Proprio per l’impossibilità di fronteggiare i pensionamenti, a Siena non solo la ricerca ma la stessa didattica è in crisi nera

OmbraRabbi Jaqov Jizchaq. (…) meno nobile della citazione di Michelstaedter; meno icastico dell’eloquio del conte Mascetti, il mio discorso insiste pedantemente sul punto:

1) «La prima missione dell’università è la didattica, ma sembra proprio che ce ne siamo dimenticati. L’affastellarsi incoerente di leggi, di provvedimenti, di regole e prescrizioni di ogni tipo la stanno infatti relegando in un angolo, rendendola sempre meno centrale ed efficace e sempre più difficile da decifrare, aggiornare e innovare.» (A. Stella)

Scusate se commento il brano citando nuovamente Galli della Loggia, ma i suoi due interventi recenti sul Corriere della Sera intorno a quest’argomento mi pare che centrino perfettamente il problema. Soggiungo che in questa problematica, Siena è immersa fino al collo anche per un surplus di disgrazie locali, e non odo risposte o proposte, né dall’attuale rettore, né dai candidati futuri rettori. Non si dice Sì-Sì o No-No, ma al massimo qualche ecumenico ed elettoralistico “ma anche“. Per quanto la sopravvivenza dell’ateneo investa il destino della città (della cui economia l’università rappresenta una gamba), tacciono i media e il mondo politico, tranne che per dar luogo, di tanto in tanto, a polemiche sterili o autoincensamenti inopportuni. Ma in definitiva il partito prevalente è quello dei fatalisti.

Il Rettore dice che nonostante la fuoriuscita di circa 500 docenti (uno su due) il rapporto docenti/studenti a Siena è ancora alto. Che dire? Tra breve avremo un terzo del corpo docente di Pisa o di Firenze. Se non ti è bastato di tramortirli, allora ammazzali e buonanotte! Un cupio dissolvi. Certo è che se continui a perdere studenti a migliaia e a chiudere corsi di laurea a decine, i docenti saranno sempre “troppi”: al limite, puoi fare a meno di tutti i docenti, semplicemente chiudendo l’università e dandoti finalmente all’agricoltura (già tremano gli ortaggi). Non so che cosa ne farai dei 1000 amministrativi (il doppio all’incirca dei docenti), ma se fossi il sindacato mi preoccuperei fortemente, anziché assecondarli, udendo certi discorsi intorno ad un ateneo ulteriormente ridimensionato. Gli anni passati sono stati caratterizzati da uno sfruttamento nero di giovani docenti, spesso poi non stabilizzati (di quelli capitati in questo decennio, nessuno lo è stato), dichiarati anzi oramai “vecchi” e dimenticati al grido ipocrita di “largo ai giovani!”, cioè a truppe fresche pronte per essere a loro volta immolate. Una generazione polverizzata. In questo gerontocomio dove i “giovani” sono “quarantini” o “cinquantini” (per dirla alla Montalbano) non entra di ruolo un cane da dieci anni: come si fa a dire che i docenti sono ancora troppi?

2) A proposito della strisciante trasformazione di molti atenei di media dimensione (specie meridionali) in “teaching universities”, onde favorire “pochi hub” della ricerca, dapprima il professor Galli della Loggia si chiede: «paradossalmente ciò sta avvenendo senza che nessuno lo abbia discusso veramente. Senza che nessuno abbia discusso la questione cruciale. Vale a dire: che cosa si deve fare del sistema universitario italiano? Come deve essere? Puntare su poche sedi già oggi in buona posizione per cercare di farne dei veri centri di eccellenza di livello europeo può essere giusto, ma che fare allora delle altre e quali caratteristiche queste debbono avere?».

L’Anvur si fa arbitro di distinguere fra teaching e researching universities: «ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa».

Nel mio piccolo mi chiedo se non vi sia un circolo vizioso nel praticare una politica che premia grossi atenei principalmente in base all’ammontare dei prodotti della ricerca, destinando con ciò per sempre molte sedi minori ad “università d’insegnamento”, cioè sedi distaccate di grossi atenei, sol perché, appunto, inevitabilmente, sfornano meno “prodotti”. Difatti non è chiaro come possa competere in assoluto, anche sul piano della mera quantità, e dunque trovare risorse sufficienti per emanciparsi e crescere, un ateneo come Siena che, pur avendo ricevuto in passato buone valutazioni, si avvia a perdere metà degli addetti alla ricerca e ad avere mille ricercatori in meno rispetto a Pisa o a Firenze. Diconsi mille, che se anche ciascuno sforna un articolo all’anno, sono nel quadriennio della VQR quattromila “prodotti” sfornati da ciascuno dei nostri ingombranti vicini da aggiungere al paniere.

È evidente che il contentino per essere stati, nonostante tutto, bravini, nei settori non ancora spazzati via dalla crisi, è di per sé insufficiente per ribaltare la sorte: non c’è partita, e mi domando quanto tempo passerà prima che il piccolo satellite venga definitivamente risucchiato dalla forza d’attrazione dei grandi pianeti a lui vicini. Più che una valutazione, questa distinzione fra sommersi e salvati sembra dunque essere una decisione presa a priori, una sorta di predestinazione calvinista parto di menti imperscrutabili e onnipotenti, e l’appello ai risultati della VQR, appare dunque soltanto un espediente retorico. Siena, nonostante le soddisfacenti performances nella ricerca, in questa cornice, pare destinata a diventare qualcosa che nell’idioma italico, accantonando per un attimo gli anglicismi, non so tradurre se non come “sede distaccata”. Ma può esistere un ateneo per metà “teaching” e per metà “researching” dove la prima metà costituirebbe un’insopportabile zavorra per la seconda metà? E i settori votati alla ricerca ripiegano definitivamente sull’insegnamento sol perché vanno in pensione i docenti? Sarebbe questa la misura dell’eccellenza?

3) Inoltre, in numerosi suoi comparti, proprio per l’impossibilità di fronteggiare le massicce uscite di ruolo, a Siena non solo la ricerca, ma la stessa didattica è in crisi nera: mi pare un autentico circolo vizioso. È curioso come la svalutazione della didattica si accompagni, in modo contraddittorio, col proposito di riduzione di gran parte degli atenei medio-piccoli a “teaching universities“: la didattica intesa perciò come cattiva didattica, in quanto punizione, una didattica dequalificata, frutto di un castigo, da somministrare evidentemente a chi non ha soldi o voglia per migrare verso gli atenei maggiori? Cose ‘e pazz’…. sembra che la didattica non abbia bisogno di risorse e competenze. In un successivo e già citato intervento, Galli della Loggia riassume così il processo che vede la progressiva marginalizzazione di tutti i comparti che, per intenderci, ho chiamato “teoretici” e delle scienze pure (quelli che qui a Siena chiamano “la cultura”): «Detto in breve, dall’insegnamento universitario – e quindi prima o poi anche dall’intero universo di capacità conoscitive e di studio degli italiani – dovrà scomparire innanzi tutto il passato. L’Italia non dovrà più interessarsi di alcun aspetto del mondo che abbiamo alle spalle, dei suoi eventi, delle sue idee, delle sue produzioni artistiche. Ma non solo. Dovrà farla finita anche con una buona parte di quei saperi astratti come la filosofia, la matematica, o con altre scienze esatte non sufficientemente utilizzate dall’apparato produttivo.»

Questo processo, specialmente in ordine a quelli che Galli definisce i “saperi astratti”, è visibilissimo anche a Siena, ateneo che ha sostanzialmente deciso di farne a meno, compattandosi (volente o no, con l’uscita di ruolo di un professore su due) attorno ad alcuni settori di carattere eminentemente applicativo. Anche i cultori improbabili del “piccolo è bello” dovrebbero dire allora, senza infingimenti (“ahhh! A noi ci interessa tanto, ma tanto la cultura!”):

a) quali settori s’intendono portare avanti per un ateneo fatto solo di poche “eccellenze”.

b) una volta presa la decisione, che non discuto, cosa farne di chi, pur non essendo individualmente un idiota, lavora in altri settori rimasti sguarniti e perciò stesso destinati all’abbandono, atteso che tutto ciò con la “meritocrazia” ha poco a che vedere, e che la vita di decine di persone non è nella disponibilità di un Rettore (presente o futuro).

Ricordo che anche in questo blog taluni sostennero illo tempore che la fuoriuscita di circa 500 “vecchi” avrebbe fatto largo finalmente ad altrettanti giovani: non si rendevano conto, tapini, che essa preludeva semplicemente alla soppressione di circa 500 insegnamenti e altrettanti posti di lavoro. Sarà grasso che cola se in futuro ne verranno recuperati il 10% (ma ne dubito). Dieci anni di congelamento di turnover e carriere hanno fatto fuori buona parte di quella generazione che avrebbe dovuto costituire il ricambio dei “vecchi”. C’è da esserne fieri.

Sarei contento se i candidati rettori mi spiegassero dove sbaglio.

4 Risposte

  1. ” nel 1892 il ministro della Pubblica istruzione Ferdinando Martini propose il progetto di soppressione dei piccoli atenei, tra i quali quello senese. La proposta fu subito contrastata da uno sciopero generale dei commercianti, dall’intervento di tutte le istituzioni cittadine e da veri e propri moti popolari, che indussero il ministro a ritirare il progetto.”

    Notare la differenza coi nostri tempi bui: oggi della sorte dell’ateneo tutti se ne stracatafottono, altro che moti popolari o indignazione dei commercianti! Manca la tensione etica, l’apertura mentale. Il politico alla moda finge di prendere le distanze e somministra al popolo clisteri di retorica: del resto ho già sottolineato come all’indomani della scoperta del “buco”, politici di tutte le razze identificavano come unica medicina quella del taglio dei posti di professore e ricercatore.

    Cerco di essere più preciso e come disse un papa, “se sbaglio, mi corigerete”: nel 2008 a Siena c’erano 68 triennali e 46 magistrali (più qualche laurea a ciclo unico): “troppe!”, si diceva, non senza ragione. Se ne reclamava la chiusura di alcune: “le scienze del bue muschiato”; ebbene, adesso vi sono 30 triennali e 28 magistrali (vd. http://offf.miur.it/pubblico.php/ricerca/ricerca/p/miur), diverse delle quali piuttosto mal messe, frutto di accorpamenti e destinate ad essere soppresse nei prossimi anni con il prosieguo dei pensionamenti e la perdita prevista di un altro centinaio di docenti.

    Del resto se certi corsi sono destinati a sopravvivere ancora per un lasso di tempo con accanimento terapeutico, come simulacri di quello che furono, allora è meglio l’eutanasia. Ad essere entrate in crisi non sono necessariamente “le scienze del bue muschiato”, ma alcune scienze di base e corsi non proprio inutili, da ogni punto di vista. Se anche rientreranno una manciata di docenti, il quadro non cambia, considerando che dal 2008 se ne sono persi già all’incirca 400.

    Avevamo oltre 22.000 studenti e adesso, dice il Rettore, ne abbiamo 15.775 http://anagrafe.miur.it/php5/home.php. Dice il Rettore che questo pesante ridimensionamento per Siena costituisce la “dimensione naturale”. Eh, già, così è, se vi pare. Uno torna da Auschwitz e dice: “questo è il mio peso-forma”. Ma “naturale” in che senso? Cos’è “naturale” per Siena? Cortesemente, gradirei ricevere qualche delucidazione riguardo a questa valutazione. Poi non so cosa induca a pensare che il dato si sia consolidato e non sia destinato a scemare ulteriormente. Insomma, che precipitando dal grattacielo, si sia “finalmente” toccato il suolo.

    Ci avviamo ad avere un terzo dei docenti di Pisa o di Firenze e per giunta mal distribuiti un po’ a casaccio: un gerontocomio, semplicemente quello che resta dopo i pensionamenti di quasi la metà di costoro, non quello che serve per portare avanti un progetto ben definito. Ma cosa intende il Rettore quando dice che “entro il 2016 entreranno a Siena circa 130 fra nuovi docenti e nuovi ricercatori” http://firenze.repubblica.it/cronaca/2016/03/16/news/riccaboni_siena_quest_anno_entreranno_130_fra_docenti_e_ricercatori_-135733876/ ? In realtà, se sono di ruolo, non sono nuovi (si tratta di avanzamenti di carriera) e se sono nuovi, non sono di ruolo (si tratta di contratti, anche se alcuni, sperabilmente, in futuro, convertibili in posti di ruolo).

    E ripeto che non capisco come, con una massa così ridotta, si possa sfuggire all’attrazione dei grandi poli regionali. Perdendo altri 5000 studenti, inoltre, Siena verrà inclusa nel novero dei vituperati “piccoli atenei” (cioè quelli intorno ai 10.000 studenti) dei quali da più parti si reclama la chiusura e che paiono incompatibili con i succitati progetti dell’ANVUR e della politica. Non solo quella di governo. Leggo infatti nel blog di Beppe Grillo:

    ” I piccoli atenei (costosi e poco efficienti) dovranno chiudere e quel risparmio potrà essere investito per creare case dello studenti presso pochi, efficienti, grandi atenei.” http://www.beppegrillo.it/listeciviche/forum/2013/03/universita-una-proposta-per-mettere-alle-strette-i-laureifici.html
    In effetti a questi lumi di luna mi pare sia opinione ampiamente condivisa che i piccoli atenei sotto i 10.000 studenti siano una spesa insostenibile. Soprattutto mi pare che molti italiani, non insensatamente, non la vogliano sostenere, trattandosi in larga misura di diplomifici e stipendifici per parenti o famigli delle nomenklature locali.

    Porsi questi problemi mi pare lecito, se non addirittura doveroso, e un chiarimento appare non più procrastinabile. In tutt’Italia se ne parla. A Siena no; pare peccaminoso e inopportuno parlarne. Di certo da queste parti non ti fai degli amici, sollevando il discorso, nel “tempio del libero pensiero”. Sicché, nonostante l’afflato e i buoni propositi, il destino pare essere già stato tracciato e nonostante il linguaggio 2.0 degli eredi del ministro Ferdinando Martini, il proposito appare oggi lo stesso, quando dicono che sopravviveranno “pochi hub” propriamente definibili come “università”, mentre gli altri saranno ridotti a “teaching universities”, cioè sedi distaccate; ma non hanno il coraggio di ammetterlo, e non certo perché temano l’insurrezione popolare a difesa del “culturame”.

    Ma non si può continuare a dire una cosa e a farne un’altra, predicando l’espansione, ma praticando la contrazione. Un po’ il contrario del Mefistotele di Goethe, che desiderava eternamente il male, e tuttavia “a sua insaputa” operava eternamente il bene: “Ein Teil von jener Kraft, die stets das Böse will und stets das Gute schafft”.

  2. Mi sembra tutto chiaro. I rettori stanno lì per rottamare. Sono liquidatori, schienepiegate e leccascarpe. Non so bene cosa ricevano in cambio di tutto questo: un conto a Panama? Ma sono così servi che forse lo fanno aggratis …

    • “Siena, targa in memoria di Cesare Brandi al civico 90 di via di Città”

      Quello che più manda in bestia, è quando Lorsignori dicono: “Siena punta tutto le scienze della vita…e poi cultura e turismo”. La cultura come turismo: già mi immagino Martin Heidegger, rettore di Friburgo, nel suo noto discorso di rettorato “La quadratura in sé stessa dell’Università tedesca”, far propria questa equazione: cultura=turismo (“guidati dall’inesorabilità di quella missione spirituale che ingiunge al destino del popolo tedesco di congiungersi con l’impronta della propria storia” :-).
      Sembra quasi che tutto ciò che non è immediatamente riconducibile alle scienze della vita (dalla fisica particellare alla filologia romanza, dalla topologia alla grammatica generativa) sia ora rubricabile sotto la voce “turismo”. Pensando all’astrofisica mi viene in mente “The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy”.

      Ma che cultura ha, se ci crede veramente (e se non è solo un modo per liquidare elegantemente metà dell’ateneo), chi ragiona così? Si rendono conto di aver inaugurato una targa a Cesare Brandi e contemporaneamente affossato il suo progetto che vedeva il SMS agire in sinergia con l’Università nell’alta specializzazione storico-artistica? Sono fenomeni paranormali di provincialismo. Non so bene cosa sia la “cultura” per Lorsignori, ma la Cultura credo che sia qualcosa che non abita più qui. La fiera delle cazzate non è “cultura”.

      Il retropensiero inquietante che si affaccia, udendo certi ragionamenti, è che non si stia parlando di un ateneo, con tutta la sua complessità, ma di qualcosa d’altro: taluni, nobilmente, parlano di un relais esclusivo, un centro altamente specializzato in alcune (pochissime) discipline. Non è chiaro con quali mezzi. Altri, meno nobilmente, di una “teaching university” fatta principalmente di lauree triennali: in entrambi i casi, poiché non si dà università senza livelli specialistici, né è chiaro come si possa di questi tempi pensare ad un piccolo ateneo ultra-esclusivo al top dei ranking universitari mondiali, senza il becco di un quattrino, quello che si configura è un destino di sede distaccata di qualche cosa di più grosso.

      Per favore, confutatemi!

  3. […] accadrà in altri atenei ricchi e virtuosi, aumentando così il divario). Questo ha significato una riduzione notevole dell’offerta formativa e della mole di ricerca. In buona sostanza l’ateneo senese è stato […]

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