Sulla strategia del discredito che accompagna il processo di smantellamento dell’Università con ampie aspersioni di giudizi som(m)ari a vanvera sull’utilità e l’inutilità

Francesco Bacone

Francesco Bacone

Come si pone l’ateneo senese di fronte a tali sviluppi?

Rabbi Jaqov Jizchak. A proposito del comunicato sull’Università delle organizzazioni sindacali e studentesche. Per il sottosegretario Nannicini, quello delle cattedre Natta, è: «un programma sperimentale di premio al merito basato sulle chiamate dirette dei docenti». Il governo andrà avanti su questa strada.

Ecco, ma se quello di premiare il merito è un programma “sperimentale” vuol dire che il reclutamento normale non ha niente a che vedere col merito? E se il governo andrà avanti su questa strada a che serve l’ANVUR? A che serve l’ASN? Che senso ha che vi siano due canali di reclutamento paralleli? Interpreto la volontà governativa in questo modo: siccome il sistema è irriformabile, bisogna abbatterlo manu militari e riedificarlo con un atto d’imperio.

Leggo che in Italia i docenti universitari sono la metà di quelli francesi, un terzo di quelli tedeschi, ed hanno avuto un calo netto del 20% negli ultimi otto anni. A Siena il doppio! Di fronte a questo sarebbe utile capire a cosa metterà capo la scelta di concentrare tutte le energie su un piccolo gruppo di atenei, scavalcando anche le prassi usuali e la sempre più eufemistica autonomia universitaria.

Sarebbe interessante capire come si pone l’ateneo senese di fronte a questi sviluppi, che vedono sempre di più ampliarsi la forbice fra pochi centri d’eccellenza e una gran massa di università di serie B, atteso che l’emorragia continua di cattedre non depone a favore dell’ipotesi che in futuro esso si collochi fra quelli di serie A.

La realtà temo sia più triviale. Siamo all’epilogo, alla stretta finale; tutto ciò era scritto nella riforma, ed era implicito nella politica da diversi governi a questa parte. A questo scopo è stata creata l’ANVUR: «quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa.»

Il punto è che non ci sono solo quei pochi grandi atenei di punta presenti tra i primi duecento delle classifiche internazionali, e dall’altro lato le “università Parthenope”, perennemente ultime classificate: c’è una fascia intermedia di atenei che finiscono per dequalificarsi in ragione della loro dimensione che si va sempre più assottigliando e della difficoltà a procedere ad un ricambio del corpo docente. A queste si è detto, a priori e a prescindere: “tu farai la teaching university e ti occuperai di rilasciare diplomi di tipo professionale, senza tante fregole teoretiche”, prefigurando un ruolo ancillare di satelliti rispetto agli atenei maggiori.

C’è a chi piace così, fàmolo strano: c’è chi dice che l’alta cultura e la ricerca di base non è roba per “noi provinciali” poco avvezzi alla teoresi e non ne voglio discutere, scusandomi se la mia ignoranza non è pari a quella di questi nuovi mandarini. Dico solo che a me fa rabbrividire la strategia del discredito che accompagna questo processo con ampie aspersioni di giudizi som(m)ari a vanvera sull’utilità e l’inutilità, che giungono fino alla damnatio memoriae per cose e persone. Ci si appella al realismo per giustificare una situazione vieppiù surreale.

Quando uno mette in campo un progetto di trasformazione del genere, dovrebbe aver chiari i passaggi che comporta la sua implementazione, rendersi conto che per attuarlo non basta contemplare passivamente la lenta dissoluzione di esperienze, competenze e tradizioni (come per i dieci piccoli indiani… poi non rimase nessuno). Io questi passaggi non li vedo, se non nella loro pars destruens. Qualcuno, sogghignando, dice che non li vedrò mai, e allora che fare? Continuiamo a sogghignare…

Almeno i candidati a Rettore risponderanno alla domanda «dove va l’Università di Siena?»

StemmaUnisiRabbi Jaqov Jizchaq. Leggo che una peculiarità del sistema italiano è la “dispersione della performance”, non la sua concentrazione in pochi atenei. Cioè a dire le “eccellenze” sono distribuite in modo abbastanza uniforme. E per converso direi che anche le sedi d’eccellenza hanno al loro interno diverse schifezze. Soggiungo che, nel momento in cui si parla di concentrazioni in “grossi hub”, verosimilmente regionali, curiosamente non si dice come ciò dovrebbe avvenire, né si nota, per esempio, che non esiste alcun serio sistema per consentire ai docenti, in una maniera che non sia eccezionale (sicché non costituisca “l’eccezione che conferma la regola”), di transire da una sede a un’altra.

Il seguito dato all’articolo 3 della riforma, relativo alle collaborazioni inter-ateneo, in quei settori dove i singoli atenei non abbiano più la possibilità di fare da soli – al di là dei dottorati Pegaso – mi pare che sia piuttosto scarso, anche perché il contenuto di questo articolo si riduce a poco più di una blanda esortazione, non accompagnata da un progetto vero e proprio, né dalla garanzia che atenei come Siena diventino ancor di più “provincia dell’Impero”, luogo di merende e scampagnate, deposito temporaneo di docenti svogliati, accentuando quei fenomeni deleteri (assenteismo, instabilità, totale indifferenza al destino dell’istituzione) che già hanno contribuito alla loro decadenza.

Egualmente non ho capito come potrebbe aver luogo operativamente in Italia la distinzione fra “teaching” e “researching university”, assente dall’attuale quadro normativo. Ma anche se ciò fosse reso possibile, mediante una riforma (della riforma) che cancellasse, tra le altre cose, l’eufemistica “autonomia universitaria”; se cioè ricerca e insegnamento venissero messi definitivamente su binari diversi (e se lo saranno, si spera che almeno si riconoscerà una dignità all’insegnamento, visto che con gli attuali meccanismi premiali è inteso quasi come una punizione per bambini cattivi), è evidente che ciò porterebbe con sé anche una totale deregulation e la differenziazione degli stipendi a seconda della sede: la “contrattualizzazione” del corpo docente, che consentirebbe di differenziare la retribuzione dei professori più bravi.

Anche questo è un tema che ronza nell’aria e, prima o poi, verrà messo sul piatto. Ma, è evidente a questo punto che i ricercatori più bravi (salvo asceti e flagellanti) migrerebbero verso gli atenei più ricchi e maggiormente dotati di risorse. Questi, perciò stesso, incrementerebbero il loro vantaggio e si creerebbe una spirale virtuosa che per gli altri si trasformerebbe in circolo vizioso, spalancando sempre di più la forbice in modo irreversibile. Come Superciuk, il sistema continuerebbe a salassare i poveri per donare ai ricchi, ma lo farebbe in nome della meritocrazia.

Uno la può pensare come vuole al riguardo e può farsi paladino di un modello che preveda la netta distinzione tra insegnamento e ricerca, ma quello che volevo sottolineare, e che mi inquieta, è come al momento non vi siano regole per porre in atto questo vagheggiato modello. Quando ci sono le regole del gioco, uno può decidere di giocare o di astenersi, e se gioca, sapendo quali sono le regole, può anche rassegnarsi a perdere; ma è evidente che un gioco senza regole, con regole cangianti, con regole varate “a posteriori”, ha tutto l’aspetto di una truffa. La gente non può passare tutta la vita ad aspettare che in alto loco si decidano su quale modello adottare, cambiando continuamente le regole del gioco.

“Nell’anima non ho neanche un capello bianco”, dice Vladmir Majakovskij, ma nella zucca io ne ho assai e non ne avevo quando si cominciò a parlare della sorte dei “giovani ricercatori”. Fu anche detto in alcune sedi, ad uso dei creduloni, che il pensionamento di 350 professori apriva la strada al reclutamento di centinaia di “giovani ricercatori” (e il modo ancor m’offende). In realtà si trattò solo del taglio di 350 posti di lavoro, tutti di docente, che preludeva all’instaurazione di un diverso “modello” di università. Dopo anni, solo adesso si è aperta la possibilità di trasformare un po’ di ricercatori in associati (gente che, di fatto, già svolgeva il ruolo di associato). Ma non si tratta, appunto, di posti nuovi, bensì solo di avanzamenti di gente già di ruolo e non più giovanissima, e anche qui è evidente che coloro i quali operano nei settori che non rientrano in questo nuovo “modello”, non hanno speranza alcuna. I giovani, intanto, come affermava Benedetto Croce, hanno un solo compito: quello di invecchiare.

Facciamo due conti.
– L’Italia ha 130.000 studenti in meno su 1.700.000 negli ultimi cinque anni, cioè intorno all’8%: ma a Siena, se i dati sono quelli riportati, siamo intorno al 30%!
– L’Italia ha perso 10 mila docenti e ricercatori dal 2008 al 2015. Per quanto riguarda i docenti di ruolo, si tratta di oltre il 13% del personale docente, contro una media del 5% del pubblico impiego. Ma se è vero, com’è vero che a Siena stiamo passando da 1062 docenti (nel 2006) a 712 (oggi) siamo al 33% di perdite e l’ateneo senese si sta riducendo a un terzo di quello pisano o fiorentino.
Aggiungo che oramai è un’asfissiante propaganda pressoché quotidiana e bipartisan, quella che vuole un ridimensionamento del sistema degli atenei, con la concentrazione delle risorse in “pochi hub”. Alla luce di tutto ciò risulta sempre più urgente un chiarimento: dove va l’Università di Siena? Una risposta, prima o poi, è dovuta. Si narra di un martire arrostito sulla graticola, che avverte i torturatori: «Potete girarmi, da questo lato sono già cotto», ma non tutti posseggono questo sublime sense-of-humor.