Le classifiche farlocche nel ridisegno golpista dell’Università italiana

Altan-estero

Siena al 24° posto e Pisa al 34°

Rabbi Jaqov Jizchaq. Eccole! Arrivano le pagelline di Babbo Natale dell’ANVUR: «La classifica dell’Agenzia di valutazione degli atenei vigilata dal ministero di Istruzione. Scuole superiori in testa. L’università con il livello di ricerca più elevato resta la Scuola di alti studi di Lucca (Imt) che, tuttavia, ha perso metà del punteggio del 2010 (il 46 per cento), a dimostrazione che nella nuova valutazione le diversità tra gli atenei si sono sensibilmente assottigliate. Seconde e terze nel ranking, due scuole superiori di Pisa: Sant’Anna e Normale (che guadagna il 20 per cento e sette posizioni).» E gli altri atenei toscani? «La distanza con le prime tre fuoriclasse è giustificata dal fatto che le tre istituzioni sul podio sono specializzate in ricerca, negli altri atenei è la didattica che la fa da padrone. In classifica incontriamo l’università per stranieri di Siena al 13esimo posto, Firenze tra le grandi università della nostra regione è prima al numero 17. Seguono Siena al 24° posto, Pisa al 34°».

Chiaro no? «Negli altri Atenei è la didattica che la fa da padrone». È la seconda volta, dopo il celebre articolo di Repubblica, che un quotidiano di peso nazionale esprime questo concetto. Si dà per scontato che gli altri atenei toscani (incluso Pisa, eccetto il Sant’Anna e la Normale!) oramai siano “teaching universities”: lo ripete il Corriere, dopo che Repubblica già aveva scritto senza giri di parole che quello di dedicarsi essenzialmente all’insegnamento sarebbe stato il destino di Siena. Segnatamente Siena viene presa in considerazione solo per evidenziare l’ottima performance della “Stranieri”, che risulta in posizione assai più avanzata rispetto a Unisi riguardo alla ricerca (ma che “ricerca” fanno?).

Dunque, per venire alle considerazioni di Andrea, qui il “ridisegno” già sta avvenendo, lasciando morire i settori entrati in crisi per via dei pensionamenti, o non funzionali al progetto di trasformazione degli atenei di provincia in Fachhochschulen (o qualcosa di simile) di cui sopra. Del resto la sparizione di circa 400 ricercatori in pochi anni non può non aver ripercussioni sulla mole di ricerca prodotta. Ripeto ad nauseam che anche per portare a compimento una simile e più volte annunciata svolta si sarebbe dovuto pensare più razionalmente e costruttivamente a questo “ridisegno” complessivo degli atenei sul territorio, in modo tale che se una cosa (utile) la togli qui, allora la sposti e la rinforzi di là.

Per concludere, sulle parole (Vóce del sén fuggita Pòi richiamàr non vale) del ministro Poletti, devo dire che una certa retorica sui cervelli in fuga (come se quelli che sono ritornati o che vanno e vengono, in un mestiere che non è esattamente di genere impiegatizio, fossero tutti dementi) mi risulta indigeribile: beato te, che trovi da fare l’ingegnere a Stoccolma! Ciò detto, quella della fuga non può diventare l’unica alternativa: che prospettive hanno, per esempio, gli studenti, i dottorandi, i ricercatori di quelle aree scientifiche che sempre di più vengono prosciugate in nome del “ridisegno” del nostro ateneo, se non quella di andarsene? E dove se ne vanno, se non all’estero? Insomma, la trasformazione di molti atenei in qualcosa tipo Fachhochschulen – scelta di per sé già opinabile – avviene con queste modalità.

Quello che si sta profilando con questo “ridisegno”, a mio modesto parere, più che una riforma è un golpe, per cui anche le vite di molte persone (ricercatori, dottorandi, gli stessi studenti cui non si offre alcuna prospettiva) vengono compromesse, aree scientifiche e tradizioni vengono cancellate, sovente con una rozzezza di argomentazioni da lasciare allibiti, come se si trattasse di mera routine burocratica, con un impoverimento globale dell’università e della comunità tutta: insomma, un “danno erariale” e culturale sul quale però non indagherà nessuna Corte dei Conti e che oramai sarà appannaggio degli storici del futuro.

P.S. Sicché oramai in Toscana la competizione è fra Pisa e Lucca, anche se i lucchesi appaiono un po’ in ribasso. Del resto è una contesa che affonda le sue radici nel passato: «Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio.» (Proverbio lucchese di origine medievale)

Andrea. Concentriamoci su questa classifica: Firenze al 17° posto, Siena al 24° posto e addirittura Pisa al 34° posto !!! Certo mancano i parziali per area, quando verranno forniti o ci sono già? Siena la vedo in lento declino, Pisa non me lo spiego e Firenze tiene il passo. Indipendentemente dai primi 5 che sono scuole speciali con ordinamento speciale e con finanziamenti ancor più speciali, la vera classifica inizia a mio avviso da Trento. Ergo i primi 10 atenei sarebbero dal sesto al quindicesimo posto, con la sola stranezza di Siena Stranieri (????): Trento, Padova, Venezia, Milano Bicocca, Bologna, Verona, Torino, Siena stranieri, Ferrara e Piemonte orientale. Se escludiamo Siena stranieri, nella mia ipotetica classifica delle prime dieci rientrerebbe Milano Statale classificata al 16° posto. Potrei dire delle sciocchezze, ma il “ridisegno” guardando questi dati è: Atenei generalisti e votati alla ricerca nel quadrante tra Torino Bologna Padova e Venezia (con Trento inclusa). Scuole speciali al centro e il resto…
Strano il risultato dei Politecnici di Milano e Torino con una quota premiale del 3% e 4% rispettivamente, ma un occhio di riguardo questi due atenei lo avranno sempre.

Avevamo parlato di investimenti in determinate aree geografiche come ad esempio Human Technopole di Milano, Parchi della salute in Piemonte ecc. ecc. Mi sembra che non ci siamo andati distante. Sta di fatto che questi nascenti centri non faranno altro che trainare alcune università coinvolte nelle prossime classifiche Anvur e gli altri a guardare. Ecco, il “ridisegno” è servito.

Rabbi Jaqov Jizchaq. …Siena al 24° posto e Pisa al 34°… Con tutto l’affetto per Siena (o quello che ne rimane), ma ci stiamo prendendo per il didietro?

Università di Siena: alcune delle sfide che attendono il nuovo rettore

Rabbi Jaqov Jizchaq. «Da qualche giorno la comunità scientifica è in subbuglio a causa delle “cattedre Natta”, le 500 posizioni da professore associato e ordinario che il governo si accinge ad assegnare a ricercatori eccellenti, per lo più residenti all’estero: “si tratta del primo tentativo di introdurre quel principio meritocratico sconosciuto nell’accademia italiana”, dice Fabio Sabatini professore associato di Politica economica alla Sapienza.»

Ciò significa che chi non è entrato in questa maniera, compreso lo stesso autore di tale affermazione, non meritava di entrare? Seguita il professore: «bisognerebbe premiare ex post la produttività scientifica dei professori… sulla base di una valutazione periodica dell’attività di ricerca di ognuno. In questo modo si stimolerebbe una virtuosa competizione tra gli studiosi, incentivati a lavorare meglio, e tra gli atenei, che potrebbero contendersi gli studiosi più bravi.» (ibid.)

…beh, qui siamo oltre la contrattualizzazione della posizione del docente verso la quale ci stiamo avviando (conseguenza della distinzione fra “teaching universities” e “research universities”,  ovvero abolizione del valore legale del titolo di studio). A parte che già avviene, con i meccanismi incentivanti che hanno sostituito gli scatti, ora si propone uno stipendio cangiante ogni sei mesi? E ovviamente niente pensione? Buona idea: perché non mensilmente? Questo mese pago il mutuo, il prossimo chissà? Se mi ammalo, devo pubblicare due articoli su rivista di fascia A, anche se i tempi di accettazione di quelle serie superano sei mesi; se devo portare il figlio dal dentista, meglio se incremento l’H-index! Mi viene in mente una lettera di Johann Sebastian Bach, con la quale il compositore implorava un suo mecenate di acquistargli delle composizioni, perché – diceva – l’inverno eccezionalmente tiepido aveva causato meno decessi e dunque vi erano state poche commesse di cantate funebri.

Un paio di cosette non mi tornano: se per guadagnarsi la pagnotta si dovrà dedicare ogni attimo ed ogni respiro alla produzione di materiale cartaceo, che fine farà l’insegnamento? Da sottolineare che secondo l’ANVUR, già da ora l’insegnamento è tempo assolutamente buttato via: attività quasi esecrabile che pertanto verrà sempre più scaricata sui sottoposti. Del resto, se volevano che legioni di ricercatori e di precari si dedicassero veramente ed esclusivamente alla ricerca, non avevano che da chiederlo… Ma questo è il passato, ladies and gentlemen, mesdames et messieurs: chi ha avuto, ha avuto. Adesso il governo provvede a cercare all’estero i commissari per le cattedre “Natta” ed afferma questo essere un procedimento da estendere poi a tutti i docenti. La domanda è: ma allora a che servono l’ANVUR e l’ASN e tutto il delirio burocratico che ci sta sommergendo?

Comunque non vedo come si possa scindere questo discorso da quelli precedentemente affrontati anche nel blog, intorno al disfacimento di certe aree di ricerca ed alla necessità di ricompattarle (se non localmente, come auspicabile – ma improbabile – almeno a livello di uno “hub toscano” prossimo venturo) onde procurare quella “massa critica” indispensabile senza la quale i ragionamenti intorno alla ricerca sono del tutto privi di senso. Credo che queste siano le sfide che attendono il prossimo Rettore.

«I finanziamenti sono stati ripartiti fra tre aree: al settore Life Sciences sono stati assegnati il 35.3% dei fondi (28.241.379 euro), all’area Physical and Engineering il 34,9% (27.939.411 euro) e ai progetti del settore Social Sciences and Humanities il 29,7% (23.767.042 euro).»

…continuo a non capire cosa siano le “humanities”: ci hanno buttato dentro un po’ tutto, dall’archeologia mesopotamica alla sociologia del marketing, le varie discipline dell’area economica e finanziaria, ontologia, metaetica, diritto tributario ed epistemologia, poesia, economia ed arti performative: chi più ne ha, più ne metta. Francamente questo pentolone mi pare lievemente grottesco. Forse viviamo in un paese senza più un’idea di cultura.

All’università di Siena, destinata a sede distaccata toscana, si predica l’espansione ma praticando la contrazione

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Rabbi Jaqov Jizchaq. «Nel 1892 il ministro della Pubblica istruzione Ferdinando Martini propose il progetto di soppressione dei piccoli atenei, tra i quali quello senese. La proposta fu subito contrastata da uno sciopero generale dei commercianti, dall’intervento di tutte le istituzioni cittadine e da veri e propri moti popolari, che indussero il ministro a ritirare il progetto.»

Notare la differenza coi nostri tempi bui: oggi della sorte dell’ateneo tutti se ne stracatafottono, altro che moti popolari o indignazione dei commercianti! Manca la tensione etica, l’apertura mentale. Il politico alla moda finge di prendere le distanze e somministra al popolo clisteri di retorica: del resto ho già sottolineato come all’indomani della scoperta del “buco”, politici di tutte le razze identificavano come unica medicina quella del taglio dei posti di professore e ricercatore. Cerco di essere più preciso e come disse un papa, “se sbaglio, mi corigerete”: nel 2008 a Siena c’erano 68 triennali e 46 magistrali (più qualche laurea a ciclo unico). “Troppe!”, si diceva, non senza ragione. Se ne reclamava la chiusura di alcune: “le scienze del bue muschiato”; ebbene, adesso vi sono 30 triennali e 28 magistrali, diverse delle quali piuttosto mal messe, frutto di accorpamenti e destinate ad essere soppresse nei prossimi anni con il prosieguo dei pensionamenti e la perdita prevista di un altro centinaio di docenti.

Del resto se certi corsi sono destinati a sopravvivere ancora per un lasso di tempo con accanimento terapeutico, come simulacri di quello che furono, allora è meglio l’eutanasia. Ad essere entrate in crisi non sono necessariamente “le scienze del bue muschiato”, ma alcune scienze di base e corsi non proprio inutili, da ogni punto di vista. Se anche rientreranno una manciata di docenti, il quadro non cambia, considerando che dal 2008 se ne sono persi già 344. Avevamo oltre 22.000 studenti e adesso, dice il Rettore, ne abbiamo 15.775, aggiungendo che questo pesante ridimensionamento per Siena costituisce la “dimensione naturale”. Eh, già, così è, se vi pare. Uno torna da Auschwitz e dice: “questo è il mio peso-forma”. Ma “naturale” in che senso? Cos’è “naturale” per Siena? Cortesemente, gradirei ricevere qualche delucidazione riguardo a questa valutazione. Poi non so cosa induca a pensare che il dato si sia consolidato e non sia destinato a scemare ulteriormente. Insomma, che precipitando dal grattacielo, si sia “finalmente” toccato il suolo.

Ci avviamo ad avere un terzo dei docenti di Pisa o di Firenze e per giunta mal distribuiti un po’ a casaccio: un gerontocomio, semplicemente quello che resta dopo i pensionamenti di quasi la metà di costoro, non quello che serve per portare avanti un progetto ben definito. Ma cosa intende il Rettore quando dice che «entro il 2016 entreranno a Siena circa 130 fra nuovi docenti e nuovi ricercatori»? In realtà, se sono di ruolo, non sono nuovi (si tratta di avanzamenti di carriera) e se sono nuovi, non sono di ruolo (si tratta di contratti, anche se alcuni, sperabilmente, in futuro, convertibili in posti di ruolo).

E ripeto che non capisco come, con una massa così ridotta, si possa sfuggire all’attrazione dei grandi poli regionali. Perdendo altri 5000 studenti, inoltre, Siena verrà inclusa nel novero dei vituperati “piccoli atenei” (cioè quelli intorno ai 10.000 studenti) dei quali da più parti si reclama la chiusura e che paiono incompatibili con i succitati progetti dell’ANVUR e della politica. Non solo quella di governo. Leggo infatti nel blog di Beppe Grillo: «I piccoli atenei (costosi e poco efficienti) dovranno chiudere e quel risparmio potrà essere investito per creare case dello studente presso pochi, efficienti, grandi atenei.» In effetti a questi lumi di luna mi pare sia opinione ampiamente condivisa che i piccoli atenei sotto i 10.000 studenti siano una spesa insostenibile. Soprattutto mi pare che molti italiani, non insensatamente, non la vogliano sostenere, trattandosi in larga misura di diplomifici e stipendifici per parenti o famigli delle nomenklature locali.

Porsi questi problemi mi pare lecito, se non addirittura doveroso, e un chiarimento appare non più procrastinabile. In tutt’Italia se ne parla. A Siena no; pare peccaminoso e inopportuno parlarne. Di certo da queste parti non ti fai degli amici, sollevando il discorso, nel “tempio del libero pensiero”. Sicché, nonostante l’afflato e i buoni propositi, il destino pare essere già stato tracciato e nonostante il linguaggio 2.0 degli eredi del ministro Ferdinando Martini, il proposito appare oggi lo stesso, quando dicono che sopravviveranno “pochi hub” propriamente definibili come “università”, mentre gli altri saranno ridotti a “teaching universities”, cioè sedi distaccate; ma non hanno il coraggio di ammetterlo, e non certo perché temano l’insurrezione popolare a difesa del “culturame”.

Ma non si può continuare a dire una cosa e a farne un’altra, predicando l’espansione, ma praticando la contrazione. Un po’ il contrario del Mefistofele di Goethe, che desiderava eternamente il male, e tuttavia “a sua insaputa” operava eternamente il bene: “Ein Teil von jener Kraft, die stets das Böse will und stets das Gute schafft”.

Proprio per l’impossibilità di fronteggiare i pensionamenti, a Siena non solo la ricerca ma la stessa didattica è in crisi nera

OmbraRabbi Jaqov Jizchaq. (…) meno nobile della citazione di Michelstaedter; meno icastico dell’eloquio del conte Mascetti, il mio discorso insiste pedantemente sul punto:

1) «La prima missione dell’università è la didattica, ma sembra proprio che ce ne siamo dimenticati. L’affastellarsi incoerente di leggi, di provvedimenti, di regole e prescrizioni di ogni tipo la stanno infatti relegando in un angolo, rendendola sempre meno centrale ed efficace e sempre più difficile da decifrare, aggiornare e innovare.» (A. Stella)

Scusate se commento il brano citando nuovamente Galli della Loggia, ma i suoi due interventi recenti sul Corriere della Sera intorno a quest’argomento mi pare che centrino perfettamente il problema. Soggiungo che in questa problematica, Siena è immersa fino al collo anche per un surplus di disgrazie locali, e non odo risposte o proposte, né dall’attuale rettore, né dai candidati futuri rettori. Non si dice Sì-Sì o No-No, ma al massimo qualche ecumenico ed elettoralistico “ma anche“. Per quanto la sopravvivenza dell’ateneo investa il destino della città (della cui economia l’università rappresenta una gamba), tacciono i media e il mondo politico, tranne che per dar luogo, di tanto in tanto, a polemiche sterili o autoincensamenti inopportuni. Ma in definitiva il partito prevalente è quello dei fatalisti.

Il Rettore dice che nonostante la fuoriuscita di circa 500 docenti (uno su due) il rapporto docenti/studenti a Siena è ancora alto. Che dire? Tra breve avremo un terzo del corpo docente di Pisa o di Firenze. Se non ti è bastato di tramortirli, allora ammazzali e buonanotte! Un cupio dissolvi. Certo è che se continui a perdere studenti a migliaia e a chiudere corsi di laurea a decine, i docenti saranno sempre “troppi”: al limite, puoi fare a meno di tutti i docenti, semplicemente chiudendo l’università e dandoti finalmente all’agricoltura (già tremano gli ortaggi). Non so che cosa ne farai dei 1000 amministrativi (il doppio all’incirca dei docenti), ma se fossi il sindacato mi preoccuperei fortemente, anziché assecondarli, udendo certi discorsi intorno ad un ateneo ulteriormente ridimensionato. Gli anni passati sono stati caratterizzati da uno sfruttamento nero di giovani docenti, spesso poi non stabilizzati (di quelli capitati in questo decennio, nessuno lo è stato), dichiarati anzi oramai “vecchi” e dimenticati al grido ipocrita di “largo ai giovani!”, cioè a truppe fresche pronte per essere a loro volta immolate. Una generazione polverizzata. In questo gerontocomio dove i “giovani” sono “quarantini” o “cinquantini” (per dirla alla Montalbano) non entra di ruolo un cane da dieci anni: come si fa a dire che i docenti sono ancora troppi?

2) A proposito della strisciante trasformazione di molti atenei di media dimensione (specie meridionali) in “teaching universities”, onde favorire “pochi hub” della ricerca, dapprima il professor Galli della Loggia si chiede: «paradossalmente ciò sta avvenendo senza che nessuno lo abbia discusso veramente. Senza che nessuno abbia discusso la questione cruciale. Vale a dire: che cosa si deve fare del sistema universitario italiano? Come deve essere? Puntare su poche sedi già oggi in buona posizione per cercare di farne dei veri centri di eccellenza di livello europeo può essere giusto, ma che fare allora delle altre e quali caratteristiche queste debbono avere?».

L’Anvur si fa arbitro di distinguere fra teaching e researching universities: «ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa».

Nel mio piccolo mi chiedo se non vi sia un circolo vizioso nel praticare una politica che premia grossi atenei principalmente in base all’ammontare dei prodotti della ricerca, destinando con ciò per sempre molte sedi minori ad “università d’insegnamento”, cioè sedi distaccate di grossi atenei, sol perché, appunto, inevitabilmente, sfornano meno “prodotti”. Difatti non è chiaro come possa competere in assoluto, anche sul piano della mera quantità, e dunque trovare risorse sufficienti per emanciparsi e crescere, un ateneo come Siena che, pur avendo ricevuto in passato buone valutazioni, si avvia a perdere metà degli addetti alla ricerca e ad avere mille ricercatori in meno rispetto a Pisa o a Firenze. Diconsi mille, che se anche ciascuno sforna un articolo all’anno, sono nel quadriennio della VQR quattromila “prodotti” sfornati da ciascuno dei nostri ingombranti vicini da aggiungere al paniere.

È evidente che il contentino per essere stati, nonostante tutto, bravini, nei settori non ancora spazzati via dalla crisi, è di per sé insufficiente per ribaltare la sorte: non c’è partita, e mi domando quanto tempo passerà prima che il piccolo satellite venga definitivamente risucchiato dalla forza d’attrazione dei grandi pianeti a lui vicini. Più che una valutazione, questa distinzione fra sommersi e salvati sembra dunque essere una decisione presa a priori, una sorta di predestinazione calvinista parto di menti imperscrutabili e onnipotenti, e l’appello ai risultati della VQR, appare dunque soltanto un espediente retorico. Siena, nonostante le soddisfacenti performances nella ricerca, in questa cornice, pare destinata a diventare qualcosa che nell’idioma italico, accantonando per un attimo gli anglicismi, non so tradurre se non come “sede distaccata”. Ma può esistere un ateneo per metà “teaching” e per metà “researching” dove la prima metà costituirebbe un’insopportabile zavorra per la seconda metà? E i settori votati alla ricerca ripiegano definitivamente sull’insegnamento sol perché vanno in pensione i docenti? Sarebbe questa la misura dell’eccellenza?

3) Inoltre, in numerosi suoi comparti, proprio per l’impossibilità di fronteggiare le massicce uscite di ruolo, a Siena non solo la ricerca, ma la stessa didattica è in crisi nera: mi pare un autentico circolo vizioso. È curioso come la svalutazione della didattica si accompagni, in modo contraddittorio, col proposito di riduzione di gran parte degli atenei medio-piccoli a “teaching universities“: la didattica intesa perciò come cattiva didattica, in quanto punizione, una didattica dequalificata, frutto di un castigo, da somministrare evidentemente a chi non ha soldi o voglia per migrare verso gli atenei maggiori? Cose ‘e pazz’…. sembra che la didattica non abbia bisogno di risorse e competenze. In un successivo e già citato intervento, Galli della Loggia riassume così il processo che vede la progressiva marginalizzazione di tutti i comparti che, per intenderci, ho chiamato “teoretici” e delle scienze pure (quelli che qui a Siena chiamano “la cultura”): «Detto in breve, dall’insegnamento universitario – e quindi prima o poi anche dall’intero universo di capacità conoscitive e di studio degli italiani – dovrà scomparire innanzi tutto il passato. L’Italia non dovrà più interessarsi di alcun aspetto del mondo che abbiamo alle spalle, dei suoi eventi, delle sue idee, delle sue produzioni artistiche. Ma non solo. Dovrà farla finita anche con una buona parte di quei saperi astratti come la filosofia, la matematica, o con altre scienze esatte non sufficientemente utilizzate dall’apparato produttivo.»

Questo processo, specialmente in ordine a quelli che Galli definisce i “saperi astratti”, è visibilissimo anche a Siena, ateneo che ha sostanzialmente deciso di farne a meno, compattandosi (volente o no, con l’uscita di ruolo di un professore su due) attorno ad alcuni settori di carattere eminentemente applicativo. Anche i cultori improbabili del “piccolo è bello” dovrebbero dire allora, senza infingimenti (“ahhh! A noi ci interessa tanto, ma tanto la cultura!”):

a) quali settori s’intendono portare avanti per un ateneo fatto solo di poche “eccellenze”.

b) una volta presa la decisione, che non discuto, cosa farne di chi, pur non essendo individualmente un idiota, lavora in altri settori rimasti sguarniti e perciò stesso destinati all’abbandono, atteso che tutto ciò con la “meritocrazia” ha poco a che vedere, e che la vita di decine di persone non è nella disponibilità di un Rettore (presente o futuro).

Ricordo che anche in questo blog taluni sostennero illo tempore che la fuoriuscita di circa 500 “vecchi” avrebbe fatto largo finalmente ad altrettanti giovani: non si rendevano conto, tapini, che essa preludeva semplicemente alla soppressione di circa 500 insegnamenti e altrettanti posti di lavoro. Sarà grasso che cola se in futuro ne verranno recuperati il 10% (ma ne dubito). Dieci anni di congelamento di turnover e carriere hanno fatto fuori buona parte di quella generazione che avrebbe dovuto costituire il ricambio dei “vecchi”. C’è da esserne fieri.

Sarei contento se i candidati rettori mi spiegassero dove sbaglio.

Perché non discutere apertamente del ruolo destinato all’Ateneo senese nel Sistema Universitario Toscano?

Altan-vecchidelusoRabbi Jaqov Jizchaq. Con riferimento agli argomenti riportati nell’articolo precedente, io soprattutto non ho capito due cose e sarei contento se qualcuno me le chiarisse:

(1) Checché se ne dica o dicano certi organi di stampa compiacenti, l’attuale offerta didattica dell’ateneo non è frutto di una programmazione razionale ponderata in vista di obiettivi chiari, ma è semplicemente ciò che alla massaia è stato possibile cucinare sulla base degli ingredienti racimolati nella sempre più desolata dispensa. Secondo le vigenti norme relative ai “requisiti di docenza”, si tratta di quello che rimane dopo il pensionamento di metà circa del personale docente; per dirla con Don Alfonso: «non può quel che vuole, vorrà quel che può» (Mozart, “Così fan tutte”). Questo ha fatto sì che entrassero in crisi, scomparendo od essendo prossimi alla scomparsa, diversi settori di base, includendo praticamente tutti i settori “teoretici” delle scienze pure: cadono lauree triennali, magistrali e dottorati; si dice che Siena punta tutto sulle “scienze della vita”, ma che vuol dire? E poi è economicamente sostenibile, al giorno d’oggi, un ateneo di dimensioni sempre più piccole, specializzato in alcuni specifici settori? Insomma, sospetto di chi dice “piccolo è bello”. Già hanno spacciato quella che a tutti gli effetti è stata una crisi catastrofica, per necessario, auspicato ed opportuno ridimensionamento (che se Mussari & C. fossero andati a raccontare una frottola del genere al MPS dopo l’affare “Antonveneta”, sarebbero stati sgozzati seduta stante).

(2) Un autorevole membro dell’ANVUR ha tratteggiato il seguente scenario: «quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale.» Il che vuol dire in sostanza trasformare alcune sedi in sedi distaccate dei “grandi hub” della ricerca. Ammesso e non concesso che l’ateneo senese dismetta l’abito “semigeneralista” e trovi le risorse per trasformarsi in qualche cosa di diverso, per niente “generalista”, focalizzato su pochissimi settori per lo più applicativi, con un minor numero di studenti, nonostante le già allarmanti emorragie di questi ultimi anni, se avete cioè deciso di sopprimere, non le scienze del “bue muschiato”, ma importanti aree delle scienze di base, principalmente per mancanza del personale docente richiesto dalla legge, non si capisce cosa intendete farne dei residui. Cioè di chi ancora ci lavora, i brandelli, quello che resta di questi settori in via di dismissione (stiamo parlando di parecchie decine di addetti ai lavori), che per soddisfare le pretese dell’ANVUR, la SUA, il VQR ecc. devono comunque essere ancora scientificamente produttivi. Non è chiaro, un simile scenario, con pezzi di ateneo privi di livelli magistrali, dottorati ed in genere delle forze necessarie per contribuire significativamente alla ricerca, come si possano soddisfare i requisiti che oramai presiedono ai vari meccanismi premiali, tutti basati sulla produttività scientifica e sulla qualità della medesima.

(3) In vista delle “teorie” che circolano e dei movimenti descritti dal prof. Grasso (“regionalizazione”) mi domando se quello che si sta configurando a Siena è un ateneo, una researching university, una teaching university, o una sede distaccata, non dotata di una specifica autonomia. Se comunque in alto loco si è deciso di procedere a una sempre maggiore integrazione a livello regionale tra i principali atenei toscani, come dicono gli psicologi televisivi con aria serena e rassicurante: “parliamone”. Insomma, giù le carte! Difatti non si capisce perché non se ne debba discutere apertamente, non si metta a tema nel dibattito politico e accademico, non diventi anzi questo – date le pesanti implicazioni – il principale argomento e oggetto di negoziazione con le altre realtà; non si comprende cioè perché gli effetti di questa metamorfosi si debbano subire tacendo.

(4) Infine una mesta considerazione sullo stato della nostra democrazia. È consuetudine, oramai, apprendere la direzione che ha preso il corso delle cose “post festum”, quando cioè ne subiamo gli effetti: biblicamente, a vedere solo “le spalle”, cioè le conseguenze delle decisioni di certe recenti imperscrutabili deità burocratiche, senza neppure avere esatta contezza di chi e come decide sulla nostra testa e muove i fili delle nostre esistenze: «Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Esodo, 33, 21-23). Alcuni traducono: «vedrai il mio didietro», ma non è carino.

Se si pensa di portare solo dodici università ai vertici della classifica di Shanghai, si chiudono poi tutte le altre?

Altan-controllosituazioneRabbi Jaqov Jizchaq. Da un interessante articolo di Nicola Costantino si evince che, nonostante la sola Harward abbia un bilancio pari al 44% dell’intero Fondo Ordinario nostrano, cioè del totale dei quattrini che lo Stato italiano butta nel sistema universitario, la resa delle università italiane, quanto a produttività scientifica, sia, ohibò, lusinghiera ben oltre le aspettative. Nondimeno la tendenza generale è quella:

(1) a svalutare sempre di più il contenuto e l’importanza della didattica e non vedo come possa esservi buona ricerca, se prima non vi è buona didattica a tutti i livelli. Svalutare la didattica vuol dire ritenere che tutti gli atenei siano essenzialmente researching universities, senza capire chi e dove avrebbe il compito di formare i researchers. S’intende che il tempo trascorso dai docenti nelle aule sia solo un doveroso obolo pagato obtorto collo da gente che fa altro come mestiere: insomma, tempo perso; il senso di molti corsi di studio dai nomi incomprensibili, del resto, non a caso ci sfugge.

(2) a premiare sempre di più i grossi atenei e punire sempre di più quelli medio piccoli; ma come puoi pensare che un ateneo che perde pezzi e metà del corpo docente come Siena, col patacrack che è successo, dove non entra nessuno stabilmente a dieci anni e con 500 docenti che d’un botto vanno in pensione possa migliorare oltre un certo limite le proprie prestazioni o possa risollevarsi solo in virtù di parchi meccanismo premiali, visto che sono state minate le fondamenta? Si dice però al contempo (contraddicendosi) che oramai il destino di molti atenei è viceversa quello di diventare delle teaching universities. Giavazzi propose addirittura di chiudere le Università di Bari, Messina e Urbino, in ragione della loro bassa qualità certificata dalla VQR: ebbene, perché non lo fanno, chiudendo magari anche Siena visto che l’unica tendenza in atto è quella al graduale smantellamento delle strutture? A questo punto si tratta dunque di chiarire alcune cose:

(3) se la tendenza è quella a distinguere università di serie A e università di serie B, non è che ci si possa limitare a fotografare l’esistente, trasformando in condanna eterna oppure assoluzione eterna il mero dato di fatto, la fotografia dell’oggi, il dato spesso casuale, che uno si trova qui, piuttosto che là, in una situazione dove non esiste mobilità, né programmazione territoriale, imprigionato nella nave che affonda. La crisi degli atenei medio-piccoli, per adesso, ha provocato come effetto non lieve quello di spazzare via un generazione di (ex) giovani ricercatori: credo che oramai si guardi alla successiva, stendendo un velo pietoso su chi è stato travolto dalla valanga. A Siena, uno capitato dieci anni fa, non avrebbe comunque fatto carriera manco si fosse chiamato Einstein (nel sistema claustrofobico degli atenei “autonomi” il numero di coloro che sono stati chiamati altrove è ridottissimo); successivamente la sua sorte sarebbe stata vincolata all’alea dei pensionamenti, dei punti organico, dello scioglimento delle facoltà, dei requisiti minimi, dei corsi che vivono e che muoiono, di decisioni avvenute secondo criteri vieppiù imperscrutabili.

(4) Non esistendo mobilità manco per gli studenti, il fatto di studiare in una università di serie A o di serie B è solo questione di quattrini: le università di serie B servono i ceti squattrinati del circondario; quelle di serie A servono i fortunati autoctoni, sempre che se lo possano permettere, più i fuorisede che possono consentirsi la trasferta, e visti i costi del mantenimento di un figliolo all’università, non si vede perché una famiglia di Vattelappesca dovrebbe affrontare spese ingenti per mandare il pargolo in una sede di serie B. Personalmente oramai conosco anzi molta gente che, sensatamente, li manda direttamente all’estero, in sedi ove si trovano quelle specializzazioni che qui non sussistono più, sostanzialmente a parità di costi. E sia benedetta Ryanair.

(5) Rileva il Presidente del Consiglio che “non possiamo pensare di portare tutte le 90 università nella competizione globale”; giusto, ma da un lato perché allora non danno seguito innanzitutto al malcelato proposito di chiuderne alcune, evidentemente lasciate oramai alla deriva, trasbordando nelle sedi più prossime docenti e discenti, come propone Giavazzi? E poi si tratta di capire qual è lo scopo secondo Costituzione dell’istruzione superiore in Italia: tendenzialmente direi di offrire un buon livello di istruzione superiore su tutto il territorio nazionale (anche se nei fatti non è così), e non di portare avanti “pochi hub” nella classifica di Shanghai buttando il resto ai maiali: se per assurdo vi fossero in Italia solo cinque università, probabilmente sarebbero tutte e cinque eccellenti. In ogni caso si tratta di decidersi. Epilogo: al punto (5) ho succintamente riassunto la posizione del Presidente del Consiglio, che pur partendo da una considerazione sensata, ossia che l’Italia non può portare tutte le università ai vertici della classifica di Shanghai o altre classifiche (che non siano quella surreale del CENSIS), ma solo mezza dozzina, non ci dice con precisione cosa vorrebbe farne delle altre (ma che cacchio vuol dire “teaching universities”?), né è chiaro come potrebbe riuscire un ateneo a emanciparsi realmente da una condizione di inferiorità che ammonta ad una condanna a vita.

Dunque nella maggior parte degli atenei non ci si dovrà più azzardare a parlare di scienze astratte, ripiegando in modo non meglio precisato sulle “applicazioni”, che in assenza di robusti comparti di ricerca di base temo saranno intese come applicazioni di basso profilo. Del resto, su scala più ampia, è un po’ quello che succede per larghe fette dell’economia: qui assistenza e commercializzazione, mentre progettazione e ricerca avanzate si fanno altrove; ho già citato Bertrand Russell, che saggiamente osservava come la pretesa di una ricaduta immediata – domattina all’alba – delle scoperte scientifiche, finisca per distruggere assieme ricerca pura e ricerca applicata.

Parimenti non si dovrà più parlare di Cultura (con la “C” maiuscola), ma al più di comunicazione & marketing, folclore e turismo. In questa cornice poco edificante per il tono civile e culturale del paese più ignorante d’Europa, la sorte degli atenei medio-piccoli è segnata e le loro “eccellenze”, se ve ne sono e se non verranno man mano cancellate, sopravviveranno solo se saranno in grado di confluire all’interno di strutture più ampie, tipo consorzi con altri atenei; il che chiama in causa l’infelice concetto di “autonomia” universitaria e la concezione degli atenei come monadi senza finestre: siccome, checché se ne pensi, questo è l’andazzo, trovo inquietante che si continui psicoanaliticamente a negare la realtà evidente.

Mi domando (nuovamente) perché tacere su quello che costituisce il processo reale in atto, che a Siena in particolare sta producendo (a) la disintegrazione dei comparti umanistici (un solo dottorato sopravvissuto, poche magistrali, accorpamento dei corsi, la scelta poco lungimirante di non realizzare la Scuola Umanistica, per dar corso viceversa a dipartimenti stravaganti) e (b) la scomparsa gravissima e imminente di molte aree scientifiche di base (non si è capito bene che fine faranno la Fisica e la Matematica). Un processo che non vede solo chi non lo vuol vedere: ma allora perché non metterlo a tema nell’agenda politica, discutendone apertis verbis, anziché nelle segrete conventicole? Qual è la politica della Regione (attuale deus ex machina) e del neo rieletto presidente riguardo al destino dei tre atenei maggiori? Il silenzio assordante di tutte le altre forze politiche mi porta a ritenere che quella esposta al punto (5) sia una visione ampiamente condivisa, così come generalmente elusa è la risposta agli interrogativi che essa solleva.

Nell’università c’era più libertà quando c’era meno autonomia

Altan-futurodimerdaRabbi Jaqov Jizchaq. «Fra il 2007 e il 2015 il numero dei docenti ordinari delle università italiane è sceso da poco meno di 20.000 a poco più di 13.000. Dove vogliamo fermarci?»

Come eravamo: «Nel 2010 il personale impegnato in attività di ricerca nell’Università degli Studi di Siena ammonta a 1743 unità. I ricercatori universitari sono 947» (Rapporto ricerca 2010). Adesso i ricercatori di ruolo (ad esaurimento) sono 350, un quinto circa dei quali diventeranno associati od ordinari con gli imminenti avanzamenti; il personale docente di ruolo (ricercatori ad esaurimento+associati+ordinari) complessivamente ammonta ancora a 750 unità (giacché gli avanzamenti non sono chiamate di esterni) e si accinge ad essere ridotto di altre 150 unità circa, un po’ a pene di segugio, cioè a dire con la roulette russa dei pensionamenti.

Secondo l’ANVUR nel 2013, l’età media a livello generale era 59 anni per gli ordinari, 53 per gli associati e 46 per i ricercatori; un quotidiano nazionale che citai tempo addietro riportava i dati senesi, che risultavano sensibilmente più alti di 4-6 anni a seconda delle categorie. Ecco, io capisco e apprezzo gli sforzi diretti al risanamento, ma perché da parte dei media prendere per le natiche l’opinione pubblica millantando una realtà che non c’è o che non c’è più? Insomma, io trovo strano che non si riesca in nessun luogo pubblico e sui media a impostare una discussione in termini seri, sobri e realistici, abbandonando per un attimo la consueta oratoria encomiastica, lo stile apologetico, la voce nasale di annunciatore dell’EIAR che canta i recenti trionfi (e cela le recenti sconfitte).

Il Rettore annuncia: «La conferma del miglioramento dei conti consente ora di proseguire su questo percorso, aprendo nel prossimo futuro le procedure per altre 30 posizioni». Evviva, Siena triumphans: ma si tratta di 30 avanzamenti di carriera (da tempo agognati, certo, e benvenuti, ma mi conferma il prof. Grasso che non si tratta di nuovi assunti) e le considerazioni che mi viene da fare sono sempre quelle: avanza chi ha ancora le gambe; chi nell’attesa di avanzare viene azzoppato, non avanza e ai caduti recenti si aggiungeranno a breve altre vittime; nel senso che settori e corsi di studio che nel frattempo sono entrati in crisi per via dei massicci pensionamenti, non “avanzeranno” da punte parti: 500 professori usciti di ruolo vuol dire uno su due a casaccio, sin qui senza turn over.

Un anno prima dello scoppio del “buho” vi erano settori che contavano oltre venti docenti di ruolo, e mi pare che ciò non fosse giustificabile alla luce del fabbisogno di didattica; all’estremo opposto altri settori contavano uno o due docenti: si capirà che da un lato quando il maledetto uomo della strada ripete che “eh, so’ troppi”, interpretando a suo modo la dottrina del “taglio lineare”, bellamente ignorando gli squilibri mostruosi entro il personale docente e tra personale docente e personale tecnico amministrativo, non fa allora un discorso equo, e dall’altro che togliendo due docenti a settore, ai primi non fai un baffo, mentre i secondi li condanni a morte. Poi ci sono le situazioni intermedie: quelle in cui il fabbisogno di didattica oramai è insostenibile e i requisiti di docenza non sono più soddisfacibili con le poche forze rimaste.

A meno che, la regola non sia “chi ha avuto, ha avuto”, questi dati imporrebbero qualche riflessione un po’ meno disinvolta sull’andamento delle cose. Ma, oramai temo che siano cavoli del rettore prossimo venturo, e che giunto a scadenza, l’attuale se ne lavi volentieri le mani (“il settimo si riposò”). Il mantra che Siena deve diventare una specie di “Life Valley” (“Siena Biotech, licenziati alla vigilia del primo maggio”, La Nazione; come esordio non c’è male: una valley di lacrime) non chiarisce qual è la sorte riservata a tutto il resto e alla gente che ci lavora, né come debba leggersi tutto ciò alla luce dell’idea più volte ventilata di trasformazione del sistema degli atenei riducendo molti di essi a “teaching universities” e conservando solo “pochi hub” della ricerca: qui, almeno per una decina di anni, il tempo cioè di fare piazza pulita della cultura e della ricerca di base in altre, non meno vitalistiche “valli”, avremo dunque una situazione schizofrenica, con la researching university in alcuni comparti e la teaching university in altri, ridotti a simulacro?

Ricerca nelle “scienze della vita” o poco più, e pura didattica di basso profilo altrove, in corsi rimaneggiati con quel poco che resta e accorpati, privi di logica interna, di specializzazioni e dottorati (e dunque di attrattiva)? Ha senso tutto ciò? E scusate, perché della gente titolata dovrebbe accettare la prospettiva di regredire al rango di garzone, rinunciare alla carriera, se è giovane, per assecondare questo disegno e perché i colleghi sono andati in pensione? Perché uno studente dovrebbe esserne attratto? Sarebbe sensato, come logico corollario di un progetto di smantellamento di mezzo ateneo, che si “organizzasse l’esodo”, tipo operazione Mosè coi Falascià, ovvero si consentisse (o si intimasse!) a costoro di andarsene in altra sede a svolgere il lavoro per il quale sono pagati, giacché sono dipendenti dell’università statale italiana, e non di qualche nobil contrada senese. Si dirà che si tratta di una boutade, ma la tua soluzione qual è, hypocrite lecteur?

Cosa vorrà dire soddisfare le richieste dell’ANVUR e della SUA in ordine alla produzione scientifica in contesti ove di fatto sarà vieppiù difficoltoso adoperarsi per la buona ricerca? E questo, by the way, in un sistema dove la quasi totalità della «quota premiale» del Fondo di Finanziamento Ordinario viene assegnata alla produzione scientifica e la didattica viene quasi punita come inutile passatempo (ammesso e assolutamente non concesso che “fare ricerca” coincida con il soddisfare le richieste della SUA e dell’ANVUR).

Dice il governo: «più poteri ai rettori… bisogna ridare autonomia vera agli atenei, imporre meno regole dal centro»; ma potere di far che? Serve ben più, temo, che la briglia sciolta ai rettori persino sulla retribuzione dei docenti o la “contrattualizzazione” (jobs act) di tutti i ruoli; anche perché mi pare che i piccoli atenei già siano sin troppo nelle mani del notabilato locale che fa il bello ed il cattivo tempo: in primo luogo devono dirci cosa intendono farne dell’attuale configurazione degli atenei pubblici e del sistema della ricerca e della didattica universitaria.

Personalmente sarei incline, piuttosto, a richiedere un maggiore centralismo e protagonismo da parte del ministero, che non può tirare il sasso in piccionaia e poi nascondere la mano, essendo convinto che c’era più libertà quando c’era meno “autonomia” e ravvisando nella trasformazione degli atenei in monadi senza finestre, non solo una delle cause dei mali che li affliggono, ma anche dell’impossibilità di addivenire per i problemi di cui stiamo parlando a soluzioni del tipo di quelle prospettate nei precedenti messaggi.

Sarei felicissimo se qualcuno mi convincesse che quanto ho scritto è privo di fondamento.

Ormai la prima missione dell’Università, la «didattica», ha un ruolo marginale e disincentivato

StefanoSempliciLa Buona Università? Deve puntare sulla didattica, non solo sulla ricerca (Corriere della Sera, 27 aprile 2015)

Stefano Semplici. La «buona università» ha certamente bisogno di più risorse e professori. E la retorica a buon mercato sul «sapere come risorsa strategica per lo sviluppo» rende solo più dolorosa la cruda evidenza dei numeri. Tutte le graduatorie internazionali ci vedono malinconicamente agli ultimi posti fra i paesi più avanzati per gli investimenti in istruzione terziaria. Fra il 2007 e il 2015 il numero dei docenti ordinari delle università italiane è sceso da poco meno di 20.000 a poco più di 13.000. Dove vogliamo fermarci? Per quanto tempo ancora gli sprechi e le inefficienze di alcuni (o anche di molti) saranno utilizzati come un pretesto per soffocare tutti, mentre i nostri giovani migliori se ne vanno, portando con sé buona parte delle speranze della loro generazione?

Darwinismo accademico. Su due punti, tuttavia, sembra impossibile anche solo aprire un confronto. E forse non è un caso, perché si tratta del risultato di scelte perseguite con granitica coerenza in questi ultimi anni da maggioranze molto diverse. Il darwinismo accademico e la didattica senza merito sono ormai subiti come la conseguenza inevitabile della cultura della valutazione, della qualità e dell’efficienza. Si può provare almeno a dubitare che siano strumenti indispensabili per raggiungere quest’obiettivo, ovviamente condiviso? Gli effetti della competizione esasperata fra singoli ricercatori, dipartimenti e atenei sono noti, a partire dai comportamenti opportunistici finalizzati a massimizzare l’impatto del proprio lavoro nel breve periodo, prosciugando i talenti e la passione del pensare lungo. Le classifiche che mettono in fila le università sono diventate un’ossessione mediatica e le regole che le producono, oltre a generare le più incredibili vessazioni burocratiche, alimentano la convinzione che l’obiettivo fondamentale da perseguire non sia quello di fare bene il proprio lavoro aiutando gli altri a fare lo stesso, ma quello di sopravanzarli in qualche modo ed essere «premiati». Si dimentica così che la vera alternativa non è fra produttivi e sfaccendati, perché nessuno difende ovviamente i secondi, ma fra quanti ritengono che una seria valutazione serva appunto a premiare e punire (con il risultato che diventerà sempre più difficile, per chi è rimasto indietro, recuperare) e quanti sono invece convinti che le stesse punte di eccellenza abbiano bisogno per sostenersi di una base ampia e solida di metodologie e buone pratiche condivise. Una qualità media dignitosa e diffusa sul territorio è sempre stata la caratteristica del nostro sistema e questa ricchezza, la cui difesa non è incompatibile con la valorizzazione dei migliori risultati, rischia di andare perduta. Ne è prova il fatto che cresce il numero dei giovani del Mezzogiorno che vanno a studiare lontano da casa. È stato un errore grave quello che ha portato a dare a ogni campanile la sua università. Ma siamo sicuri che lo Stato si debba adesso limitare a certificare i risultati di una lotta senza quartiere, che sta portando alla desertificazione universitaria di intere aree del paese?

Didattica senza merito. La didattica senza merito è la conseguenza di una politica universitaria che ha ancorato in modo ossessivo la valutazione ai soli «prodotti» della ricerca, riducendo di fatto la «prima» missione dell’università ad un ruolo marginale e sistematicamente «disincentivato». La stessa proposta di differenziare researching e teaching universities è stata declinata come uno strumento di gerarchizzazione delle funzioni, mentre si stratificavano interventi normativi a senso unico. La didattica e la capacità di insegnare non contano ai fini della carriera accademica. Lo stabiliva già la legge Gelmini. La didattica non conta neanche per chi è diventato professore: le politiche di reclutamento del personale da parte degli atenei sono valutate in base ad una serie di criteri fra i quali non figura la qualità dell’insegnamento, mentre spicca al primo posto la produzione scientifica. E sulla base di quest’ultima viene assegnata la quasi totalità della «quota premiale» del Fondo di Finanziamento Ordinario delle università. Non c’è bisogno di insegnare, insomma, per essere buoni professori. E si possono esonerare i migliori dal dovere della trasmissione del sapere che contribuiscono a produrre, perché tanto «si troverà qualcuno da mandare in aula». Se non si corregge questo paradosso, sarà molto difficile trovare la strada della buona università. E non basterà un altro Jobs Act. Che comporta per inciso, come dovrebbe sempre aggiungere chi lo propone come rimedio anche in questo settore, la possibilità del licenziamento senza giustificato motivo, con un’indennità “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento” e in misura “non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. Non sembra francamente questa la soluzione migliore per rafforzare l’autonomia e la libertà delle università e di chi in esse vive e lavora. E dirlo non significa schierarsi a difesa di “baroni” e fannulloni.

Dopo la grande glaciazione, all’Università di Siena i più giovani e meritevoli sono stati messi in cantina a invecchiare

Altan-vecchiettiRabbi Jaqov Jizchaq. Ecco il giudizio del Censis riguardo al comparto “umanistico” dell’università di Siena: «Ateneo equilibrato per quel che riguarda le possibilità di progressione di carriera e di rapporti internazionali. Rispetto alle altre Università in classifica, l’UniSi ha un’offerta didattica più ristretta, ma compensata da un’altissima qualità.»

Adesso, non per dire, non è che metto in dubbio la qualità dei docenti senesi, di sicuro valore, benché in larga parte pensionandi, ma … progressioni di carriera a Siena??? Età media dei ricercatori (a esaurimento), 52 anni; età media degli ordinari, 63 anni, un bel progredire, non c’è male: verso la pensione! Naturalmente, quando è cominciata la grande glaciazione, tutti erano più giovani di quasi un decennio, ma poi i più giovani e meritevoli sono stati messi in cantina a invecchiare, come del resto si confà al vino buono (anche questa è “meritocrazia”).

Per quanto riguarda gli studi post-laurea, compulsando il sito UniSI ho prima rilevato che Siena risulta sede di un solo dottorato di area “umanistica”, dal titolo “Filologia e critica”; in tutti gli altri settori, dunque, qui non c’è rimasto un fico secco e non si capisce come sia possibile “progredire” specializzandosi in alcunché.
 Si aggiunga che per quanto riguarda le opportunità di reclutamento e carriera, nell’ateneo è tutto fermo da otto anni e l’unica cosa che si muoverà a breve, per quanto ne so, sono un paio di avanzamenti interni per dipartimento: cioè a dire, per ora, zero nuovi posti (correggetemi se sbaglio). Francamente, parlare di “facilità di progressione di carriera” a Siena, oggi come oggi mi pare puro surrealismo.

Vediamo il confronto con gli altri atenei in classifica. Leggo ad esempio che a Bologna i Corsi di Laurea e i Corsi di Laurea Magistrale (non i “curricula”, “percorsi”, “indirizzi” e similia) sono ventiquattro. Si aggiungano ben tredici dottorati di area umanistica, con cinquantasei borse di studio, a fronte di un solo dottorato a Siena, con in totale quattro misere borse. Ora, di alcune specialità bolognesi (tortellini a parte) si può senz’altro fare a meno senza soffrire troppo, e tuttavia è difficile digerire il fatto che le poche cose rimaste a Siena siano meglio dei ventiquattro corsi di laurea umanistici e tredici dottorati che a Bologna esistono ancora, e che quattro borse di studio siano meglio di cinquantasei: corsi e dottorati con tanto di nome e cognome comprensibili dove, per quanto ne so, non insegnano esattamente degli imbecilli.

Ripeto ad nauseam che dalle tabelle esposte in alto a destra, risulta che a Siena entro il 2020 i docenti saranno dimezzati (-500 circa rispetto al 2008; il botto ci sarà nei prossimi due anni), mentre se va bene ne rientreranno poche unità; sicché anche gran parte di quello che a Siena è rimasto, è destinato a venir meno. Se poi la politica è quella di lasciare in vita solo pochissime cose puntando sull’alta specializzazione, perché millantare le magnifiche sorti di un “ateneo generalista” e dare l’illusione di un ventaglio di possibilità che esistono o esisteranno a breve di fatto solo sulla carta? Singolare schizofrenia (e il discorso va ben al di là dei comparti “umanistici”) quella per cui ci ammanta della gloria di qualcosa di cui nei piani di rinascita dell’ateneo si prevede la rimozione: sia promosso affinché sia rimosso.

Perché questa discrepanza fra l’apparenza e la realtà? L’università è una peculiare istituzione dell’Europa medievale, ma oramai dell’antica universitas, come collettività solidale di maestri e allievi, mi pare che nel modello presunto taylorista e fordista dell’università contemporanea (in realtà un grossolano groviglio burocratico che lascia ben poco spazio all’umano) ci sia rimasto ben poco. Sarà forse per l’esorbitante dimensione dell’apparato amministrativo, ma oramai gran parte dell’attività universitaria consiste nel riempire moduli. In essi si solidifica il mito dell’oggettività di certi metodi quantitativi di valutazione. Pensando al progetto più o meno dichiarato di ridurre la maggior parte degli atenei a “teaching universities”, viene il sospetto che per qualità dell’insegnamento si debba intendere sostanzialmente bassa qualità, livellamento standardizzato a certi canoni eterodeterminati.

Sarà che prediligo il “pessimismo dell’intelligenza” al narcisistico sbrodolarsi rovesciandosi addosso elogi a profusione, tipico dei cultori del “marketing”, ma francamente queste statistiche del Censis mi pare che abbiano principalmente l’effetto di nascondere all’opinione pubblica la drammaticità della situazione. Non ripeterò oltre quello che ho già detto nei precedenti messaggi, se non per ribadire che è oramai illusorio attendersi risorse che non verranno, soccorsi dall’esterno che non giungeranno e dunque occorrerebbero decisioni efficaci accompagnate da una visione di lungo respiro, anziché l’attesa di una dolce morte. E questo non vale solo per i settori umanistici. Ma la decisione è un concetto estraneo alla mentalità italiana a tutti i livelli delle istituzioni.

L’idraulico / non verrà. L’impercettibile / passo da scroscio a filo, /a scroscio eluderà / senza fine / la tua mano millimetrata. (C. Fruttero, F. Lucentini)