Università di Siena: guardiamo a Oxford e Cambridge, per ora col binocolo, e trasformiamo un dantista in un dentista

Evoluzione al 2020

Rabbi Jaqov Jizchaq. Va bene, finalmente, ricominciare a parlare dell’ateneo; guardiamo a Oxford, a Cambridge ecc. ecc., per ora col binocolo, e ricordiamoci in che condizioni siamo: se Pisa si situa al centesimo posto della classifica di Shanghai, Siena è sparita dalle prime cinquecento posizioni. In quattro anni l’università italiana in genere (statale e no) ha perso un miliardo di euro su 7,5 disponibili; ha perso altresì 78.000 studenti in dieci anni, pari a due atenei come Pisa, ma in soli quattro anni ha perso anche 12.000 docenti, pari a sei atenei di quella dimensione, rimpiazzati solo da 2.000 giovani. Secondo le opinioni dell’uomo della strada, non ancora investito dal filobus, comunque “eh so’ troppiiiii!”, senza mai specificare chi e cosa è di troppo (Sedi? Docenti? Ordinari? Associati? Ricercatori? Personale TA? In quali settori disciplinari?).

Spendiamo circumcirca l’1% del PIL, sommando le risorse pubbliche e quelle private, e non il 3% stabilito dall’U.E. nei trattati di Lisbona (2003); tra il 2007 e il 2013 hanno chiuso 1000 corsi di studio circa, il fondo di finanziamento ordinario cala costantemente e il numero di addetti ai lavori ogni 1000 abitanti, in Italia è meno della metà rispetto alla media OCSE: that’s Italy! L’aver dislocato un po’ ovunque sedi universitarie somministrando “ar popolino” corsi di laurea del cacchio, non ha contribuito, se non minimamente, alla mobilità sociale: all’ “ascensore sociale”, come si suol dire, che, anche per via del processo di rapida deindustrializzazione del nostro paese, va solo in discesa.
Taluni scrivevano che “il personale” andava comunque ridotto del 20%; buffo ragionamento, come se “il personale” fosse personale generico ed intercambiabile, manovalanza: le maestranze, insomma, quasi non vi fossero leggi e decreti che regolano nei minimi dettagli i requisiti per l’accreditamento dei corsi. In ogni caso qui a Siena ci siamo andati giù pesanti e tra il 2008 e il 2020 va scomparendo una quantità attorno al 50%, e non genericamente tra “il personale”, ma quasi esclusivamente tra il personale docente di ruolo, per pensionamento – dunque a casaccio -, a turn over sin qui fermo, e con esso è sparita all’incirca metà dell’offerta formativa, grazie ai famigerati “requisiti di docenza” mussiano-gelminiani.

Gli squilibri, poi, lascito del passato magna-magna: a fronte di certi settori che posseggono docenti a bizzeffe, ve ne sono altri che ne posseggono uno o due, o non più alcuno e non è difficile concludere che la scomparsa di 500 professori “vecchi” tra il 2008 e il 2020 ha avuto ed avrà l’effetto prioritario di chiudere molti insegnamenti ed ulteriori corsi di laurea. Paradossalmente, chiudendo altri corsi di laurea per mancato raggiungimento dei requisiti di docenza, resteranno i monconi amputati, decine di docenti qui non più utilizzabili: ma come già suggerito, possiamo sempre trasformare un dantista in un dentista.

Siena: zimbello d’Italia con la “piccola Oxford” del menga

ZimbelloUnisiRabbi Jaqov Jizchaq (…) la “piccola Oxford”, che smisurata presunzione: v’è gente vana come la sanese? Ma quale “piccola Oxford” del menga? Zimbello d’Italia, per il crack multiplo di banca, università e maggioranza politica. L’Italia, a sua volta, zimbello d’Europa, come rivelano i dati allarmanti e umilianti diffusi dall’OCSE: siamo il popolo più ignorante che detiene il record europeo della più bassa percentuale di laureati nella fascia di età fra i 30 e i 34 anni (il 19% a fronte di una media europea del 30%), stabilmente situati al 34° posto su 36 paesi Ocse. Oxford ha dato al mondo una sessantina di premi Nobel e un pugno di Fields Medals; molto tempo fa in questo blog espressi il rammarico che a Siena le scienze pure ed applicate non godessero della dovuta rilevanza; ma nella città che ospita una storica Accademia che ebbe tra i suoi corrispondenti Immanuel Kant, nella città che dette ricovero a Galileo in momenti difficilissimi della sua esistenza, non solo non ha mai preso piede un polo scientifico vero e proprio, ma dopo lo scoppio della crisi, oramai sono stati potati un numero così sconfortante di livelli magistrali e dottorali, che di certo non è lecito sperare in meglio per l’avvenire delle “scienze avanzate”. Sicché non si capisce bene cosa voglia dire “rilancio” per buona parte dell’ateneo senese: tornare alla configurazione precedente gli anni ’70, più qualche cosa? Bene, nulla quaestio, ma diteci almeno cosa volete farne di tutto il resto, perché la politica di nascondere la testa sotto la sabbia non va bene.

Di quattrini, in futuro ve ne saranno sempre di meno; i livelli occupazionali precrisi verranno ripristinati nel 2025, dicono gli economisti, mentre nel frattempo in Italia scompaiono 480 posti di lavoro al giorno. Pensare pertanto di reintegrare i settori disciplinari spolpati dalle massicce uscite di ruolo è pura, irresponsabile utopia. Vagheggiare un futuro in cui si ricomincerà a bandire concorsi a tutto spiano è demenziale: “l’idraulico non verrà”, come titolava un poemetto di Fruttero & Lucentini. Non so che ateneo si immaginano i nostri comandanti e subcomandanti, ed è superfluo che ripeta ancora una volta monomaniacalmente quella che a mio modestissimo avviso appare oggi l’unica strada rimasta aperta per salvare dal naufragio interi reparti della ricerca e naturalmente dare una prospettiva a chi ci sta dentro (che bene o male lavora per l’università statale, non per qualche contrada o partito, e che secondo le recenti direttive dell’ANVUR deve oltretutto prodursi in performances di alto livello assai improbabili al di fuori di contesti appropriati): laddove oramai una orgogliosa “autonomia” sia palesemente insostenibile, si tratta di ricompattare i settori disciplinari e costituire corsi di laurea degni di questo nome con tutti i livelli, da quelli di base ai dottorati di ricerca, non più localmente, ma a livello interateneo; ragionare cioè in termini “federali” in chiave di “università della Toscana”, contemplando la possibilità di spostare i docenti interessati laddove la loro disciplina abbia una qualche possibilità di sopravvivenza.

Non vedo altra soluzione per frenare la deriva entropica della quale sono preda oramai anche atenei più solidi di quello senese, con l’uscita di ruolo di un professore su quattro e la chiusura di circa duemila corsi di laurea. Mi si dica altrimenti in cosa cosiste la “strategia di rilancio”. Purtroppo però, al di là delle asperrime polemiche di “noartri contro voartri”, mi pare che al fondo del “dibattito” intorno all’università di Siena (già passato in secondo piano dopo lo scoppio dello scandalo bancario) permanga un atteggiamento di sostanziale inerzia ipocritamente fatalistica: ci si esprime sul futuro dell’ateneo in chiave metaforica, con astrazioni come “l’antico ateneo”, ignari del fatto che non esiste un corpo unico, ma tanti pezzi disarticolati, alcuni dei quali già perduti, altri che si vanno perdendo, e che le cause di tale processo non consentono di rubricare tutto ciò che va perduto alla voce “le cose inutili”. Il mondo politico si pasce di retorica e delle risse senza costrutto. Non ho mai sentito nessun esponente politico di nessun partito esprimersi con un briciolo di concretezza e competenza su questi temi (e ci chiedono pure il voto).