i giovani vanno altrove e per loro sono guai. Inoltre, i figli dei ricchi, con le loro rette, finanziano le borse di studio dei poveri super-intelligenti. Autonomia nella responsabilità: così, il sistema funziona. In Italia avviene il contrario. Il valore legale del titolo di studio scatena una corsa al ribasso, la competenza è ignorata, vince chi offre una laurea a condizioni più facili. Un effetto devastante che si ripercuote anche sul reclutamento del personale universitario, leggi malaffare dei concorsi. Credo sarà molto difficile risollevarsi da questo scempio. Qualcosa del genere accade anche in altri Paesi europei, ma non è una consolazione».

Questa autonomia universitaria terreno fertile per la mafiosità italiana

MAFIOSITA’ ITALIANA
Francesco Pullia. Fa bene Ichino ad auspicare una reazione alla corruzione dilagante. Strano, però, che non si accorga che se ciò non accade è perché la mafiosità, connaturata all’italianità, è ormai elevata a sistema dominante nei settori più disparati della vita pubblica.
Non siamo più ai tempi di tangentopoli. Peggio. Dopo l’ondata emotiva che ha favorito l’emanazione per la pubblica amministrazione di provvedimenti di facciata ispirati a presunti criteri di trasparenza tutto è tornato come prima, se non addirittura peggiorato. E così favoritismi, ricatti, piaggerie politiche sono nuovamente in auge. Non che, all’indomani di tangentopoli, fossero improvvisamente finiti. No. Saremmo ingenui a supporlo. Solo che mentre per un periodo c’è stata meno spudoratezza, oggi dominano spavalderia e arroganza. L’episodio denunciato ieri da Ichino sul “Corriere della Sera” di un dirigente prosternato a mo’ di zerbino nei confronti di una consigliera regionale ovviamente di maggioranza, non è paradossale ma, purtroppo, disgustosamente reale.
Casi di piaggeria e servilismo si contano quotidianamente a bizzeffe negli enti locali e vanno dall’erogazione dei contributi all’affidamento di consulenze, dalla concessione di straordinari fino alle gare d’appalto. Chi, per coscienza, non si adegua a certi comportamenti e tanto meno intende prostrarsi all’invadenza della partitocrazia è soggetto ad isolamento e mobbing e, comunque, non potrà nutrire alcuna speranza di carriera. I sindacati, che giocano sempre a darsi una patina di verginità e innocenza, sanno benissimo come funzionano le cose ma fingono di ignorarle per convenienza, opportunità e, diciamolo pure, collusione.
È semplicemente ridicolo ridurre la questione, grave, gravissima, della pubblica amministrazione ad una faccenda contrattuale o di mero aumento salariale. Vergognoso. Nessuna amministrazione è esente dal cancro. (…) È chiaro che nel momento in cui la politica diventa uno dei modi più facili per ottenere posti e acquisire privilegi tutto è consentito e l’illiceità è norma e prassi. (…)