Nell’università c’era più libertà quando c’era meno autonomia

Altan-futurodimerdaRabbi Jaqov Jizchaq. «Fra il 2007 e il 2015 il numero dei docenti ordinari delle università italiane è sceso da poco meno di 20.000 a poco più di 13.000. Dove vogliamo fermarci?»

Come eravamo: «Nel 2010 il personale impegnato in attività di ricerca nell’Università degli Studi di Siena ammonta a 1743 unità. I ricercatori universitari sono 947» (Rapporto ricerca 2010). Adesso i ricercatori di ruolo (ad esaurimento) sono 350, un quinto circa dei quali diventeranno associati od ordinari con gli imminenti avanzamenti; il personale docente di ruolo (ricercatori ad esaurimento+associati+ordinari) complessivamente ammonta ancora a 750 unità (giacché gli avanzamenti non sono chiamate di esterni) e si accinge ad essere ridotto di altre 150 unità circa, un po’ a pene di segugio, cioè a dire con la roulette russa dei pensionamenti.

Secondo l’ANVUR nel 2013, l’età media a livello generale era 59 anni per gli ordinari, 53 per gli associati e 46 per i ricercatori; un quotidiano nazionale che citai tempo addietro riportava i dati senesi, che risultavano sensibilmente più alti di 4-6 anni a seconda delle categorie. Ecco, io capisco e apprezzo gli sforzi diretti al risanamento, ma perché da parte dei media prendere per le natiche l’opinione pubblica millantando una realtà che non c’è o che non c’è più? Insomma, io trovo strano che non si riesca in nessun luogo pubblico e sui media a impostare una discussione in termini seri, sobri e realistici, abbandonando per un attimo la consueta oratoria encomiastica, lo stile apologetico, la voce nasale di annunciatore dell’EIAR che canta i recenti trionfi (e cela le recenti sconfitte).

Il Rettore annuncia: «La conferma del miglioramento dei conti consente ora di proseguire su questo percorso, aprendo nel prossimo futuro le procedure per altre 30 posizioni». Evviva, Siena triumphans: ma si tratta di 30 avanzamenti di carriera (da tempo agognati, certo, e benvenuti, ma mi conferma il prof. Grasso che non si tratta di nuovi assunti) e le considerazioni che mi viene da fare sono sempre quelle: avanza chi ha ancora le gambe; chi nell’attesa di avanzare viene azzoppato, non avanza e ai caduti recenti si aggiungeranno a breve altre vittime; nel senso che settori e corsi di studio che nel frattempo sono entrati in crisi per via dei massicci pensionamenti, non “avanzeranno” da punte parti: 500 professori usciti di ruolo vuol dire uno su due a casaccio, sin qui senza turn over.

Un anno prima dello scoppio del “buho” vi erano settori che contavano oltre venti docenti di ruolo, e mi pare che ciò non fosse giustificabile alla luce del fabbisogno di didattica; all’estremo opposto altri settori contavano uno o due docenti: si capirà che da un lato quando il maledetto uomo della strada ripete che “eh, so’ troppi”, interpretando a suo modo la dottrina del “taglio lineare”, bellamente ignorando gli squilibri mostruosi entro il personale docente e tra personale docente e personale tecnico amministrativo, non fa allora un discorso equo, e dall’altro che togliendo due docenti a settore, ai primi non fai un baffo, mentre i secondi li condanni a morte. Poi ci sono le situazioni intermedie: quelle in cui il fabbisogno di didattica oramai è insostenibile e i requisiti di docenza non sono più soddisfacibili con le poche forze rimaste.

A meno che, la regola non sia “chi ha avuto, ha avuto”, questi dati imporrebbero qualche riflessione un po’ meno disinvolta sull’andamento delle cose. Ma, oramai temo che siano cavoli del rettore prossimo venturo, e che giunto a scadenza, l’attuale se ne lavi volentieri le mani (“il settimo si riposò”). Il mantra che Siena deve diventare una specie di “Life Valley” (“Siena Biotech, licenziati alla vigilia del primo maggio”, La Nazione; come esordio non c’è male: una valley di lacrime) non chiarisce qual è la sorte riservata a tutto il resto e alla gente che ci lavora, né come debba leggersi tutto ciò alla luce dell’idea più volte ventilata di trasformazione del sistema degli atenei riducendo molti di essi a “teaching universities” e conservando solo “pochi hub” della ricerca: qui, almeno per una decina di anni, il tempo cioè di fare piazza pulita della cultura e della ricerca di base in altre, non meno vitalistiche “valli”, avremo dunque una situazione schizofrenica, con la researching university in alcuni comparti e la teaching university in altri, ridotti a simulacro?

Ricerca nelle “scienze della vita” o poco più, e pura didattica di basso profilo altrove, in corsi rimaneggiati con quel poco che resta e accorpati, privi di logica interna, di specializzazioni e dottorati (e dunque di attrattiva)? Ha senso tutto ciò? E scusate, perché della gente titolata dovrebbe accettare la prospettiva di regredire al rango di garzone, rinunciare alla carriera, se è giovane, per assecondare questo disegno e perché i colleghi sono andati in pensione? Perché uno studente dovrebbe esserne attratto? Sarebbe sensato, come logico corollario di un progetto di smantellamento di mezzo ateneo, che si “organizzasse l’esodo”, tipo operazione Mosè coi Falascià, ovvero si consentisse (o si intimasse!) a costoro di andarsene in altra sede a svolgere il lavoro per il quale sono pagati, giacché sono dipendenti dell’università statale italiana, e non di qualche nobil contrada senese. Si dirà che si tratta di una boutade, ma la tua soluzione qual è, hypocrite lecteur?

Cosa vorrà dire soddisfare le richieste dell’ANVUR e della SUA in ordine alla produzione scientifica in contesti ove di fatto sarà vieppiù difficoltoso adoperarsi per la buona ricerca? E questo, by the way, in un sistema dove la quasi totalità della «quota premiale» del Fondo di Finanziamento Ordinario viene assegnata alla produzione scientifica e la didattica viene quasi punita come inutile passatempo (ammesso e assolutamente non concesso che “fare ricerca” coincida con il soddisfare le richieste della SUA e dell’ANVUR).

Dice il governo: «più poteri ai rettori… bisogna ridare autonomia vera agli atenei, imporre meno regole dal centro»; ma potere di far che? Serve ben più, temo, che la briglia sciolta ai rettori persino sulla retribuzione dei docenti o la “contrattualizzazione” (jobs act) di tutti i ruoli; anche perché mi pare che i piccoli atenei già siano sin troppo nelle mani del notabilato locale che fa il bello ed il cattivo tempo: in primo luogo devono dirci cosa intendono farne dell’attuale configurazione degli atenei pubblici e del sistema della ricerca e della didattica universitaria.

Personalmente sarei incline, piuttosto, a richiedere un maggiore centralismo e protagonismo da parte del ministero, che non può tirare il sasso in piccionaia e poi nascondere la mano, essendo convinto che c’era più libertà quando c’era meno “autonomia” e ravvisando nella trasformazione degli atenei in monadi senza finestre, non solo una delle cause dei mali che li affliggono, ma anche dell’impossibilità di addivenire per i problemi di cui stiamo parlando a soluzioni del tipo di quelle prospettate nei precedenti messaggi.

Sarei felicissimo se qualcuno mi convincesse che quanto ho scritto è privo di fondamento.

2 Risposte

  1. P.S. L’Agenzia che giudica le università Ogni delibera costa 100 mila euro.
    Il dossier su produttività e conti: il 16% del bilancio usato per remunerare il Consiglio direttivo (http://www.corriere.it/scuola/universita/15_maggio_10/agenzia-che-giudica-universita-ogni-delibera-costa-100-mila-euro-a90c5b44-f6eb-11e4-bdc6-f010dce69e19.shtml)

    Ogni delibera costa quanto un goal di Balotelli: chi valuterà il valutatore? Parafrasando de André, è mai possibile, o porco di un cane, che le avventure in codesto reame, debban concludersi tutte con grandi panzane? Soggiungo che quando poi si cantano le lodi dell’ateneo senese – quasi che tutto andasse nel migliore dei modi – per la buona valuatazione e la posizione conquistata nelle classifiche del CENSIS o altre classifiche, di settori oramai entrati in crisi o in via di smantellamento per le ragioni dette nei precedenti messaggi; oppure quando ci si chiede come mai settori decimati che in illo tempore ebbero la loro fama siano d’improvviso calati nel ranking, mi vengono in mente le parole di Flaiano a proposito di Cardarelli: “il più grande poeta italiano morente”.

  2. …P.S. Mentre mi accingo a sottoporre a revisione un articolo su “Stalla oggi” dal titolo “Studiare è meglio che spalare letame” (dal diario di uno studente di Don Milani), estraggo questo brano dall’articolo di G. A. Stella del 10 Maggio (oggi) citato:

    Il caso delle riviste scientifiche

    La parte più divertente, però, è il rilancio delle accuse intorno al riconoscimento delle cosiddette «riviste scientifiche» accettate come palcoscenico dei lavori professionali degli aspiranti docenti. Un elenco «oggetto di ilarità nazionale e internazionale» finito in prima pagina sul Corriere, come i nostri lettori ricorderanno, ma anche «in un lungo articolo sul noto magazine Times Higher Education». In quell’elenco, che inizialmente comprendeva addirittura 15.998 riviste «suddivise nelle aree non bibliometriche» c’era di tutto. Dal Mattino di Padova all’annuario del Liceo di Rovereto e poi giornali per catechisti, «periodici patinati come Yacht Capital e periodici per operatori agricoli e allevatori di maiali, come Suinicoltura». Una rivista «punto di riferimento imprescindibile per allevatori di suini, tecnici e le imprese impegnate nell’indotto della filiera suinicola».
    Una lista così assurda (ve lo immaginate un aspirante docente che cerca di avere una cattedra ad Harvard, Berkeley o Stanford portando le sue pubblicazioni su Stalla oggi, per quanto possa essere un giornale specializzato utilissimo per gli allevatori?) che fu obbligatoria una sforbiciata. Sottolineata, purtroppo, con parole di auto-elogio un po’ surreali: «I gruppi di lavoro, avvalendosi delle società scientifiche interpellate dall’Anvur, hanno effettuato una difficile e meritoria opera di sfrondamento, pervenendo a un numero finale di 12.865 riviste considerate scientifiche in almeno un’area». Dodicimilaottocentosessantacinque? Tutte scientifiche? Basta capirsi: sul Corriere hanno scritto diversi premi Nobel. Ma mica è una rivista scientifica…
    Una cosa è probabile. Dopo le nuove stilettate, l’uso delle parole «start-up di successo» sarà un po’ più sobrio. O no?

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