L’intreccio di pubblico e privato: dalla Certosa di Parma alla Certosa di Pontignano

La Certosa di Pontignano

La Certosa di Pontignano

E perché il «soggetto privato gestore della Certosa di Pontignano ha offerto ospitalità» al Rettore e ai Direttori di Dipartimento lo scorso 10 giugno? L’altra domanda, quella posta col sorriso dal sindacato USB P.I. (il pranzo chi lo paga? Il Rettore di tasca sua o si usano i fondi di rappresentanza istituzionale?), aveva individuato quelle due legittime strade. Esistevano altre possibilità? Certamente! Gli ospiti potevano portarsi il panino e le bevande da casa o pagare alla romana il conto al gestore privato. Invece, l’opzione seguita dal rettore (accettare l’ospitalità offerta dal gestore della Certosa di Pontignano) necessita di una spiegazione sul piano etico e giuridico.

Rabbi Jaqov Jizchaq. (…) tra le righe di questa stendhaliana corrispondenza intorno alla Certosa, leggo che comunque è un dato quasi certo che tra breve, dopo aver sbaraccato le Facoltà, i vecchi corsi (più volte) e i vecchi dipartimenti, toccherà sbaraccare di nuovo, dopo tre anni, diversi dipartimenti e corsi di laurea e giocare ancora con i cocci dei vasi per assemblarne di nuovi, quasi ignari del secondo principio della termodinamica. Le roi s’amuse: ma non si rendono conto le competenti autorità che tessono i nostri destini di distruggere via via, in questo modo, smontando e rimontando con uno “sperimentalismo” da apprendisti stregoni, ciò che molta gente ha costruito con anni di fatica? Cosa dobbiamo attenderci, un ritorno alle vecchie Facoltà, con un po’ di gente nel frattempo fatta fuori od emarginata, come in una resa dei conti, oppure dipartimenti ancor più cinobalanici di quelli attuali? Se il secondo caso è evidentemente assurdo, nel primo non si capisce perché allora si sia proceduto allo smantellamento delle Facoltà, per poi tentare di rimetterle assieme in un pallido simulacro di quello che furono. L’unica domanda che sorge spontanea è quella, amletica, se c’è del metodo in questa follia. Spero che anche i rappresentanti delle OO.SS alzino un po’ il tiro porgendo finalmente attenzione al problema delle strutture: se gli stabilimenti continuano a chiudere, con la fuoriuscita del 50% del corpo docente a turn over fermo, o ad essere resi improduttivi, è difficile pensare che non ci saranno conseguenze per le maestranze.

Angelo Riccaboni. Con riferimento alla nota inviata ieri a firma USB P.I., dove si ipotizzava che per l’incontro periodico del Rettore con i Direttori di dipartimento tenutosi il giorno 10 giugno a Pontignano fossero stati utilizzati fondi pubblici, si precisa che l’ospitalità è stata offerta dal soggetto privato gestore della Certosa.
 Questo in un’ottica di valorizzazione e promozione della nostra bellissima Certosa come centro per convegni e attività legate alla formazione e alla ricerca e di condivisione degli investimenti fatti e delle migliorie apportate alla struttura.

Se si pensa di portare solo dodici università ai vertici della classifica di Shanghai, si chiudono poi tutte le altre?

Altan-controllosituazioneRabbi Jaqov Jizchaq. Da un interessante articolo di Nicola Costantino si evince che, nonostante la sola Harward abbia un bilancio pari al 44% dell’intero Fondo Ordinario nostrano, cioè del totale dei quattrini che lo Stato italiano butta nel sistema universitario, la resa delle università italiane, quanto a produttività scientifica, sia, ohibò, lusinghiera ben oltre le aspettative. Nondimeno la tendenza generale è quella:

(1) a svalutare sempre di più il contenuto e l’importanza della didattica e non vedo come possa esservi buona ricerca, se prima non vi è buona didattica a tutti i livelli. Svalutare la didattica vuol dire ritenere che tutti gli atenei siano essenzialmente researching universities, senza capire chi e dove avrebbe il compito di formare i researchers. S’intende che il tempo trascorso dai docenti nelle aule sia solo un doveroso obolo pagato obtorto collo da gente che fa altro come mestiere: insomma, tempo perso; il senso di molti corsi di studio dai nomi incomprensibili, del resto, non a caso ci sfugge.

(2) a premiare sempre di più i grossi atenei e punire sempre di più quelli medio piccoli; ma come puoi pensare che un ateneo che perde pezzi e metà del corpo docente come Siena, col patacrack che è successo, dove non entra nessuno stabilmente a dieci anni e con 500 docenti che d’un botto vanno in pensione possa migliorare oltre un certo limite le proprie prestazioni o possa risollevarsi solo in virtù di parchi meccanismo premiali, visto che sono state minate le fondamenta? Si dice però al contempo (contraddicendosi) che oramai il destino di molti atenei è viceversa quello di diventare delle teaching universities. Giavazzi propose addirittura di chiudere le Università di Bari, Messina e Urbino, in ragione della loro bassa qualità certificata dalla VQR: ebbene, perché non lo fanno, chiudendo magari anche Siena visto che l’unica tendenza in atto è quella al graduale smantellamento delle strutture? A questo punto si tratta dunque di chiarire alcune cose:

(3) se la tendenza è quella a distinguere università di serie A e università di serie B, non è che ci si possa limitare a fotografare l’esistente, trasformando in condanna eterna oppure assoluzione eterna il mero dato di fatto, la fotografia dell’oggi, il dato spesso casuale, che uno si trova qui, piuttosto che là, in una situazione dove non esiste mobilità, né programmazione territoriale, imprigionato nella nave che affonda. La crisi degli atenei medio-piccoli, per adesso, ha provocato come effetto non lieve quello di spazzare via un generazione di (ex) giovani ricercatori: credo che oramai si guardi alla successiva, stendendo un velo pietoso su chi è stato travolto dalla valanga. A Siena, uno capitato dieci anni fa, non avrebbe comunque fatto carriera manco si fosse chiamato Einstein (nel sistema claustrofobico degli atenei “autonomi” il numero di coloro che sono stati chiamati altrove è ridottissimo); successivamente la sua sorte sarebbe stata vincolata all’alea dei pensionamenti, dei punti organico, dello scioglimento delle facoltà, dei requisiti minimi, dei corsi che vivono e che muoiono, di decisioni avvenute secondo criteri vieppiù imperscrutabili.

(4) Non esistendo mobilità manco per gli studenti, il fatto di studiare in una università di serie A o di serie B è solo questione di quattrini: le università di serie B servono i ceti squattrinati del circondario; quelle di serie A servono i fortunati autoctoni, sempre che se lo possano permettere, più i fuorisede che possono consentirsi la trasferta, e visti i costi del mantenimento di un figliolo all’università, non si vede perché una famiglia di Vattelappesca dovrebbe affrontare spese ingenti per mandare il pargolo in una sede di serie B. Personalmente oramai conosco anzi molta gente che, sensatamente, li manda direttamente all’estero, in sedi ove si trovano quelle specializzazioni che qui non sussistono più, sostanzialmente a parità di costi. E sia benedetta Ryanair.

(5) Rileva il Presidente del Consiglio che “non possiamo pensare di portare tutte le 90 università nella competizione globale”; giusto, ma da un lato perché allora non danno seguito innanzitutto al malcelato proposito di chiuderne alcune, evidentemente lasciate oramai alla deriva, trasbordando nelle sedi più prossime docenti e discenti, come propone Giavazzi? E poi si tratta di capire qual è lo scopo secondo Costituzione dell’istruzione superiore in Italia: tendenzialmente direi di offrire un buon livello di istruzione superiore su tutto il territorio nazionale (anche se nei fatti non è così), e non di portare avanti “pochi hub” nella classifica di Shanghai buttando il resto ai maiali: se per assurdo vi fossero in Italia solo cinque università, probabilmente sarebbero tutte e cinque eccellenti. In ogni caso si tratta di decidersi. Epilogo: al punto (5) ho succintamente riassunto la posizione del Presidente del Consiglio, che pur partendo da una considerazione sensata, ossia che l’Italia non può portare tutte le università ai vertici della classifica di Shanghai o altre classifiche (che non siano quella surreale del CENSIS), ma solo mezza dozzina, non ci dice con precisione cosa vorrebbe farne delle altre (ma che cacchio vuol dire “teaching universities”?), né è chiaro come potrebbe riuscire un ateneo a emanciparsi realmente da una condizione di inferiorità che ammonta ad una condanna a vita.

Dunque nella maggior parte degli atenei non ci si dovrà più azzardare a parlare di scienze astratte, ripiegando in modo non meglio precisato sulle “applicazioni”, che in assenza di robusti comparti di ricerca di base temo saranno intese come applicazioni di basso profilo. Del resto, su scala più ampia, è un po’ quello che succede per larghe fette dell’economia: qui assistenza e commercializzazione, mentre progettazione e ricerca avanzate si fanno altrove; ho già citato Bertrand Russell, che saggiamente osservava come la pretesa di una ricaduta immediata – domattina all’alba – delle scoperte scientifiche, finisca per distruggere assieme ricerca pura e ricerca applicata.

Parimenti non si dovrà più parlare di Cultura (con la “C” maiuscola), ma al più di comunicazione & marketing, folclore e turismo. In questa cornice poco edificante per il tono civile e culturale del paese più ignorante d’Europa, la sorte degli atenei medio-piccoli è segnata e le loro “eccellenze”, se ve ne sono e se non verranno man mano cancellate, sopravviveranno solo se saranno in grado di confluire all’interno di strutture più ampie, tipo consorzi con altri atenei; il che chiama in causa l’infelice concetto di “autonomia” universitaria e la concezione degli atenei come monadi senza finestre: siccome, checché se ne pensi, questo è l’andazzo, trovo inquietante che si continui psicoanaliticamente a negare la realtà evidente.

Mi domando (nuovamente) perché tacere su quello che costituisce il processo reale in atto, che a Siena in particolare sta producendo (a) la disintegrazione dei comparti umanistici (un solo dottorato sopravvissuto, poche magistrali, accorpamento dei corsi, la scelta poco lungimirante di non realizzare la Scuola Umanistica, per dar corso viceversa a dipartimenti stravaganti) e (b) la scomparsa gravissima e imminente di molte aree scientifiche di base (non si è capito bene che fine faranno la Fisica e la Matematica). Un processo che non vede solo chi non lo vuol vedere: ma allora perché non metterlo a tema nell’agenda politica, discutendone apertis verbis, anziché nelle segrete conventicole? Qual è la politica della Regione (attuale deus ex machina) e del neo rieletto presidente riguardo al destino dei tre atenei maggiori? Il silenzio assordante di tutte le altre forze politiche mi porta a ritenere che quella esposta al punto (5) sia una visione ampiamente condivisa, così come generalmente elusa è la risposta agli interrogativi che essa solleva.

Si riorganizzano i Dipartimenti quando è in discussione l’esistenza stessa dell’Università di Siena

Altan-vivacchiareScampagnata fori porta

USB P.I. – Chissà cosa mai succederà in quell’ameno chiostro dove il Magnifico ha riunito ieri i Direttori di Dipartimento e altri alti dignitari. Il Rettore avrebbe invitato una ventina di colleghi a Pontignano per avviare nel modo più conviviale possibile la ristrutturazione dei Dipartimenti, che avverrà a breve. Questa scelta farebbe presupporre che una passeggiata proprio non sia, se si deve rendere lieve la discussione con un bicchiere di vino (nascondete i coltelli però).

Sono trascorsi tre anni dalla formazione dei 15 dipartimenti post-Gelmini e ora pare stia già crollando tutta l’impalcatura fragile creata dopo l’approvazione dello Statuto. Molti si chiederanno cosa ha a che fare con noi, personale tecnico e amministrativo, tutto questo, ma ci arriviamo. Prima una domanda posta col sorriso: il pranzo chi lo paga? Il Rettore di tasca sua o si usano i fondi di rappresentanza istituzionale? No, perché sembrerebbe uno spreco di denaro pubblico, che pare manchi ancora qui da noi, visto che si poteva fare un incontro in sala consiliare al Rettorato a costo zero. Sappiamo la risposta…

Insomma cosa interessa a noi della ristrutturazione dei dipartimenti? Molto. Infatti, a luglio dovrebbe essere presentato il nuovo assetto degli uffici didattica e studenti dei suddetti dipartimenti e forse qualcuno si è mosso, o si sta muovendo, unendo le due cose. Quindi, si preparino i colleghi del settore didattica, a breve, vi saranno grandi manovre. Qualcuno dovrebbe sapere già dove va e con chi si sposta, ma altri, la maggior parte, vivrà nell’ignoranza fino al giorno prima. Siamo abituati ormai a questo modo di fare. L’organizzazione del lavoro è diventata un fatto di pochi, nemmeno vengono banditi avvisi per incarichi di ufficio, niente, ormai ognuno contratta il proprio posticino.

Le segreterie studenti si divideranno di nuovo fra carriera (sportelli accorpati per plessi?) e didattica, che rimane nei dipartimenti. Tutto questo viene discusso senza coinvolgere nessuno. Il rispetto si vede dalle piccole cose, figuriamoci dall’organizzazione del lavoro. Se sarà confermata la stretta sui dipartimenti, a breve forse anche il settore amministrativo gestionale periferico potrebbe subire una riforma. Dopo appena tre anni come si intende agire? Questa Amministrazione ormai non comunica nulla, l’organizzazione del lavoro è per pochi, e la trasparenza è al buio.

Forse invece di andare a fare giri fori porta si potrebbe comunicare agli organi di governo e alla comunità universitaria, cosa si vuole fare per rilanciare, quando il problema non sono i dipartimenti, o gli orticelli, ma la tenuta dei corsi di laurea, la tenuta delle iscrizioni, l’esistenza stessa di questo Ateneo. Salute a tutti!

Incontro sulle barriere architettoniche a Siena

Barriere Architettoniche

Si svolge a Siena l’ultimo appuntamento del lungo giro d’Italia del progetto dell’Associazione Luca Coscioni “Soccorso civile per l’eliminazione delle barriere architettoniche“. 

Venerdì 5 giugno a partire dalle ore 16, a Siena, presso la Sala stampa Paolo Maccherini di Palazzo Berlinghieri (Piazza del Campo, 7/8), l’Associazione Luca Coscioni organizza un corso/seminario, nell’ambito di un progetto finanziato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sull’eliminazione delle barriere architettoniche e sensoriali. L’obiettivo dell’incontro è di fornire al maggior numero di persone gli strumenti per affrontare il problema delle barriere architettoniche, sia relativamente ai singoli casi che possono riguardare i cittadini con disabilità, sia alle politiche in atto ad ogni livello e alle proposte di riforma da rivolgere alle istituzioni.