Rabbi Jaqov Jizchaq. Con riferimento agli argomenti riportati nell’articolo precedente, io soprattutto non ho capito due cose e sarei contento se qualcuno me le chiarisse:
(1) Checché se ne dica o dicano certi organi di stampa compiacenti, l’attuale offerta didattica dell’ateneo non è frutto di una programmazione razionale ponderata in vista di obiettivi chiari, ma è semplicemente ciò che alla massaia è stato possibile cucinare sulla base degli ingredienti racimolati nella sempre più desolata dispensa. Secondo le vigenti norme relative ai “requisiti di docenza”, si tratta di quello che rimane dopo il pensionamento di metà circa del personale docente; per dirla con Don Alfonso: «non può quel che vuole, vorrà quel che può» (Mozart, “Così fan tutte”). Questo ha fatto sì che entrassero in crisi, scomparendo od essendo prossimi alla scomparsa, diversi settori di base, includendo praticamente tutti i settori “teoretici” delle scienze pure: cadono lauree triennali, magistrali e dottorati; si dice che Siena punta tutto sulle “scienze della vita”, ma che vuol dire? E poi è economicamente sostenibile, al giorno d’oggi, un ateneo di dimensioni sempre più piccole, specializzato in alcuni specifici settori? Insomma, sospetto di chi dice “piccolo è bello”. Già hanno spacciato quella che a tutti gli effetti è stata una crisi catastrofica, per necessario, auspicato ed opportuno ridimensionamento (che se Mussari & C. fossero andati a raccontare una frottola del genere al MPS dopo l’affare “Antonveneta”, sarebbero stati sgozzati seduta stante).
(2) Un autorevole membro dell’ANVUR ha tratteggiato il seguente scenario: «quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale.» Il che vuol dire in sostanza trasformare alcune sedi in sedi distaccate dei “grandi hub” della ricerca. Ammesso e non concesso che l’ateneo senese dismetta l’abito “semigeneralista” e trovi le risorse per trasformarsi in qualche cosa di diverso, per niente “generalista”, focalizzato su pochissimi settori per lo più applicativi, con un minor numero di studenti, nonostante le già allarmanti emorragie di questi ultimi anni, se avete cioè deciso di sopprimere, non le scienze del “bue muschiato”, ma importanti aree delle scienze di base, principalmente per mancanza del personale docente richiesto dalla legge, non si capisce cosa intendete farne dei residui. Cioè di chi ancora ci lavora, i brandelli, quello che resta di questi settori in via di dismissione (stiamo parlando di parecchie decine di addetti ai lavori), che per soddisfare le pretese dell’ANVUR, la SUA, il VQR ecc. devono comunque essere ancora scientificamente produttivi. Non è chiaro, un simile scenario, con pezzi di ateneo privi di livelli magistrali, dottorati ed in genere delle forze necessarie per contribuire significativamente alla ricerca, come si possano soddisfare i requisiti che oramai presiedono ai vari meccanismi premiali, tutti basati sulla produttività scientifica e sulla qualità della medesima.
(3) In vista delle “teorie” che circolano e dei movimenti descritti dal prof. Grasso (“regionalizazione”) mi domando se quello che si sta configurando a Siena è un ateneo, una researching university, una teaching university, o una sede distaccata, non dotata di una specifica autonomia. Se comunque in alto loco si è deciso di procedere a una sempre maggiore integrazione a livello regionale tra i principali atenei toscani, come dicono gli psicologi televisivi con aria serena e rassicurante: “parliamone”. Insomma, giù le carte! Difatti non si capisce perché non se ne debba discutere apertamente, non si metta a tema nel dibattito politico e accademico, non diventi anzi questo – date le pesanti implicazioni – il principale argomento e oggetto di negoziazione con le altre realtà; non si comprende cioè perché gli effetti di questa metamorfosi si debbano subire tacendo.
(4) Infine una mesta considerazione sullo stato della nostra democrazia. È consuetudine, oramai, apprendere la direzione che ha preso il corso delle cose “post festum”, quando cioè ne subiamo gli effetti: biblicamente, a vedere solo “le spalle”, cioè le conseguenze delle decisioni di certe recenti imperscrutabili deità burocratiche, senza neppure avere esatta contezza di chi e come decide sulla nostra testa e muove i fili delle nostre esistenze: «Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Esodo, 33, 21-23). Alcuni traducono: «vedrai il mio didietro», ma non è carino.
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p.s. Sempre sullo stesso tema segnalo questo interessante articolo http://www.roars.it/online/noi-disobbediamo/ in cui sono evidenziate alcune inquietanti conseguenze dei processi in corso. Segnatamente:
“La marginalizzazione della “missione” della didattica, da affidare in prospettiva, con l’eccezione di piccole nicchie di eccellenza, alle università di “serie B”, che produrranno laureati “certificati” di serie B e magari trattati come tali, a prescindere dalla verifica delle loro reali capacità e competenze. Praticamente tutti gli incentivi sono stati concentrati sulla qualità dei prodotti della ricerca e se i criteri imposti per la valutazione di questi ultimi sono apparsi subito discutibili quelli infine adottati per assegnare una risibile percentuale dei cosiddetti “fondi premiali” con riferimento appunto alla didattica sono a dir poco imbarazzanti. Risultato: per i professori e per coloro che aspirano a “fare carriera” ogni ora trascorsa al servizio degli studenti rischia di apparire come un’ora di tempo perso…L’obiettivo non è fare bene il proprio lavoro e dare il proprio contributo affinché tutti possano fare altrettanto nella comunità della ricerca, ma lottare con ogni mezzo per stare davanti agli altri. Risultato: una guerra di tutti contro tutti, che, come dimostrano anche l’asprezza e i contenuti del confronto sui criteri e parametri per l’abilitazione scientifica nazionale e il ruolo delle riviste di “fascia A”, non aiuta affatto a combattere le “baronie” e far emergere i talenti e rischia al contrario di rafforzare i gruppi di potere e prepotenza. ”
Comunque la si pensi riguardo all’idea di creare “pochi hub” della ricerca e mandare più o meno in malora tutto il resto, l’unica cosa da evitare, a livello del dibattito pubblico, interno od esterno all’università stessa, sarebbe quella di mettere la testa sotto la sabbia per fingere di non rendersi conto di quello che sta succedendo. Al contrario, cercando di parlare di questi problemi con alcuni colleghi ho registrato, con amarezza, uno spettro di reazioni che vanno dal sorpreso trasecolare, al ritroso, al fatalisticamente rassegnato, allo stizzito, al divertito, al minaccioso, al sarcastico.
Copernico acconsentì alla pubblicazione delle sue teorie, espresse nel “De Revolutionibus” (1543), solo in punto di morte. La stampa del suo manoscritto fu curata da un teologo che però, allo scopo di non urtarela suscettibilità della Chiesa, premise al testo un’introduzione in cui le teorie copernicane erano presentate come semplici “ipotesi matematiche”, prive cioè di significato fisico reale. Facciamo allora così: “si parva licet”, come si suol dire, prendete anche quello che ho scritto io in questi messaggi nella bottiglia, come le teorie copernicane, alla stregua di una sorta di divertissement letterario mal riuscito, una mera “ipotesi” pseudomatematica, forse desunta dalla teoria delle catastrofi.
Evidentemente ho sognato: “tout va pour le mieux dans le meilleur des mondes possibles”, trionfa l’eccellenza, “si sopprimono solo le cose e le persone inutili. Che, com’è del resto noto, sono molte: publish… and perish”. In ogni caso non è opportuno immischiarsi. Ottimismo e fiducia nel grande timoniere. La discutibile abolizione delle “facoltà” (con il caos che ne è conseguito), la nascita di corsi di studio e strutture pseudodipartimentali disomogenee, entità affette da endemica carenza di personale docente, con gente che oramai insegna di tutto un po’ e la cui stessa denominazione sovente è intraducibile nel lessico scientifico internazionale, ha veramente semplificato le cose?
Ogni due per tre si disfano i corsi di studio e magari si rimaneggiano pure i dipartimenti per manifesta insostenibilità. Nessuno si preoccupa del senso, del respiro, dell’orizzonte culturale di certe operazioni; ad ogni nuovo aggrovigliato e voluttuoso “accorpamento” si fa seguire una nota giustificativa la quale immancabilmente chiama in causa la pressante attualità delle collaborazioni interdisciplianari, volgendo retoricamente in positivo ciò che è dettato dalla mera necessità di racimolare i numeri per soddisfrare i requisiti di legge, ribattezzando cioè la fame atavica, un “vivace e sano appetito”. Alla fine ritorneranno alle vecchie “facoltà”: i pianeti e le stelle, i cieli, ritorneranno al punto di partenza e tutto ricomincerà nuovamente come nell’ “Anno perfetto” di Platone, dopo il quale tutta la volta celeste torna uguale: ma in realtà per strada avremo lasciato tante vittime e chi giungerà, stanco, alla meta, che poi non sarà altro se non il punto dal quale era partito, non è detto che sia il migliore:
“All’ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa
e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora:
chilli che stann’ a dritta vann’ a sinistra
e chilli che stanno a sinistra vann’ a dritta:
tutti chilli che stanno abbascio vann’ ncoppa
e chilli che stanno ncoppa vann’ bascio
passann’ tutti p’o stesso pertuso:
chi nun tene nient’ a ffà, s’ aremeni a ‘cca e a ‘ll à”
P.S. Leggo su un quotidiano:
“Sono 26 gli atenei italiani presenti nel QS World University Rankings 2015, la classifica delle migliori università del mondo. Il Politecnico di Milano 187°, Siena 471°”.
Siena è, in buona sostanza, ventiduesima tra le italiane,
secondo Quacquarelli Symonds, che non è uno scioglilingua dell’agente Catarella del commissariato di Vigata. Non male, se si pensa che nello Stivale ci sono una novantina di atenei ed ateneuzzi, ma non è il millantato primato esaltato dalle gazzette. Comunque, chi di ranking ferisce, di ranking perisce. Ecco altre notizie da quella che a mio modestissimo avviso è rimasta l’unica fonte nazionale attendibile sui temi universitari, e cioè il sito ROARS http://www.roars.it/online/chi-crede-alla-classifica-qs/:
“Secondo la classifica Quacquarelli Symonds (QS) a Siena sarebbe successo qualcosa per cui in un anno si sono perse 220 (duecentoventi) posizioni in classifica. Ma anche Pavia e Torino sono crollate di oltre 150 posti uscendo dalla top-500; hanno perso oltre 100 posizioni Pisa, Tor Vergata, Federico II di Napoli, Cattolica di Milano, Genova, Perugia e Bicocca. Il tracollo è semplicemente dovuto al fatto che QS ha cambiato la metodologia con cui è costruita la classifica. Hanno guadagnato posizioni solo i Politecnici di Milano e Torino, come previsto da Richard Holmes oltre un mese fa, quando fu diffusa la notizia del cambio di metodologia. ”
Ora, che Siena abbia perso duecentoventi posizioni mi pare una stupidata; personalmente diffido a priori delle classifiche, anche quando portano doni e acutamente anche l’articolista di ROARS segnala che la caduta è dovuta principalmente al cambio di metodologia, invitando pertanto, con ragione, a prendere cum grano salis il suddetto Quacquarelli e a non accogliere queste classifiche come tavole mosaiche della Legge, ma tant’è: non è che si può citare il Quacquarelli solo quando fa comodo.
Ma alla fine della fiera, qual’è l’obiettivo che ci si pone, inseguendo le classifiche, quello di gareggiare con atenei come Harward, che con l’intero bilancio di Siena ci comprano forse la carta igienica? Una battaglia navale fra un ghiozzo e una corazzata? E come intendono gareggiare gli atenei italiani, eccetto quelle poche grandi università del Nord contemplate dai ranking internazionali, continuando a sopprimere lauree magistrali, dottorati, ad accorpare, a creare corsi di studio e dipartimenti dai nomi intraducibili in inglese, che non corrispondono a niente nella classificazione internazionale delle scienze, con ciò manifestando un provincialismo che fa a cozzi con le velleità di internazionalizzazione?
Dall’ANVUR vengono questi propositi belluini: “avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale.” http://www.roars.it/online/il-pericoloso-percorso-a-ostacoli-che-porta-alle-universita-di-eccellenza/comment-page-1/ Fatto sta che non è chiaro come potrà un ateneo emanciparsi dallo stato di minorità: come il Barone di Münchhausen dovrà uscire dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli? Che vuol dire “autonomia” in questa cornice, quando è evidente che le “teaching universities” si troveranno in una posizione ancillare, sedi territoriali distaccate, degli atenei votati alla ricerca?
Capisco che a Siena veniamo da anni difficili, ma esiste al mondo un ateneo che non fa reclutamento da quasi dieci anni e nondimeno ritiene di potersi collocare al top della ricerca (“Le grandi scoperte le hanno sempre fatte i giovani”, scriveva anni fa Margherita Hack)? Noto due tendenze contraddittorie: da un lato, ce ne freghiamo della didattica, inseguendo i “ranking” dell’eccellenza nella ricerca con i pochi mezzi che abbiamo; dall’altro con la scomparsa dei livelli specialistici di interi settori di base, la loro sopravvivenza solo a livello di diplomi triennali, si è sancito di fatto che buona parte del l’università di Siena si debba ridurre ad una “teaching university”: ma può esistere un ateneo per metà orientato verso le vette dell’eccellenza e per l’altra metà destinato ad incarnare il modello dei “colleges” della provincia americana?
Alla fine, quando questi famosi ranking daranno un voto all’ateneo, che qualcuno paventa debba essere riportato anche sul diploma di laurea, faranno una media trilussiana tra l’eccellente ed il pessimo? E chi ha deciso chi va di qui o di là, nella ricerca o nella didattica, visto che in ciò le valutazioni individuali, il contributo scientifico e didattico dei singoli non contano una beneamata mazza, ma contano solo la jattura dei pensionamenti che sguarniscono interi settori e movimenti politici più o meno occulti che sovrastano la consapevolezza e l’effettivo valore delle persone interessate?
P.S. è uscita anche la classifica del Times higher education https://www.timeshighereducation.com/world-university-rankings/2016/world-ranking#!/page/0/length/50. Qui Siena viaggia tra il quattrocentesimo e il cinquecentesimo posto, trentaduesima fra le italiane. Cioè a dire chiude il primo terzo del totale degli atenei italiani, che vede in cima i pisani del Sant’Anna e della Scuola Normale Superiore (mentre Unipi non riscuote gran successo). Non è malaccio, ma neanché motivo di esultanza. Per la ricerca Siena riceve 17 punti (due punti in più di Catania, un punto in meno di Pisa). “Ossforde” ne riceve 98,9. Voglio dire, ma che senso hanno queste classifiche? Pensate che sia mai possibile, riducendo le risorse, dimezzando il corpo docente, mettendo in piedi corsi e dipartimenti pasticciati, bloccando l’ingresso di giovani leve per dieci lunghissimi anni, tentare di avvicinare anche lontanamente gli standard di quegli atenei che svettano in cima alle classifiche internazionali? L’università di Trento, che risulta in cima alla classifica delle italiane, riceve per la ricerca 27 punti; il Politecnico milanese 31 punti: per portare cinque o sei atenei al livello di “Ossforde” bisognerebbe chiudere una quarantina di atenei italiani ed utilizzare le risorse per reclutare un plotone di premi Nobel: è questo il progetto? E i restanti atenei a che serviranno? CHi li frequenterà?
Leggo sul sito ROARS http://www.roars.it/online/giorgio-isarel/ la notizia della scomparsa del matematico Giorgio Israel, collaboratore di quel sito. In un suo intervento aveva scritto:
“Tutte le grandi scoperte scientifiche che hanno cambiato il volto del mondo – a partire dal computer digitale – sono frutto di idee teoriche, fondate sulla “scienza di base”. Un grande ingegnere come Leonardo da Vinci ammoniva: «Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza. Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada».”
E poi ancora sulla oziosa ed inattuale guerra fra “umanisti” e “scienziati”:
“la sciagurata diatriba tra le due culture danneggia entrambe. Nella furia di distinguerle, le scienze vengono separate dalla cultura e pensate come mere abilità pratiche, predicando che solo ciò che ha un’utilità diretta vale qualcosa. ”
Non saprei immaginare commento più appropriata al processo che ho cercato di descrivere nei precedenti messaggi. Qui, nella grettitudine dilagante, se uno sa fare 3 x 7=21, allora è uno scienziato che si sporca le mani con le dimostrazioni, esposto pertanto al rischio di conseguire qualche infezione. Se poi uno è scovato a leggere un libro, sia Omero o Nabokov, o a suonare un qualsiasi strumento aerofono o cordofono, allora ipso facto è qualificato come un inutile umanista: uno che non immagina neppure cosa sia un bosone o uno spazio vettoriale. Uno immaginato costantemente intento ad esprimersi in rima: fra i batraci eccovi il rospo/brutto eppur utile anfibio/nelle prode sta nascospo/al vederlo tremo e allibio (Primo Levi). Non ci sono più intellettuali o scienziati, ma tecnici e professionisti inscatolati nel proprio settore disciplinare. La cultura e la scienza non sono però affare di scatolame. Dubito che da questo mix di arroganza e di ignoranza (una rima baciata) che in altri termini si chiama PROVINCIALISMO esca qualcosa di valido. L’università era un’altra cosa.