Con un trucco contabile, e trasferimenti, le università non virtuose si svuotano, risanano e ridiventano “virtuose”?

Da: Italian Engineers (12 gennaio 2018)

Michele Ciavarella. Il collega ItalianEngineer “Renzo Rosso” di PoliMI lamentava sul SecoloXIX vedi qua che non ci sono più i trasferimenti. Si sbagliava! La legge italiana rende trasferibile e quindi virtuoso un docente, conteso da tutte le Università italiane, non perché è bravo, ma perché viene da una Università non virtuosa!

Sì avete sentito bene, il paradosso è questo, solo un qualunque docente di Università non virtuosa ha uno status privilegiato, e diventa per questo “virtuoso”. Forse le Università che lo accolgono fanno una scelta e verificano se è virtuoso, ma siccome costa zero, perché andare per il sottile?
Le università che sono in “tensione finanziaria”, una volta si diceva “non virtuose”, potrebbero svuotarsi progressivamente (probabilmente semplicemente dei docenti di altra sede), almeno fino a riportarsi a situazione “positiva” (ossia sotto 80% di quota stipendi), e ridiventare virtuose. Anzi, i docenti di queste sedi hanno un’occasione unica per andarsene, visto che chi li assume, recupera interamente il loro costo!

Questo va:
0) A vantaggio dei docenti fuori sede delle Università non virtuose, che in questo hanno un vantaggio rispetto ad analoghi docenti di Università virtuose; la discriminazione paradossale di cui sopra.
1) A vantaggio delle grandi Università virtuose che non hanno questo problema e si possono scegliere dei docenti da assumere “gratis”; questo almeno mi pare sensato.
2) A vantaggio anche delle Università non virtuose che risolvono la loro situazione rapidamente: si svuotano! Sembrerebbe paradossale ma questo lo fa intuire che l’emendamento sia stato proposto da un parlamentare dell’area di Cassino (Pilozzi). Infatti, svuotandosi, si torna in condizioni finanziarie vantaggiose (sotto 80% del monte stipendi) ossia virtuosi, e si può ottenere per il futuro più posti da Professore visto che l’indicatore oltre all’80% blocca l’assegnazione al 50% del turnover.
Quindi, se perdo X professori oggi, però scendo sotto 80%, il turn-over si sblocca. Per capire il vantaggio occorrerebbe sapere quanti sono i docenti che devono andare in pensione. Se sono molti (per es. 10X), allora si crea un vantaggio netto passando da 25% del turnover (credo) al 50%, di 2X docenti.
3) Alla fine tutto ridiventa “virtuoso”, ma fa parte dei giochi complessi dell’assegnazione dei fondi all’università che non ci sia stato un intervento a copertura della manovra, perché in realtà questo non crea dei punti organico, ma solo sblocca il turnover in alcune Università. Se fosse stato fatto anni fa, quando le Università non virtuose erano molte, avrebbe creato un chaos.
4) Naturalmente, a regime tutti diventiamo “virtuosi”, fino a nuova definizione di “virtuoso”, ad oggi sconosciuta, e che verrà decisa a posteriori un giorno X non noto oggi.

Se questa manovra viene anche ripetuta è un po’ la ciliegina sulla torta di chi pensava che veramente nel 2001, quando si cominciò a parlare di Università virtuose, si volesse fare sul serio!

Almeno i candidati a Rettore risponderanno alla domanda «dove va l’Università di Siena?»

StemmaUnisiRabbi Jaqov Jizchaq. Leggo che una peculiarità del sistema italiano è la “dispersione della performance”, non la sua concentrazione in pochi atenei. Cioè a dire le “eccellenze” sono distribuite in modo abbastanza uniforme. E per converso direi che anche le sedi d’eccellenza hanno al loro interno diverse schifezze. Soggiungo che, nel momento in cui si parla di concentrazioni in “grossi hub”, verosimilmente regionali, curiosamente non si dice come ciò dovrebbe avvenire, né si nota, per esempio, che non esiste alcun serio sistema per consentire ai docenti, in una maniera che non sia eccezionale (sicché non costituisca “l’eccezione che conferma la regola”), di transire da una sede a un’altra.

Il seguito dato all’articolo 3 della riforma, relativo alle collaborazioni inter-ateneo, in quei settori dove i singoli atenei non abbiano più la possibilità di fare da soli – al di là dei dottorati Pegaso – mi pare che sia piuttosto scarso, anche perché il contenuto di questo articolo si riduce a poco più di una blanda esortazione, non accompagnata da un progetto vero e proprio, né dalla garanzia che atenei come Siena diventino ancor di più “provincia dell’Impero”, luogo di merende e scampagnate, deposito temporaneo di docenti svogliati, accentuando quei fenomeni deleteri (assenteismo, instabilità, totale indifferenza al destino dell’istituzione) che già hanno contribuito alla loro decadenza.

Egualmente non ho capito come potrebbe aver luogo operativamente in Italia la distinzione fra “teaching” e “researching university”, assente dall’attuale quadro normativo. Ma anche se ciò fosse reso possibile, mediante una riforma (della riforma) che cancellasse, tra le altre cose, l’eufemistica “autonomia universitaria”; se cioè ricerca e insegnamento venissero messi definitivamente su binari diversi (e se lo saranno, si spera che almeno si riconoscerà una dignità all’insegnamento, visto che con gli attuali meccanismi premiali è inteso quasi come una punizione per bambini cattivi), è evidente che ciò porterebbe con sé anche una totale deregulation e la differenziazione degli stipendi a seconda della sede: la “contrattualizzazione” del corpo docente, che consentirebbe di differenziare la retribuzione dei professori più bravi.

Anche questo è un tema che ronza nell’aria e, prima o poi, verrà messo sul piatto. Ma, è evidente a questo punto che i ricercatori più bravi (salvo asceti e flagellanti) migrerebbero verso gli atenei più ricchi e maggiormente dotati di risorse. Questi, perciò stesso, incrementerebbero il loro vantaggio e si creerebbe una spirale virtuosa che per gli altri si trasformerebbe in circolo vizioso, spalancando sempre di più la forbice in modo irreversibile. Come Superciuk, il sistema continuerebbe a salassare i poveri per donare ai ricchi, ma lo farebbe in nome della meritocrazia.

Uno la può pensare come vuole al riguardo e può farsi paladino di un modello che preveda la netta distinzione tra insegnamento e ricerca, ma quello che volevo sottolineare, e che mi inquieta, è come al momento non vi siano regole per porre in atto questo vagheggiato modello. Quando ci sono le regole del gioco, uno può decidere di giocare o di astenersi, e se gioca, sapendo quali sono le regole, può anche rassegnarsi a perdere; ma è evidente che un gioco senza regole, con regole cangianti, con regole varate “a posteriori”, ha tutto l’aspetto di una truffa. La gente non può passare tutta la vita ad aspettare che in alto loco si decidano su quale modello adottare, cambiando continuamente le regole del gioco.

“Nell’anima non ho neanche un capello bianco”, dice Vladmir Majakovskij, ma nella zucca io ne ho assai e non ne avevo quando si cominciò a parlare della sorte dei “giovani ricercatori”. Fu anche detto in alcune sedi, ad uso dei creduloni, che il pensionamento di 350 professori apriva la strada al reclutamento di centinaia di “giovani ricercatori” (e il modo ancor m’offende). In realtà si trattò solo del taglio di 350 posti di lavoro, tutti di docente, che preludeva all’instaurazione di un diverso “modello” di università. Dopo anni, solo adesso si è aperta la possibilità di trasformare un po’ di ricercatori in associati (gente che, di fatto, già svolgeva il ruolo di associato). Ma non si tratta, appunto, di posti nuovi, bensì solo di avanzamenti di gente già di ruolo e non più giovanissima, e anche qui è evidente che coloro i quali operano nei settori che non rientrano in questo nuovo “modello”, non hanno speranza alcuna. I giovani, intanto, come affermava Benedetto Croce, hanno un solo compito: quello di invecchiare.

Facciamo due conti.
– L’Italia ha 130.000 studenti in meno su 1.700.000 negli ultimi cinque anni, cioè intorno all’8%: ma a Siena, se i dati sono quelli riportati, siamo intorno al 30%!
– L’Italia ha perso 10 mila docenti e ricercatori dal 2008 al 2015. Per quanto riguarda i docenti di ruolo, si tratta di oltre il 13% del personale docente, contro una media del 5% del pubblico impiego. Ma se è vero, com’è vero che a Siena stiamo passando da 1062 docenti (nel 2006) a 712 (oggi) siamo al 33% di perdite e l’ateneo senese si sta riducendo a un terzo di quello pisano o fiorentino.
Aggiungo che oramai è un’asfissiante propaganda pressoché quotidiana e bipartisan, quella che vuole un ridimensionamento del sistema degli atenei, con la concentrazione delle risorse in “pochi hub”. Alla luce di tutto ciò risulta sempre più urgente un chiarimento: dove va l’Università di Siena? Una risposta, prima o poi, è dovuta. Si narra di un martire arrostito sulla graticola, che avverte i torturatori: «Potete girarmi, da questo lato sono già cotto», ma non tutti posseggono questo sublime sense-of-humor.

All’università di Siena, destinata a sede distaccata toscana, si predica l’espansione ma praticando la contrazione

faust-film

Rabbi Jaqov Jizchaq. «Nel 1892 il ministro della Pubblica istruzione Ferdinando Martini propose il progetto di soppressione dei piccoli atenei, tra i quali quello senese. La proposta fu subito contrastata da uno sciopero generale dei commercianti, dall’intervento di tutte le istituzioni cittadine e da veri e propri moti popolari, che indussero il ministro a ritirare il progetto.»

Notare la differenza coi nostri tempi bui: oggi della sorte dell’ateneo tutti se ne stracatafottono, altro che moti popolari o indignazione dei commercianti! Manca la tensione etica, l’apertura mentale. Il politico alla moda finge di prendere le distanze e somministra al popolo clisteri di retorica: del resto ho già sottolineato come all’indomani della scoperta del “buco”, politici di tutte le razze identificavano come unica medicina quella del taglio dei posti di professore e ricercatore. Cerco di essere più preciso e come disse un papa, “se sbaglio, mi corigerete”: nel 2008 a Siena c’erano 68 triennali e 46 magistrali (più qualche laurea a ciclo unico). “Troppe!”, si diceva, non senza ragione. Se ne reclamava la chiusura di alcune: “le scienze del bue muschiato”; ebbene, adesso vi sono 30 triennali e 28 magistrali, diverse delle quali piuttosto mal messe, frutto di accorpamenti e destinate ad essere soppresse nei prossimi anni con il prosieguo dei pensionamenti e la perdita prevista di un altro centinaio di docenti.

Del resto se certi corsi sono destinati a sopravvivere ancora per un lasso di tempo con accanimento terapeutico, come simulacri di quello che furono, allora è meglio l’eutanasia. Ad essere entrate in crisi non sono necessariamente “le scienze del bue muschiato”, ma alcune scienze di base e corsi non proprio inutili, da ogni punto di vista. Se anche rientreranno una manciata di docenti, il quadro non cambia, considerando che dal 2008 se ne sono persi già 344. Avevamo oltre 22.000 studenti e adesso, dice il Rettore, ne abbiamo 15.775, aggiungendo che questo pesante ridimensionamento per Siena costituisce la “dimensione naturale”. Eh, già, così è, se vi pare. Uno torna da Auschwitz e dice: “questo è il mio peso-forma”. Ma “naturale” in che senso? Cos’è “naturale” per Siena? Cortesemente, gradirei ricevere qualche delucidazione riguardo a questa valutazione. Poi non so cosa induca a pensare che il dato si sia consolidato e non sia destinato a scemare ulteriormente. Insomma, che precipitando dal grattacielo, si sia “finalmente” toccato il suolo.

Ci avviamo ad avere un terzo dei docenti di Pisa o di Firenze e per giunta mal distribuiti un po’ a casaccio: un gerontocomio, semplicemente quello che resta dopo i pensionamenti di quasi la metà di costoro, non quello che serve per portare avanti un progetto ben definito. Ma cosa intende il Rettore quando dice che «entro il 2016 entreranno a Siena circa 130 fra nuovi docenti e nuovi ricercatori»? In realtà, se sono di ruolo, non sono nuovi (si tratta di avanzamenti di carriera) e se sono nuovi, non sono di ruolo (si tratta di contratti, anche se alcuni, sperabilmente, in futuro, convertibili in posti di ruolo).

E ripeto che non capisco come, con una massa così ridotta, si possa sfuggire all’attrazione dei grandi poli regionali. Perdendo altri 5000 studenti, inoltre, Siena verrà inclusa nel novero dei vituperati “piccoli atenei” (cioè quelli intorno ai 10.000 studenti) dei quali da più parti si reclama la chiusura e che paiono incompatibili con i succitati progetti dell’ANVUR e della politica. Non solo quella di governo. Leggo infatti nel blog di Beppe Grillo: «I piccoli atenei (costosi e poco efficienti) dovranno chiudere e quel risparmio potrà essere investito per creare case dello studente presso pochi, efficienti, grandi atenei.» In effetti a questi lumi di luna mi pare sia opinione ampiamente condivisa che i piccoli atenei sotto i 10.000 studenti siano una spesa insostenibile. Soprattutto mi pare che molti italiani, non insensatamente, non la vogliano sostenere, trattandosi in larga misura di diplomifici e stipendifici per parenti o famigli delle nomenklature locali.

Porsi questi problemi mi pare lecito, se non addirittura doveroso, e un chiarimento appare non più procrastinabile. In tutt’Italia se ne parla. A Siena no; pare peccaminoso e inopportuno parlarne. Di certo da queste parti non ti fai degli amici, sollevando il discorso, nel “tempio del libero pensiero”. Sicché, nonostante l’afflato e i buoni propositi, il destino pare essere già stato tracciato e nonostante il linguaggio 2.0 degli eredi del ministro Ferdinando Martini, il proposito appare oggi lo stesso, quando dicono che sopravviveranno “pochi hub” propriamente definibili come “università”, mentre gli altri saranno ridotti a “teaching universities”, cioè sedi distaccate; ma non hanno il coraggio di ammetterlo, e non certo perché temano l’insurrezione popolare a difesa del “culturame”.

Ma non si può continuare a dire una cosa e a farne un’altra, predicando l’espansione, ma praticando la contrazione. Un po’ il contrario del Mefistofele di Goethe, che desiderava eternamente il male, e tuttavia “a sua insaputa” operava eternamente il bene: “Ein Teil von jener Kraft, die stets das Böse will und stets das Gute schafft”.

I quaquaraquà della ricerca: dall’astensione ufficiale dalla VQR all’adesione sottobanco

Carlo-FerraroCarlo Ferraro. Cari colleghi Professori e Ricercatori, molte sedi segnalano che Rettori, Direttori di Dipartimento o loro delegati hanno iniziato o intensificato le “grandi manovre” in vista delle chiusure locali delle VQR (alcuni le proseguono anche a chiusure avvenute). Il tutto con il solito corollario di lusinghe, appelli o pressioni di vario genere. La forma di pressione più subdola, la più pericolosa per noi, è quella dei Direttori o loro delegati affinché i loro Docenti diano sottobanco la selezione dei propri lavori, i vari dati necessari e, sempre sottobanco, i PDF. Garantendo ai Docenti l’assoluta riservatezza e anonimato affinché questi, pur avendo aderito anche in forma ufficiale all’astensione dalla VQR, si sentano tranquilli e al riparo da possibili critiche da parte dei loro colleghi. La motivazione addotta è di non arrecare danno al Dipartimento.

Su questo punto, vi prego di considerare quanto segue. È un’azione subdola e scorretta da parte di chi chiede e da parte di chi cede alla richiesta, e questa volta si può proprio dire eticamente criticabile, per ragioni ovvie. In particolare si invita a dissociare la forma in cui si manifesta la propria protesta (non selezionare in proprio i prodotti e non allegare i pdf) dalla sua sostanza, che consiste nel non comunicare né trasmettere in alcun modo, neppure informale (per telefono, per e mail, di persona…), la selezione dei prodotti e i relativi pdf. In sostanza si dice: “tu non farlo, con il che manifesti il tuo dissenso e sei a posto formalmente, ma poi, sottobanco, aiuta noi a farlo, tanto nessuno lo saprà mai”. Se farete questo, avremo perso: e dimentichiamoci per sempre classi e scatti!

In quanto al probabile danno ai Dipartimenti, se noi rimarremo irremovibili nella sostanza della nostra astensione, non si arriverà a questo momento perché, anche con minime percentuali di astensione, i Rettori saranno costretti (se ne parla più oltre) a fare pressione sul Governo per ottenere quanto chiediamo: il riconoscimento di classi e scatti stipendiali con una legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Dunque con la nostra astensione sostanziale noi vogliamo invertire la rotta delle pressioni: invece di subirle da Rettori, Direttori di Dipartimento o loro delegati, esercitarle noi su tutti loro per ottenere il riconoscimento dei nostri sacrosanti diritti.

Vi invito perciò a riflettere attentamente. I vari modi di fare pressione, fra i quali quelli sopra descritti, sono tentativi per far fallire la nostra azione sulla VQR. Dopodiché i Rettori torneranno al letargo che li ha pressoché totalmente contraddistinti in passato e non avranno più alcuno stimolo al tavolo tecnico con la Ministra per sostenere le nostre richieste.

Non fornite pertanto a nessuno, meno che mai sottobanco, i dati richiesti per la VQR. Non autorizzate i Dipartimenti, né esplicitamente né implicitamente, a fare la selezione in vostra vece, come alcuni consigliano.

L’azione avrà successo, come fino ad ora è avvenuto, se non si cede in dirittura d’arrivo. Aver testimoniato il disagio e la protesta e poi assecondare alla fine i Dipartimenti, dunque gli Atenei, dunque il Ministero, non impressiona nessuno: soprattutto non serve a raggiungere l’obiettivo, che è quello di riavere classi e scatti stipendiali. E ricordate che bastano anche piccole percentuali di astensioni dalla VQR per mettere in agitazione i Rettori, dato che non potranno ripetere le prestazioni ottenute nella precedente VQR: ciò li obbligherà, anche se non condividono la nostra azione, ad agire in sede ministeriale, che è quanto vogliamo come aiuto alle nostre azioni.

Prego i colleghi coordinatori nelle numerose sedi in cui si sono già costituiti coordinamenti locali (Milano Statale, Napoli Federico II, Roma Tre, Parma, Firenze, Udine, Siena, Messina, Roma La Sapienza, Genova, Bologna, Modena e Reggio Emilia, Padova, e spero di non dimenticare nessuno) di diffondere questa mia ai loro indirizzari. Inviate pure questa e-mail ai colleghi ai quali di solito la inviate. Prego quelli di Voi che sono interessati a ricevere direttamente notizie del tipo di questa e-mail di scrivere a letterapresidenterepubblica@gmail.com, indicando nel subject “Inseriscimi” e saranno aggiunti all’indirizzario.

Nell’università c’era più libertà quando c’era meno autonomia

Altan-futurodimerdaRabbi Jaqov Jizchaq. «Fra il 2007 e il 2015 il numero dei docenti ordinari delle università italiane è sceso da poco meno di 20.000 a poco più di 13.000. Dove vogliamo fermarci?»

Come eravamo: «Nel 2010 il personale impegnato in attività di ricerca nell’Università degli Studi di Siena ammonta a 1743 unità. I ricercatori universitari sono 947» (Rapporto ricerca 2010). Adesso i ricercatori di ruolo (ad esaurimento) sono 350, un quinto circa dei quali diventeranno associati od ordinari con gli imminenti avanzamenti; il personale docente di ruolo (ricercatori ad esaurimento+associati+ordinari) complessivamente ammonta ancora a 750 unità (giacché gli avanzamenti non sono chiamate di esterni) e si accinge ad essere ridotto di altre 150 unità circa, un po’ a pene di segugio, cioè a dire con la roulette russa dei pensionamenti.

Secondo l’ANVUR nel 2013, l’età media a livello generale era 59 anni per gli ordinari, 53 per gli associati e 46 per i ricercatori; un quotidiano nazionale che citai tempo addietro riportava i dati senesi, che risultavano sensibilmente più alti di 4-6 anni a seconda delle categorie. Ecco, io capisco e apprezzo gli sforzi diretti al risanamento, ma perché da parte dei media prendere per le natiche l’opinione pubblica millantando una realtà che non c’è o che non c’è più? Insomma, io trovo strano che non si riesca in nessun luogo pubblico e sui media a impostare una discussione in termini seri, sobri e realistici, abbandonando per un attimo la consueta oratoria encomiastica, lo stile apologetico, la voce nasale di annunciatore dell’EIAR che canta i recenti trionfi (e cela le recenti sconfitte).

Il Rettore annuncia: «La conferma del miglioramento dei conti consente ora di proseguire su questo percorso, aprendo nel prossimo futuro le procedure per altre 30 posizioni». Evviva, Siena triumphans: ma si tratta di 30 avanzamenti di carriera (da tempo agognati, certo, e benvenuti, ma mi conferma il prof. Grasso che non si tratta di nuovi assunti) e le considerazioni che mi viene da fare sono sempre quelle: avanza chi ha ancora le gambe; chi nell’attesa di avanzare viene azzoppato, non avanza e ai caduti recenti si aggiungeranno a breve altre vittime; nel senso che settori e corsi di studio che nel frattempo sono entrati in crisi per via dei massicci pensionamenti, non “avanzeranno” da punte parti: 500 professori usciti di ruolo vuol dire uno su due a casaccio, sin qui senza turn over.

Un anno prima dello scoppio del “buho” vi erano settori che contavano oltre venti docenti di ruolo, e mi pare che ciò non fosse giustificabile alla luce del fabbisogno di didattica; all’estremo opposto altri settori contavano uno o due docenti: si capirà che da un lato quando il maledetto uomo della strada ripete che “eh, so’ troppi”, interpretando a suo modo la dottrina del “taglio lineare”, bellamente ignorando gli squilibri mostruosi entro il personale docente e tra personale docente e personale tecnico amministrativo, non fa allora un discorso equo, e dall’altro che togliendo due docenti a settore, ai primi non fai un baffo, mentre i secondi li condanni a morte. Poi ci sono le situazioni intermedie: quelle in cui il fabbisogno di didattica oramai è insostenibile e i requisiti di docenza non sono più soddisfacibili con le poche forze rimaste.

A meno che, la regola non sia “chi ha avuto, ha avuto”, questi dati imporrebbero qualche riflessione un po’ meno disinvolta sull’andamento delle cose. Ma, oramai temo che siano cavoli del rettore prossimo venturo, e che giunto a scadenza, l’attuale se ne lavi volentieri le mani (“il settimo si riposò”). Il mantra che Siena deve diventare una specie di “Life Valley” (“Siena Biotech, licenziati alla vigilia del primo maggio”, La Nazione; come esordio non c’è male: una valley di lacrime) non chiarisce qual è la sorte riservata a tutto il resto e alla gente che ci lavora, né come debba leggersi tutto ciò alla luce dell’idea più volte ventilata di trasformazione del sistema degli atenei riducendo molti di essi a “teaching universities” e conservando solo “pochi hub” della ricerca: qui, almeno per una decina di anni, il tempo cioè di fare piazza pulita della cultura e della ricerca di base in altre, non meno vitalistiche “valli”, avremo dunque una situazione schizofrenica, con la researching university in alcuni comparti e la teaching university in altri, ridotti a simulacro?

Ricerca nelle “scienze della vita” o poco più, e pura didattica di basso profilo altrove, in corsi rimaneggiati con quel poco che resta e accorpati, privi di logica interna, di specializzazioni e dottorati (e dunque di attrattiva)? Ha senso tutto ciò? E scusate, perché della gente titolata dovrebbe accettare la prospettiva di regredire al rango di garzone, rinunciare alla carriera, se è giovane, per assecondare questo disegno e perché i colleghi sono andati in pensione? Perché uno studente dovrebbe esserne attratto? Sarebbe sensato, come logico corollario di un progetto di smantellamento di mezzo ateneo, che si “organizzasse l’esodo”, tipo operazione Mosè coi Falascià, ovvero si consentisse (o si intimasse!) a costoro di andarsene in altra sede a svolgere il lavoro per il quale sono pagati, giacché sono dipendenti dell’università statale italiana, e non di qualche nobil contrada senese. Si dirà che si tratta di una boutade, ma la tua soluzione qual è, hypocrite lecteur?

Cosa vorrà dire soddisfare le richieste dell’ANVUR e della SUA in ordine alla produzione scientifica in contesti ove di fatto sarà vieppiù difficoltoso adoperarsi per la buona ricerca? E questo, by the way, in un sistema dove la quasi totalità della «quota premiale» del Fondo di Finanziamento Ordinario viene assegnata alla produzione scientifica e la didattica viene quasi punita come inutile passatempo (ammesso e assolutamente non concesso che “fare ricerca” coincida con il soddisfare le richieste della SUA e dell’ANVUR).

Dice il governo: «più poteri ai rettori… bisogna ridare autonomia vera agli atenei, imporre meno regole dal centro»; ma potere di far che? Serve ben più, temo, che la briglia sciolta ai rettori persino sulla retribuzione dei docenti o la “contrattualizzazione” (jobs act) di tutti i ruoli; anche perché mi pare che i piccoli atenei già siano sin troppo nelle mani del notabilato locale che fa il bello ed il cattivo tempo: in primo luogo devono dirci cosa intendono farne dell’attuale configurazione degli atenei pubblici e del sistema della ricerca e della didattica universitaria.

Personalmente sarei incline, piuttosto, a richiedere un maggiore centralismo e protagonismo da parte del ministero, che non può tirare il sasso in piccionaia e poi nascondere la mano, essendo convinto che c’era più libertà quando c’era meno “autonomia” e ravvisando nella trasformazione degli atenei in monadi senza finestre, non solo una delle cause dei mali che li affliggono, ma anche dell’impossibilità di addivenire per i problemi di cui stiamo parlando a soluzioni del tipo di quelle prospettate nei precedenti messaggi.

Sarei felicissimo se qualcuno mi convincesse che quanto ho scritto è privo di fondamento.

Università di Siena: il conflitto d’interesse per il personale contrattualizzato è norma da applicare, per i docenti rientra tra i principi generali di comportamento

Altan-criccaFigli di un dio maggiore

USB P.I. Università di Siena. Scriviamo questo comunicato all’attenzione dell’intera Comunità, e in particolare ai componenti del Senato Accademico. Oggi, infatti, sarà portato in approvazione il codice di comportamento dei dipendenti dell’università di Siena. Il DPR 62/2013 prevede che tutte le pubbliche amministrazioni adottino dei codici di comportamento; vi è anche un’agenzia nazionale di riferimento, cambia spesso nome, CIVIT, ANAC, (forse oggi ha già ricambiato nome), che ha emanato delle delibere in proposito. Un anno fa fu avviato il percorso partecipativo sulla stesura del codice rivolto a tutti i componenti della nostra comunità. Il DPR di riferimento, infatti, prevede che ognuno scriva le proprie regole, fatto in modo intelligente, sarebbe corretto. La RSU rispose di comune accordo con le sigle avanzando delle proposte. Queste furono accolte dall’Amministrazione, in modo quasi totale. In sostanza, cosa era stato proposto? Trattandosi di una università ci si rendeva conto che si doveva scrivere un codice calato sulla realtà specifica dell’Ateneo. Il codice andava applicato a tutti pur tenendo conto degli status giuridici differenti, personale contrattualizzato e non. Era stato trovato un modo per far tornare tutto e dobbiamo dire l’Amministrazione stessa aveva accolto l’impostazione che cercava di applicare le regole a tutti.

Vi sono dipendenti con status giuridici differenti, vero, ma pur sempre tutti dipendenti dello Stato. Se è normato il conflitto d’interesse all’interno dell’Università di Siena, non si può sostenere che per i dipendenti contrattualizzati è norma, e si applica, mentre per i dipendenti non contrattualizzati sono principi generali di comportamento! Principi generali? Di cosa stiamo parlando, cioè si va nelle piazze a manifestare quando i conflitti riguardano gli altri, ma quando poi si tocca l’interesse personale ecco che scappa fuori lo status giuridico? Per favore, in questa fase storica in cui si stanno, a fatica, cercando di abbattere privilegi anacronistici, c’è ancora chi ritiene corretto sostenere che i conflitti si regolano in modo differente? Cioè per qualcuno si regolano e per altri, di fatto, no. Ebbene sì, il Nucleo di valutazione (NdV) propone questo, e oggi chiede al Senato di avallare questa tesi. Si sa, i docenti, dipendenti pubblici, sono figli di un dio maggiore, per loro le regole, che valgono per gli altri, sono principi generali.

Il punto del conflitto d’interesse è importante perché era stato costruito un sistema che nella valutazione dello stesso tenesse conto dei diversi ruoli, quindi iter di intervento e controllo differenti. Il NdV però questo non lo accetta e dice che è il codice etico dell’Ateneo a disciplinare la materia, e che non c’è bisogno di prevedere iter specifici sulla gestione del conflitto di interesse, ma basarsi sulle linee generali previste dal codice etico. Forse però si dovrebbe sapere che la delibera 75/2013 della CIVIT prevede che il codice etico venga ricompreso, di fatto scomparendo, nel codice di comportamento, e che si prevedano iter precisi! Tutto questo però si fa finta di non saperlo. Il codice etico dell’Ateneo approvato nel 2011 deve essere incluso nel codice di comportamento!

Il Senato oggi è chiamato a prendere una decisione delicata lo dice anche il NdV, nel documento che ha presentato. Nell’ultimo paragrafo, nel trasmettere il proprio parere agli organi di governo, per la delicatezza della questione, ritiene debba prestare attenzione alla materia anche l’organo rappresentante del personale docente. Quale sarebbe tale organo? Non ci risulta, esista, un organo del genere nell’Ateneo. Quanto fa paura che il conflitto d’interesse venga normato? Invitiamo il Senato accademico a riflettere bene sul segnale che si vuole dare rispetto alla trasparenza delle funzioni della Pubblica Amministrazione, tutti ne rispondiamo, non esistono figli di un dio maggiore.

Università di Siena: alla ricerca del senso del ridicolo perduto

DatiUnisi2015

Grande soddisfazione del rettore dell’Università di Siena per le 213 matricole del 2014/2015 – crollate a 86 l’anno prima – nei corsi di laurea aretini in Lingue per la comunicazione interculturale e d’impresa e in Scienze dell’educazione e della formazione. Ovviamente, com’è suo stile, il “magnifico”, così loquace nel commentare segnali poco significativi, non dice nulla sul dimezzamento delle immatricolazioni in dieci anni e sulle reali condizioni dell’Ateneo.

Il numero dei docenti è sceso a 755 unità (costo: circa 65 milioni di euro), mentre quello del personale tecnico-amministrativo e dei collaboratori ed esperti linguistici (Cel) è pari a 1.068 unità (costo: circa 39 milioni di euro). Al 31 dicembre 2014, mancano all’appello 50 docenti, rispetto all’evoluzione fornitaci dal rettore che, alla stessa data, ne prevedeva 805: e certamente non saranno state tutte morti premature. Silenzio sul rapporto docenti/tecnici-amministrativi che, oggi, risulta pari a 0,72.

Con Riccaboni il numero degli studenti è crollato da 18.088 dell’A.A. 2011/2012 a 14.524 dell’anno corrente. La decisione di mantenere per l’università di Siena, unica sede in Italia, l’accesso libero a Farmacia, Chimica e Tecnologia Farmaceutiche (CTF), Biologia – in assenza dei requisiti minimi di legge (numero di docenti, risorse strumentali e logistiche) – ha portato alla distruzione di tali corsi di laurea, fiore all’occhiello del nostro ateneo. Gli studenti hanno pagato profumatamente le tasse per un servizio che l’Ateneo non poteva assicurare. E così, tutta l’operazione è servita per far cassa e per titoli reboanti sulla stampa locale, nell’ottobre 2011: «Mille studenti in più, ricaduta economica per tutta la città»; «Immatricolazioni alle stelle; clamorosa impennata»; «Vola il mercato degli affitti».

Articolo pubblicato anche da:
Il Cittadino Online (23 gennaio 2015) con lo stesso titolo.
Bastardo Senza Gloria (24 gennaio 2015) con il titolo Lo stato delle cose: riceviamo e pubblichiamo per i nostri lettori l’analisi di Giovanni Grasso.

Continua l’inerzia del rettore mentre la geografia dell’ateneo è ridisegnata dalla moria per inedia dei corsi di studio

AltansmarritoRabbi Jaqov Jizchaq. Scrive il Rettore che «Con riferimento alle attività didattiche l’Ateneo vuole garantire la sostenibilità nel tempo dell’offerta formativa, ottimizzando l’impiego dei docenti e focalizzandosi sui corsi di studio maggiormente attrattivi, promuovendo l’offerta formativa in lingua inglese, anche in collaborazione con Atenei stranieri…». Flatus vocis, se non ci si spiega come si garantisce la “sostenibilità nel tempo”, o come (così titola un giornale) si intenda in tre anni “far crescere l’ateneo”, dal momento che Siena è in piena decrescita, si accinge a perdere 500 docenti entro il 2020 a turn over sostanzialmente fermo e ha già perso metà dell’offerta formativa.

Le criticità nei conti, la conflittualità capillarmente esplosa con tutte le categorie di dipendenti che avanzano dei soldi, non consentono di dormire sonni tranquilli, anche se i conti pare vadano complessivamente meglio e dalle ultime comunicazioni del Rettore sembra si registrino timidi segnali di apertura – reale? – verso talune di queste legittime rivendicazioni; ma va aggiunto che con la botta che ha preso l’ateneo, per rimetterlo in piedi occorrerebbe un vero e proprio piano Marshall, non solo timidi segnali di miglioramento. Il gatto che si morde la coda è il seguente: molti corsi sono diventati meno attrattivi semplicemente perché è scomparso gran parte del corpo docente, dunque degli insegnamenti. Alcuni corsi sono stati addirittura chiusi o sono in procinto di esserlo a causa del venir meno dei “requisiti minimi di docenza” (ne sono seguiti cinobalanici accorpamenti senza capo, né coda). In quanto sono divenuti meno attrattivi, non saranno certo i primi ad essere soccorsi, quando (e se) arriverà qualche razione di rifornimenti ecc. ecc. … urge un progetto lungimirante e non si può attendere che la geografia dell’ateneo venga ridisegnata dalla moria per inedia o dalla lotta di tutti contro tutti.

Tra i luoghi comuni un po’ scemotti c’è quello che i pensionamenti costituiscano una sorta di selezione naturale, sicché alla fine resteranno in piedi poche cose ed eccellenti. Ma i pensionamenti colpiscono a casaccio ed è difficile prevedere da qui a quattro o cinque anni quanti posti sarà possibile rimpiazzare: l’unica cosa certa è che saranno pochi, mentre del tutto aleatorio è invece quali; così come non si è neppure affrontato l’argomento del destino delle decine di persone che lavorano in aree destinate alla dismissione e che non hanno la fortuna di andare in pensione. Di questo nessuno parla: sia perché chi va in pensione a breve (e sono per lo più gli ordinari anziani, ossia quelli che effettivamente decidono) tende mediamente a fregarsene, sia perché alcuni oggettivamente non sono interessati alla problematica e verosimilmente non lo saranno finché non li toccherà personalmente (fate pure, but not in my backyard), sia perché in condizione di scarsità di risorse vale il motto “mors tua vita mea”, sia perché, last but not least, nulla titilla il narcisismo di certuni (una soddisfazione di genere tafazziano) quanto vedere gli altri versare in gravi difficoltà.

Non è che a causa dei suddetti fenomeni sia entrata in crisi necessariamente la fuffa: molti corsi entrati in crisi facevano parte per l’appunto delle millantate “eccellenze” e molti che ne hanno subìto le conseguenze non erano esattamente i peggio del paniere; dunque a oggi, di fatto, “l’eccellenza” a Siena ha finito per coincidere in molti casi con la mera, casuale, sopravvivenza (e non so se si può accampare la difesa che il caso ha un ruolo di grande rilievo anche nell’evoluzionismo).

Università di Siena: guardiamo a Oxford e Cambridge, per ora col binocolo, e trasformiamo un dantista in un dentista

Evoluzione al 2020

Rabbi Jaqov Jizchaq. Va bene, finalmente, ricominciare a parlare dell’ateneo; guardiamo a Oxford, a Cambridge ecc. ecc., per ora col binocolo, e ricordiamoci in che condizioni siamo: se Pisa si situa al centesimo posto della classifica di Shanghai, Siena è sparita dalle prime cinquecento posizioni. In quattro anni l’università italiana in genere (statale e no) ha perso un miliardo di euro su 7,5 disponibili; ha perso altresì 78.000 studenti in dieci anni, pari a due atenei come Pisa, ma in soli quattro anni ha perso anche 12.000 docenti, pari a sei atenei di quella dimensione, rimpiazzati solo da 2.000 giovani. Secondo le opinioni dell’uomo della strada, non ancora investito dal filobus, comunque “eh so’ troppiiiii!”, senza mai specificare chi e cosa è di troppo (Sedi? Docenti? Ordinari? Associati? Ricercatori? Personale TA? In quali settori disciplinari?).

Spendiamo circumcirca l’1% del PIL, sommando le risorse pubbliche e quelle private, e non il 3% stabilito dall’U.E. nei trattati di Lisbona (2003); tra il 2007 e il 2013 hanno chiuso 1000 corsi di studio circa, il fondo di finanziamento ordinario cala costantemente e il numero di addetti ai lavori ogni 1000 abitanti, in Italia è meno della metà rispetto alla media OCSE: that’s Italy! L’aver dislocato un po’ ovunque sedi universitarie somministrando “ar popolino” corsi di laurea del cacchio, non ha contribuito, se non minimamente, alla mobilità sociale: all’ “ascensore sociale”, come si suol dire, che, anche per via del processo di rapida deindustrializzazione del nostro paese, va solo in discesa.
Taluni scrivevano che “il personale” andava comunque ridotto del 20%; buffo ragionamento, come se “il personale” fosse personale generico ed intercambiabile, manovalanza: le maestranze, insomma, quasi non vi fossero leggi e decreti che regolano nei minimi dettagli i requisiti per l’accreditamento dei corsi. In ogni caso qui a Siena ci siamo andati giù pesanti e tra il 2008 e il 2020 va scomparendo una quantità attorno al 50%, e non genericamente tra “il personale”, ma quasi esclusivamente tra il personale docente di ruolo, per pensionamento – dunque a casaccio -, a turn over sin qui fermo, e con esso è sparita all’incirca metà dell’offerta formativa, grazie ai famigerati “requisiti di docenza” mussiano-gelminiani.

Gli squilibri, poi, lascito del passato magna-magna: a fronte di certi settori che posseggono docenti a bizzeffe, ve ne sono altri che ne posseggono uno o due, o non più alcuno e non è difficile concludere che la scomparsa di 500 professori “vecchi” tra il 2008 e il 2020 ha avuto ed avrà l’effetto prioritario di chiudere molti insegnamenti ed ulteriori corsi di laurea. Paradossalmente, chiudendo altri corsi di laurea per mancato raggiungimento dei requisiti di docenza, resteranno i monconi amputati, decine di docenti qui non più utilizzabili: ma come già suggerito, possiamo sempre trasformare un dantista in un dentista.

Università di Siena: docenti in pensione e amministrativi in cattedra

Profumo-Camusso-Docenti-PTA

Un titolo già usato in questo blog nel lontano 26 novembre 2008. Parafrasando Erwin Chargaff, all’università di Siena la condizione ideale in cui ci avviciniamo in modo asintotico è: docenti in pensione e amministrativi in cattedra. Di seguito la lettera di Rabbi a Profumo e Camusso.

Rabbi Jaqov Jizchaq. Gentile signor Ministro Profumo, 
gentile signora Camusso,

mi rivolgo a voi, sperando che questo messaggio nella bottiglia giunga nelle vostre mani, per sapere da un lato chi siano questi “docenti” ai quali bisognerebbe prendere i soldi, se non quelli che in combutta col sindacato hanno ridotto l’università di Siena sul lastrico, se è questa la via al “risanamento” e dall’altro per capire se le affermazioni contro “il culturame”, presenti nel comunicato sindacale di cui sopra, riflettono in qualche modo la linea di pensiero del sindacato che fu di Di Vittorio, di Trentin e di Lama.

Innanzitutto, che vuol dire “colpire i docenti”? “Prendere i soldi fra i docenti”? Chi sono “i docenti”? Per distrarre forse l’opinione pubblica dalle precise responsabilità politiche del dissesto dell’ateneo, alle quali (come a Siena sanno anche le pietre) non sono certo estranei i sindacati stessi, si fa di tutta l’erba un fascio e si addita come al solito al popolino armato di forconi un capro espiatorio generico: chi insegna (tutti “baroni”, naturlich…dal precario, al ricercatore, all’associato, all’ordinario), chiunque sia e a qualunque titolo lo faccia, qualunque cosa insegni, qualunque stipendio percepisca, uomo o bestia, stakanovista o lavativo, qualunque posto gerarchico occupi, qualunque coinvolgimento nel dissesto abbia, comunque la pensi.

Francamente questo comunicato mi pare cartina di tornasole dello sconcertante menefreghismo di chi ha considerato l’università solo una mucca da mungere, ora celato dietro una maschera “neoluddista” che non può non lasciare basiti: mentre la FIOM lotta per evitare la chiusura degli stabilimenti, a Siena allegramente incitano a colpire ancora di più la docenza, nonostante i dati drammatici che evidenziano l’uscita di ruolo di un docente su due (senza turn over) nel breve arco di due lustri e dunque l’incessante ed implacabile smantellamento pezzo dopo pezzo di molte delle strutture della storica università senese.

Chi sono “i docenti”, in questo formidabile ateneo (l’unico della Via Lattea) dove i docenti si avviano ad essere dimezzati e gli amministrativi si avviano ad essere invece il doppio dei docenti, che i sindacati con grandiosa lungimiranza chiedono di colpire? Ad oggi, con il turn over bloccato, dopo che in due anni sono stati fatti fuori circa 300 docenti di ruolo, decimata con tiro ad alzo zero tutta la generazione più giovane dei precari, i docenti rimanenti oramai per un 43% sono ricercatori, molti in cerca d’autore, che si aggirano tra le macerie (stipendi impiegatizi, ovviamente bloccati, carriere bloccate, col fucile dell’ANVUR puntato alla testa, strutture della ricerca devastate). Con il pensionamento di altri 200 docenti (in maggioranza associati od ordinari), la percentuale supererà forse il 60%: ecco i veri nemici del popolo!

Non si curano dello smantellamento delle strutture basilari, ma al contempo, ohibò, dicono di difendere i custodi di quelle medesime strutture di base delle quali di fatto, auspicando l’ulteriore riduzione dei docenti già ridotti all’osso, invocano la chiusura: egregio ministro, egregia segretaria, c’è del metodo in questa follia che a casa mia si chiama semplicemente “pigliare per il culo” :-(?