La valutazione della qualità della ricerca «è una questione squisitamente politica: non è il conflitto che dobbiamo temere, ma l’indifferenza, la pigrizia e la rassegnazione»

Stefano Semplici

Stefano Semplici

Università, la battaglia della VQR. Professori divisi sulla valutazione (Da: Il Corriere della Sera, 16 gennaio 2016)

Stefano Semplici. L’opinione pubblica non si interessa e non si interesserà dell’esercizio di valutazione della qualità della ricerca 2011-2014, dal quale dipenderà una fetta consistente del finanziamento delle nostre università. È una questione fitta di algoritmi, indecifrabili acronimi e bizantinismi incomprensibili, destinata a rimanere un rito misterico per gran parte degli addetti ai lavori. Chiarissimi saranno però i risultati: classifiche certificate dall’autorità del Direttivo dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, supportato dalla competenza e professionalità dei Gruppi di Esperti della Valutazione all’uopo costituiti. Il fine, in questo caso, sembra davvero giustificare ogni mezzo e ogni tecnicismo: il merito e l’eccellenza verranno finalmente riconosciuti e premiati; l’osceno nepotismo di una casta di privilegiati superpagati abituata a usare il denaro pubblico per i propri interessi sarà rottamato una volta per tutte; i fannulloni incapaci di reagire perfino alle dure penalizzazioni e alla gogna pubblica previste da questa competizione verranno infine messi in condizione di non nuocere.

Cosa potremmo chiedere di meglio per avere finalmente anche in Italia una «buona» università? Chi si oppone, di conseguenza, non è semplicemente un gufo o un rosicone. Può essere solo un «barone» o un servo di baroni, che merita di essere trattato, nella migliore delle ipotesi, come gli stolidi oppositori delle riforme, tutti liquidati come zelatori dell’ormai improponibile bicameralismo perfetto. Nel «nuovo» che avanza possono esserci – è vero – limiti, imperfezioni e perfino ingiustizie. Ad essi si potrà sempre porre rimedio. L’importante è aver tracciato la rotta.

All’opinione pubblica, ai nostri studenti e alle loro famiglie non chiedo di sapere cosa siano i «metadati bibliografici del prodotto, inclusi gli identificatori ISI WoS e Scopus» o di interessarsi della questione cruciale della «identificazione dell’addetto alla ricerca cui il prodotto è associato tramite il suo identificativo ORCID» (cito dalla versione definitiva del Bando di partecipazione alla VQR 2011-2014). Vorrei però che si aprisse almeno qualche spazio per chiarire che la protesta contro la VQR che si sta diffondendo nelle università italiane non è l’azione corporativa di professori che rifiutano di essere valutati. Sono i soldi dei cittadini a mantenere la libertà della scienza e del suo insegnamento e i cittadini hanno il diritto di sapere che questi soldi sono spesi bene. Questa protesta è anche responsabile, perché non ha colpito e non colpisce gli studenti.

Ciò detto, occorre riconoscere onestamente l’esistenza di due diverse faglie di conflitto, che in parte si sovrappongono e che occorre tuttavia tenere distinte. La prima corrisponde ad un conflitto dei professori con il governo per una rivendicazione legittima e chiaramente circoscritta. Il blocco degli scatti di anzianità, che costituiscono una parte rilevante del trattamento economico dei docenti universitari, così come degli altri lavoratori del pubblico impiego, è stato applicato in questo settore in modo differenziato e prolungato rispetto a tanti altri e nessuno si è mai preoccupato di spiegare quali fossero le colpe meritevoli di quella che molti percepiscono, oltre che come una punizione incomprensibile, come una lesione alla dignità del proprio impegno e del proprio lavoro. Questo è il vettore della protesta intorno al quale si è raccolto il consenso più ampio: l’astensione dalla VQR, in questa prospettiva, è uno strumento che non contesta, almeno apertamente e in linea di principio, la sua natura, i suoi obiettivi e l’uso che viene fatto dei suoi risultati.

C’è però una protesta che ha un fine diverso e che riguarda il rapporto fra le modalità con le quali la valutazione è stata introdotta in Italia e la missione dell’università. Anche questa è certamente una protesta contro il governo e contro il parlamento. Essa è però al tempo stesso – e bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome – il risultato di un conflitto fra professori. In gioco, in questo caso, c’è proprio il rifiuto di «queste» modalità di valutazione della loro attività (e non – lo ripeto ancora una volta – di una valutazione trasparente e rigorosa, a partire dal controllo del rispetto da parte dei docenti dei loro doveri nei confronti degli studenti), a causa degli effetti che esse hanno prodotto e che sono stati così riassunti in una petizione che ha già raccolto alcune centinaia di firme: «una politica di progressiva riduzione delle già scarse risorse coperta dalla parola d’ordine del merito; l’erosione del diritto allo studio e l’esasperazione di insostenibili squilibri fra le diverse aree del paese; la ricerca dell’eccellenza contrapposta al dovere dell’equità; la competizione con ogni mezzo contrapposta alla solidarietà e alla collaborazione che dovrebbero caratterizzare la vita dei nostri atenei; la mortificazione dell’impegno nella didattica come pilastro irrinunciabile della “missione” dell’università».

Sono professori i membri del Direttivo dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca. Sono quasi tutti professori i componenti dei Gruppi di Esperti della Valutazione. Molti saranno i professori fra coloro che giudicheranno il lavoro dei colleghi attraverso il meccanismo della peer review (sapendo chi stanno giudicando, mentre il giudicato non saprà chi gli ha dato il voto). Se la VQR si farà, di conseguenza, le ragioni di alcuni professori avranno «vinto» su quelle dei loro colleghi. È naturalmente possibile che non esista la relazione di causa ed effetto fra «questa» VQR e i fenomeni che ho ricordato o che sia ragionevole ritenerli, almeno a piccole dosi, il prezzo che è inevitabile pagare per aumentare l’efficienza e la qualità del sistema. Quello che non è possibile è liquidare questi punti come preoccupazioni da addetti ai lavori e rifiutare un confronto aperto e pubblico su di essi. Perché su tutti e in primo luogo sui nostri giovani ricadranno le conseguenze di queste scelte. Ecco perché la questione è squisitamente politica. Non è il conflitto che dobbiamo temere, ma l’indifferenza, la pigrizia e la rassegnazione.

Ormai la prima missione dell’Università, la «didattica», ha un ruolo marginale e disincentivato

StefanoSempliciLa Buona Università? Deve puntare sulla didattica, non solo sulla ricerca (Corriere della Sera, 27 aprile 2015)

Stefano Semplici. La «buona università» ha certamente bisogno di più risorse e professori. E la retorica a buon mercato sul «sapere come risorsa strategica per lo sviluppo» rende solo più dolorosa la cruda evidenza dei numeri. Tutte le graduatorie internazionali ci vedono malinconicamente agli ultimi posti fra i paesi più avanzati per gli investimenti in istruzione terziaria. Fra il 2007 e il 2015 il numero dei docenti ordinari delle università italiane è sceso da poco meno di 20.000 a poco più di 13.000. Dove vogliamo fermarci? Per quanto tempo ancora gli sprechi e le inefficienze di alcuni (o anche di molti) saranno utilizzati come un pretesto per soffocare tutti, mentre i nostri giovani migliori se ne vanno, portando con sé buona parte delle speranze della loro generazione?

Darwinismo accademico. Su due punti, tuttavia, sembra impossibile anche solo aprire un confronto. E forse non è un caso, perché si tratta del risultato di scelte perseguite con granitica coerenza in questi ultimi anni da maggioranze molto diverse. Il darwinismo accademico e la didattica senza merito sono ormai subiti come la conseguenza inevitabile della cultura della valutazione, della qualità e dell’efficienza. Si può provare almeno a dubitare che siano strumenti indispensabili per raggiungere quest’obiettivo, ovviamente condiviso? Gli effetti della competizione esasperata fra singoli ricercatori, dipartimenti e atenei sono noti, a partire dai comportamenti opportunistici finalizzati a massimizzare l’impatto del proprio lavoro nel breve periodo, prosciugando i talenti e la passione del pensare lungo. Le classifiche che mettono in fila le università sono diventate un’ossessione mediatica e le regole che le producono, oltre a generare le più incredibili vessazioni burocratiche, alimentano la convinzione che l’obiettivo fondamentale da perseguire non sia quello di fare bene il proprio lavoro aiutando gli altri a fare lo stesso, ma quello di sopravanzarli in qualche modo ed essere «premiati». Si dimentica così che la vera alternativa non è fra produttivi e sfaccendati, perché nessuno difende ovviamente i secondi, ma fra quanti ritengono che una seria valutazione serva appunto a premiare e punire (con il risultato che diventerà sempre più difficile, per chi è rimasto indietro, recuperare) e quanti sono invece convinti che le stesse punte di eccellenza abbiano bisogno per sostenersi di una base ampia e solida di metodologie e buone pratiche condivise. Una qualità media dignitosa e diffusa sul territorio è sempre stata la caratteristica del nostro sistema e questa ricchezza, la cui difesa non è incompatibile con la valorizzazione dei migliori risultati, rischia di andare perduta. Ne è prova il fatto che cresce il numero dei giovani del Mezzogiorno che vanno a studiare lontano da casa. È stato un errore grave quello che ha portato a dare a ogni campanile la sua università. Ma siamo sicuri che lo Stato si debba adesso limitare a certificare i risultati di una lotta senza quartiere, che sta portando alla desertificazione universitaria di intere aree del paese?

Didattica senza merito. La didattica senza merito è la conseguenza di una politica universitaria che ha ancorato in modo ossessivo la valutazione ai soli «prodotti» della ricerca, riducendo di fatto la «prima» missione dell’università ad un ruolo marginale e sistematicamente «disincentivato». La stessa proposta di differenziare researching e teaching universities è stata declinata come uno strumento di gerarchizzazione delle funzioni, mentre si stratificavano interventi normativi a senso unico. La didattica e la capacità di insegnare non contano ai fini della carriera accademica. Lo stabiliva già la legge Gelmini. La didattica non conta neanche per chi è diventato professore: le politiche di reclutamento del personale da parte degli atenei sono valutate in base ad una serie di criteri fra i quali non figura la qualità dell’insegnamento, mentre spicca al primo posto la produzione scientifica. E sulla base di quest’ultima viene assegnata la quasi totalità della «quota premiale» del Fondo di Finanziamento Ordinario delle università. Non c’è bisogno di insegnare, insomma, per essere buoni professori. E si possono esonerare i migliori dal dovere della trasmissione del sapere che contribuiscono a produrre, perché tanto «si troverà qualcuno da mandare in aula». Se non si corregge questo paradosso, sarà molto difficile trovare la strada della buona università. E non basterà un altro Jobs Act. Che comporta per inciso, come dovrebbe sempre aggiungere chi lo propone come rimedio anche in questo settore, la possibilità del licenziamento senza giustificato motivo, con un’indennità “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento” e in misura “non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. Non sembra francamente questa la soluzione migliore per rafforzare l’autonomia e la libertà delle università e di chi in esse vive e lavora. E dirlo non significa schierarsi a difesa di “baroni” e fannulloni.

I quattro dell’Ave Maria e la centralità della didattica nella riforma dell’Università

Stefano Semplici, Giampaolo Azzoni, Paolo Leonardi, Emanuele Rossi

Atenei, ipotesi autoriforma (da: Avvenire, 6 luglio 2012)

Enrico Lenzi. Offerta formativa di qualità per tutti o più attenzione al merito? Potenziamento della didattica o valorizzazione della ricerca? Il mondo universitario italiano da tempo si sta macerando su questi dilemmi. E anche tutte le riforme che negli ultimi anni i ministri hanno messo in campo non sono al momento riusciti a trovare un punto di equilibrio, almeno secondo l’opinione di chi nell’università vive e opera. E allora quattro docenti (Stefano Semplici dell’Università di Roma Tor Vergata e Collegio «Lamaro Pozzani»; Giampaolo Azzoni  dell’Università di Pavia, Centro di etica del Collegio Borromeo; Paolo Leonardi dell’Università di Bologna, Collegio Superiore; Emanuele Rossi del Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa) hanno deciso di prendere carta e penna nel tentativo di offrire una soluzione ai dilemmi, o almeno «un contributo al dibattito». «È una proposta che parte dal basso – spiega Stefano Semplici, ordinario di Filosofia morale – e che è il risultato di una riflessione a partire dai testi e dalle proposte fatte fino ad ora». E a sorpresa per questo gruppo di docenti non solo «il punto di equilibrio si può trovare», ma «siamo anche convinti che entrambi i punti siano obiettivi prioritari per far funzionare l’università».

Partiamo dal primo: equità e merito. «Come abbiamo scritto al ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca Francesco Profumo – spiega Semplici – la contrapposizione fra equità e merito non solo è sbagliata, ma dannosa per il Paese e in particolare per chi ha bisogno di maggior aiuto per far fiorire il suo talento». Insomma l’università deve «garantire percorso formativi che mettano in grado tutti – e questa è l’equità – di poter sviluppare i propri talenti e anche di aiutare a farli emergere in coloro che non sembrano averli». Nello stesso tempo «deve saper riconoscere il merito, ma non considerandola come una risorsa del singolo, bensì dell’intera comunità». Per il professor Semplici «occorre pensare ai “benemeriti”, cioè a coloro che hanno potuto sviluppare i propri talenti e poi li hanno posti al servizio di tutti».

Altrettanto delicato il secondo dilemma: didattica o ricerca. «Sono le due gambe su cui si regge l’università e devono viaggiare in parallelo – sottolinea Semplici–. Oggi, invece, si tende a privilegiare la produzione scientifica e la ricerca nella valutazione dei docenti, lasciando ai margini la didattica. Risultato? Professori dedicati solo alla ricerca e poco propensi a entrare in aula a fare lezione. Con grave danno per gli studenti». E qualche avvisaglia di questa tendenza si è vista con alcune levate di scudo da parte di alcuni docenti «che si lamentano del tetto obbligatorio di 100 ore di lezione all’anno, quasi che quel tempo – tra l’altro 10 ore al mese visto che luglio e agosto non ci sono lezioni – fosse perso per le cose importanti, cioè la ricerca». Il danno per l’università è più che evidente.

La proposta elaborata dal gruppo dei quattro docenti affronta anche altri aspetti giudicati decisivi per una buona riforma dell’università. «Penso all’incentivazione dei comportamenti virtuosi nell’amministrazione degli atenei – spiega il professor Semplici – in modo da produrre risparmi da reinvestire ad esempio nel diritto allo studio. O alla figura del garante degli studenti. Ma anche al sistema di abilitazione e reclutamento, che continua a non garantire una valutazione di qualità del corpo docente, lasciando maglie troppo larghe per il riconoscimento dell’idoneità e anche in questo caso basando la valutazione solo sui titoli e le pubblicazioni ignorando la didattica».

La proposta del professor Semplici e dei suoi tre colleghi ha già creato un po’ di dibattito nel mondo accademico, tra consensi e critiche. «Abbiamo voluto – ribadisce il docente di Filosofia morale – un contributo, che pensiamo di buon senso, cercando di mettere ordine nelle varie proposte sul tavolo. Ma soprattutto partendo dall’esperienza diretta sul campo».