È nato il governo 5Stelle-Pd-LeU

Matteo Renzi e Carlo Calenda

Continuiamo a riflettere con un altro grande vecchio della politica, Emanuele Macaluso, intervistato da Daniela Preziosi per “il manifesto”

Macaluso: «Una destra pericolosa, nessuno ora indebolisca il centrosinistra»

Daniela Preziosi (il manifesto, 10 agosto 2019). Per orientarsi nella crisi di governo di questi giorni non si può trovare una traccia in una delle altre della storia repubblicana. Questo spiega Emanuele Macaluso, che pure di crisi di governo ne ha viste e vissute tante: da dirigente comunista, da sindacale, da direttore dell’Unità. A marzo ha festeggiato – anche qui sul manifesto – i suoi 95 anni. Ma, «una crisi così prima non poteva succedere», ragiona. E il motivo è semplice: prima «c’erano i partiti, le personalità politiche».

Di Maio, Conte e Salvini. Ecco le personalità di questi tempi. Che opinione ne hai?
Di Maio sembra uno che ha vinto la lotteria: vicepresidente del consiglio e due ministeri. E crede di sapere i numeri. Diciamo le cose come stanno: è un ignorantello, non ha cultura, né generale né politica, non ha storia, non esiste al mondo una persona che passa da quello che ha fatto, cioè niente, a vicepresidente del consiglio. Già questo dice cosa è stato questo governo. Non ha mai letto un libro, non so neanche se prima leggeva i giornali.

Inadeguato.
Diciamo le cose come stanno: sono stati loro. È stato Di Maio a costruire le fortune di Salvini. Che è arrivato al 36 per cento grazie a Di Maio. E a Conte. Gli hanno fatto fare quello che voleva. Gli hanno approvato tutte le leggi. Il cosiddetto ministro dei trasporti (Toninelli, ndr) gli ha chiuso i porti. Il presidente del consiglio, che costituzionalmente è il responsabile della politica del governo, non ha detto mai una parola su questo. Come se non ci fosse. Ha consentito che Salvini non facesse il ministro: non andava al Viminale, cambiava casacche, un giorno poliziotto, poi pompiere, poi finanziere. E Conte muto. Salvini è stato costruito dall’impotenza, dall’incapacità, dalla miseria politica dei grillini. Solo oggi che Salvini li ha messi fuori se ne sono accorti.

Conte in queste ore rivendica il suo ruolo. I 5 stelle sono emendabili, redimibili?

Conte si è accorto di essere presidente del consiglio da poco. Sono emendabili? Bisogna vedere come andrà il voto. Se diventano un partito marginale forse si innescherà un processo politico. Il Pd, con altre forze di centrosinistra – +Europa, Leu, altre – tutti insieme potrebbero superare il 30 per cento. A quel punto il sistema tornerà ad essere destra, estrema, contro centrosinistra. Anche con quelli che oggi pensano che ci voglia un partito centrista: ma un partito non si inventa a tavolino, o c’è o non c’è.

In quel caso c’è qualcosa da recuperare nei 5 stelle?
C’è una destra estrema molto pericolosa. Il problema centrale è la battaglia per la democrazia e le libertà, perché oggi questo è in discussione. E la questione sociale si è innervata con quella della libertà e della democrazia. Dunque i 5 stelle sono emendabili? Non lo so, se saranno un partito minore, se sparisce Di Maio e torna a fare quello che faceva – cioè niente –, se si sganciano da Rousseau e dalla dipendenza da Casaleggio. Forse la sconfitta può innescare processi che ora non possiamo rivedere.

Dicevi che la destra nazionalista è pericolosa. Questa legislatura ci lascia istituzioni indebolite, come ha detto Rino Formica a questo giornale?
In questa legislatura il parlamento non ha contato niente, tranne che per fare le leggi che servivano a Salvini. L’occupazione dell’informazione pubblica è sfacciata, basta guardare il Tg2. Ci sono le minacce ai giornalisti. Davanti al cronista di Repubblica (Lo Muzio, che ha ripreso il figlio di Salvini su una moto d’acqua della polizia, ndr) Salvini poteva chiedere scusa. E invece no, ha voluto dare un segnale: per i giornalisti che non sono servi c’è il disprezzo, il tentativo di ammutolirli. Questi miserabili dei grillini hanno tentato di uccidere Radio Radicale, il manifesto, l’Avvenire, i giornali locali. Quello che è avvenuto in questa legislatura è la premessa a possibili sviluppi peggiori.

Ora Salvini chiede agli elettori: «Datemi pieni poteri». Cosa vuol dire questa frase?
Ecco, l’altro problema, che per me è il principale del sistema democratico italiano, è un pauroso abbassamento della cultura politica di massa. Un bracciante siciliano dei miei tempi aveva più cultura politica di quanta ne abbia Conte o Di Maio. La tanto criticata educazione politica dei vecchi partiti non erano le Frattocchie, era il rapporto con le masse popolari, che ora si chiama ‘il territorio’. C’erano i giornali delle forze politiche, le riviste, le sezioni, si parlava con le persone. Tutto questo è finito, non da oggi, da trent’anni. Oggi i politici parlano alla pancia perché alla testa non parla nessuno. Oggi non si conosce e non si riflette su cosa succede nel resto mondo.

Sulla «situazione internazionale», come si diceva ai tempi del Pci?
Perché si sapeva che c’era un rapporto con la realtà che vivevi. Ecco, un’altra istituzione in pericolo è in Europa. Non so se Salvini pensa all’uscita dell’Italia dall’Unione, ma ha già annunciato che la conflittualità antieuropea sarà durissima. Ho letto sul Corriere l’intervista a Bannon. Rivela i rapporti con l’estrema destra americana e con Putin. Tutte forze antieuropee.

Salvini è eterodiretto?
Non dico questo, ma ha un’ispirazione politica nelle forze di estrema destra in America. E con Putin, che vuole fottere l’Europa.

Tu sei amico di un presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, considerato molto interventista. L’attuale presidente Mattarella ha un altro stile. Ma credi che ci sia bisogno di una sua azione più esplicita?
Conosco bene Mattarella. È un democratico, uno su cui il paese può fare affidamento. Forse non è riuscito ad avere uno staff all’altezza. E in una situazione del genere, glielo dico con grande amicizia, il presidente della Repubblica deve usare le sue competenze costituzionali fino in fondo. Se è vero quello che penso sui pericoli che corre il paese, certo al presiedente si pongono problemi seri e nuovi. La garanzia di alcune istituzioni, compreso il ruolo del Parlamento, si porrà in maniera più acuta. Ma ho fiducia che lui possa affrontare questi temi con energia. Non è un pavido, nel 1990 non esitò a dimettersi da ministro (contro la legge Mammì, ndr).

E siamo arrivati al Pd. 
Ma la storia comincia con il Pds e i Ds. L’obiettivo del governo era un problema importante per gli eredi di un partito, il Pci, che era stato sempre fuori dal governo, tranne che subito dopo la Liberazione e poi con Moro, nell’area di governo. Ma non poteva essere l’unico obiettivo: quei dirigenti non hanno più posto attenzione ai processi sociali, culturali e sociali. Altrimenti non si spiega che sia avanzata questa destra, anche nel Mezzogiorno dove la Lega tifava per l’Etna e il Vesuvio. È avvenuto un processo in cui le generazioni che c’erano e quelle che sono venute dopo hanno perso le fondamenta di una forza democratica di sinistra. È stata spazzata via la presenza nel territorio, il rapporto personale, nei quartieri, nelle fabbriche, nella scuola. Oggi c’è la rete, ma non basta. Obama faceva comizi, anche piccoli. Così Sanders e i democratici. Comizi in camicia come li facevamo noi negli anni 50 e 60. Salvini l’ha capito, infatti è l’unico che fa ancora comizi.

Il segretario Zingaretti intanto fa appello all’unità del partito. Renzi riuscirà ad accettarlo?
Lo spero. Con lui non ho mai parlato. Non nego che abbia delle qualità. Ma da come interviene si capisce che non ha esaminato autocriticamente le ragioni della sua caduta. Continua a dare le responsabilità agli altri, non vede il suo eccessivo personalismo. Da questo punto di vista non ha riflettuto. Invece dovrebbe. Potrebbe avere un avvenire politico, ma dentro una forza politica. Così si faceva nella Dc, visto che viene da lì. I ‘cavalli di razza’ si alternavano, Moro, Fanfani, De Mita. Fra loro c’è stata competizione, a momenti anche molto dura, ma avevano capito che se si spaccavano finivano. Dopo il ’68 Moro, che era stato presidente del consiglio, fu messo fuori dai dorotei; lui fece una corrente e al congresso prese il 7 per cento. Poi però diventò presidente del consiglio e capo del partito fino a quando fu rapito e ucciso. Questa è la dialettica. Non so se l’ha capito Renzi: se spacca, darà certo un colpo al Pd ma anche lui conterà niente. Se ne è capace, deve reggere una dialettica: competa, il futuro non lo sa nessuno.

Zingaretti ha i numeri per questa fase così delicata? 
Oggi in tutto il mondo politico non c’è più il meglio: i grandi partiti, i Togliatti, i De Gasperi, i Moro e i Nenni. Siamo in piena crisi della politica, altrimenti non avremmo i Di Maio e i Salvini. E la sinistra vive in questa crisi. Quindi bisogna stare attenti a quello che c’è, valutare quello che è possibile. Zingaretti è il meno peggio che oggi il Pd possa esprimere. Ha equilibro, sensibilità, un minimo di cultura politica, ha fatto il parlamentare europeo, ha fatto bene il presidente di regione. Io non sono iscritto al Pd, ho scritto un libro che si intitola «Al capolinea» e per me il Pd soffre il modo com’è nato. Ma siccome ora non c’è altro – ripeto: non c’è altro – dico a tutti che demolirlo significa rafforzare la destra. Quindi bisogna semmai dare argomenti, suggerire temi, mettere in campo questioni, anche fuori dal partito. E bisogna avere la capacità di cogliere quello che di positivo c’è fuori dal partito. Avere molta attenzione al mondo sindacale: il Pd, e non solo Renzi, ha la responsabilità di non averlo capito. E in Italia la questione sociale si intreccia alla questione dell’immigrazione. Perché la questione sociale resta sempre essenziale per una forza di sinistra.

Riflettiamo con Rino Formica, intervistato da Daniela Preziosi per “il manifesto”

Rino Formica

Rino Formica: «È l’ultima chiamata prima della guerra civile. Ora il Presidente parli».

Daniela Preziosi (il manifesto, 8 agosto 2019). «Quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica, o decide la forza. Se non ci sono soluzioni democratiche c’è la guerra civile». Con Rino Formica – classe 1927, socialista, più volte ministro, da più di mezzo secolo le sue definizioni della politica e dei politici sono sentenze affilate, arcinote e definitive – il viaggio per approdare all’oggi, un oggi drammatico, inizia da lontano. Con il Pietro Nenni «di quei dieci giorni lunghi quanto un secolo fra il 2 e il 12 giugno del ’46», racconta, «fra il referendum e la proclamazione della Repubblica c’è il tentativo del re di bloccare la proclamazione della Repubblica. Umberto resisteva al Quirinale. I tre grandi protagonisti, De Gasperi Togliatti e Nenni, presero la decisione di convocare il Consiglio dei Ministri e di dare i poteri di capo dello stato a De Gasperi, che era presidente del consiglio. De Gasperi andò al Quirinale sfrattò Umberto. In quei giorni noi, dalle federazioni del partito socialista, chiedemmo che fare. C’era il rischio reale che si bloccasse il processo democratico. Nenni appunto diramò la disposizione: quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica o la parola passa alla forza». Questa è la «questione», sostiene Formica.

Stiamo assistendo a una rottura istituzionale?
Questa rottura è antica, maturava già dagli anni 70, ma il tema viene strozzato. Il contesto internazionale è bloccato, un paese di frontiera come l’Italia deve fronteggiare equilibri interni ed internazionali. Nell’89 questo blocco salta, ma le classi dirigenti non affrontano il tema della desovranizzazione degli stati che diventavano affluenti dell’Europa unitaria. I grandi partiti entrano in crisi. Il Pci è in crisi logistica e di orientamento; il Psi perde la rendita di posizione; la Dc è alla fine della sua funzione storica.

Torniamo alla nostra crisi istituzionale.
Da allora abbiamo due documenti importanti. Il primo è del ’91, il messaggio alle camere di Cossiga che spiega che l’equilibro politico e sociale è superato. Poi, nel 2013, il discorso del secondo mandato di Napolitano. Due uomini diversi, con due approcci diversi, con coraggio pongono al parlamento il tema del perdurare della crisi. E i parlamentari, fino ad oggi, continuano a far finta che tutto va bene, che è solo un temporale, passerà. Oggi siamo alla decomposizione istituzionale del paese.

Quali sono i segnali della «decomposizione»?
Innanzitutto il governo: non c’è. Oggi ci sono tribù che occupano posizioni che una volta erano del governo. Il presidente del consiglio convoca le parti sociali, ma il giorno dopo le convoca il ministro degli interni. E i sindacati vanno. Quando il sindacato non ha un interlocutore istituzionale ma va da chi lo chiama si autodeclassa a corporazione: vado ovunque si discuta dei miei interessi. Allora: non c’è un governo, perché la sua attività è stata espunta; non ci sono i partiti né i sindacati. È la crisi dei corpi dello stato. Si assiste a un deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura.

Sta dicendo che non c’è alternativa alla guerra civile?
C’è. Oggi siamo in condizione di mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica? Chi può animarla? I leader politici sono deboli o screditati. Serve l’autorità morale e politica che può creare un nuovo pathos nel paese. Uno strumento democratico c’è, sta nella Carta. È il messaggio del presidente della Repubblica alle camere. Nell’81 la camera pubblicò un volume sui messaggi dei presidenti. Nella prefazione il costituzionalista Paolo Ungari spiega che il messaggio alle camere ha una grande importanza. Il presidente ha due modi per dialogare con il parlamento. Il primo è quando interviene nel processo legislativo. Quando rinvia alle camere un disegno di legge per incostituzionalità. È vero che non ha il diritto di veto ma – dice Ungari – porta il dissenso dinanzi al parlamento e anche all’opinione pubblica, «un terzo e non silenzioso protagonista».

Dovrebbe succedere con il decreto sicurezza bis?
Leggo che Mattarella ha dubbi. Forse ha dubbi su di sé: le norme incostituzionali stavano già nel testo che ha firmato e inviato alle camere. Lì si accettava il superamento della funzione del presidente del consiglio: non c’è più, viene informato dal ministro degli interni. È la negazione della norma costituzionale. Ma è vero che se oggi lo rimandasse alle camere la maggioranza potrebbe ben dire: abbiamo votato quello che tu hai già firmato.

Allora cosa può fare?
La situazione di oggi è figlia dell’errore del 2018. Il presidente dà l’incarico esplorativo a Cottarelli e questo incarico viene sospeso dall’esterno da due signori che notificano al Quirinale di non procedere perché stanno stilando un «contratto» di cui indicano l’arbitro, il presidente del consiglio. È il declassamento dall’accordo politico a contratto di natura civilistica, uno stravolgimento costituzionale. L’accordo di governo è altra cosa: stabilisce una cornice politica generale. L’errore è dei contraenti, ma chi lo ha avallato poteva fare diversamente? Se il presidente del consiglio è arbitro si accetta il fatto che la crisi istituzionale si supera attraverso una extrademocrazia aperta a tutti i venti.

Un punto di non ritorno?
Il problema ora è mettere uno stop. Il presidente della Repubblica dovrebbe fare un messaggio sullo stato di salute delle istituzioni. Il presidente del consiglio non c’è più, il governo neanche, la funzione della maggioranza è mutata fra decretazione e voto di fiducia. Ormai, di fatto, una camera discute, l’altra solo vota. Si sta consumando un mutamento dell’equilibrio istituzionale. Il presidente ci deve dire se questa Costituzione è diventata impraticabile.

Intanto il Viminale allarga i suoi poteri.
Salvini crea una novità nel nostro tessuto democratico. All’interno di un sistema di sicurezza crea una fazione istituzionale di partito: spezza un corpo dello stato in fazioni politiche. Il rischio è che nasca una polizia salviniana. Che avrebbe come conseguenza la nascita della Rosa bianca, come sotto Hitler. E non solo. Ormai Salvini fa in continuazione dichiarazioni di politica estera che si pongono al di fuori dei trattati a cui aderisce l’Italia.

Mattarella ha gli strumenti per fermarlo?
Mattarella viene da una educazione morotea, quella della inclusione di tutte le forze che emergono, anche le più incompatibili. Ma ne dà un’interpretazione scolastica. Moro spiega la sua visione nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari Dc, prima del sequestro. Convince i suoi all’inclusione del Pci nel governo ma, aggiunge, se dovessimo accorgerci che fra gli inclusi e gli includenti c’è conflitto sul terreno dei valori, noi passeremo all’opposizione. L’inclusione insomma non può prescindere dai valori. Altrimenti porta alla distruzione dei valori anche di quelli che li hanno. Infatti il contratto non è un’intesa fra i valori ma tra gli interessi.

Insomma questo governo è un cavallo di troia nelle istituzioni?
È la mela marcia che infetta il cesto.

Mattarella può ancora intervenire?
Non c’è tempo da perdere, deve rivolgersi al parlamento. L’opinione pubblica deve essere rimotivata, deve sapere che ha una guida morale, politica e istituzionale. Si sta creando il clima degli anni 30 intorno a Mussolini.

I consensi di Salvini crescono, l’opinione pubblica ormai si forma al Papeete beach.
Ma no, Salvini cresce perché non c’è un’alternativa. Un messaggio del presidente darebbe forza a quelle tendenze maggioritarie nell’Ue che hanno bisogno di sapere se in Italia c’è qualcuno che denuncia il deperimento democratico. Anche perché, non dimentichiamolo, l’Unione ha l’arma della procedura di infrazione per deperimento democratico, già usata per la Polonia.

In questo suo ragionamento l’opposizione non ha ruolo?
Il paese è stanco, il Pd non è in condizioni di rimotivarlo. Nessuno ne ha la forza. La stampa è sotto attacco, si difende, ma per quanto ancora? Hanno aggredito Radio radicale, i giornali, dal manifesto all’Avvenire, intimidiscono anche la stampa più robusta. Solo una forte drammatizzazione istituzionale può riuscire. All’incontro con i cronisti parlamentari Mattarella ha fatto un discorso importante. Ecco, tutti insieme dovrebbero chiedergli di ripeterlo ma in forma di messaggio alle camere. Per dare un rilievo ufficiale agli attacchi alla libera stampa. La signora Van der Leyen non potrebbe non intervenire.

Anche perché resta il dubbio che la Lega sia strumento della Russia contro l’Ue.
I rapporti fra Salvini e la Russia di Putin sono servili. La Russia ha un forte interesse a un’Italia destabilizzata per destabilizzare l’Europa. Il disegno non è di Salvini, lui è solo un servo assatanato di potere.

Ministro, con Salvini sono tornate le ballerine, stavolta in spiaggia?
Quando parlai di «nani e ballerine» intendevo che non si allarga alla società civile mettendo in un organo politico i professionisti del balletto. Qui siamo alla versione pezzente del Rubigate. Quello di Berlusconi era un populismo di transizione ma non si può negare che intercettasse sentimenti popolari. Salvini invece eccita i risentimenti plebei.

Chiede al Colle di agire un conflitto inedito nella storia repubblicana?
Ma se questa situazione va avanti, fra due anni Salvini si eleggerà il suo presidente della Repubblica, la sua Consulta, il suo Csm e il suo governo. Siamo al limite. Lo dico con Nenni: siamo all’ultima chiamata prima della guerra civile nazionalsovranista.

Il governo gialloverde sull’Università

Più controlli sui professori universitari? Attenzione all’autonomia (da: Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2018)

Dario Braga. Nel capitolo «Università e ricerca» del contratto di governo sottoscritto da Lega e M5S si legge: «Occorre inserire un sistema di verifica vincolante sullo svolgimento effettivo, da parte del docente, dei compiti di didattica, ricerca e tutoraggio agli studenti». Ragioniamoci sopra un momento. Leggendo questo punto, un “non addetto ai lavori” è automaticamente portato a pensare che all’università non esistano regole e che ognuno faccia o non faccia senza controlli di sorta. Da qui la necessità di introdurre nell’accordo come elemento qualificante anche la «verifica vincolante» dei compiti dei docenti. Cosa hanno in mente gli estensori? Che conoscenza hanno dei sistemi di verifica attualmente in atto? Parliamone.

Sul lato della didattica, il docente è tenuto a indicare luogo, data, ora e argomento di ogni lezione in un registro ufficiale che, a fine corso, è firmato dal titolare del corso e consegnato alla Scuola di appartenenza. Il registro è quindi controfirmato dal presidente della Scuola che, in questo modo, ne certifica la correttezza. Per ogni singolo corso viene anche raccolta annualmente l’opinione degli studenti su svolgimento, contenuti, capacità espositiva del docente e viene chiesto di dichiarare quanta parte del corso è stata svolta dal docente titolare. Il coordinatore del corso di studio ha accesso a queste valutazioni ed è tenuto a intervenire direttamente con il docente nei casi critici.

Sul lato della ricerca, da diversi anni l’Agenzia di valutazione della università e ricerca (Anvur) richiede periodicamente ai singoli e ai Dipartimenti la esposizione puntuale della attività svolta. Gli atenei poi raccolgono annualmente le informazioni sulla produzione scientifica dei docenti e le utilizzano nella distribuzione delle risorse per la ricerca e dei posti. Nel dottorato di ricerca, poi, la verifica della qualità scientifica dei collegi dei docenti è requisito per ottenere da Anvur l’accreditamento annuale necessario per continuare a operare.

Le università sembrano quindi avere tutti gli strumenti che servono per la «verifica vincolante» e sono anzi tenute a utilizzarli sia per l’autogoverno sia per accedere a quote del fondo di finanziamento ordinario. Semmai questi strumenti andrebbero semplificati, ma questa è altra storia. Se una critica abbonda nei “social” è proprio verso l’accanimento parametrico e la «ossessiva raccolta di informazioni» sulle attività di docenza e di ricerca del singolo e degli atenei.

Ma allora di che stiamo parlando? Non vorrei essere accusato di processo alle intenzioni. Ma c’è da preoccuparsi. E se a non piacere fosse invece il principio di autonomia, base del funzionamento di tutti i sistemi universitari? Spero di sbagliarmi.

Chi non conosce il lavoro universitario potrebbe, ad esempio, pensare che sia ora di finirla con questi ricercatori e professori che vanno e vengono a piacimento, frequentano convegni e workshop, visitano altre università, non “timbrano”, e, tranne che a lezione, non sembrano avere un vero e proprio orario di lavoro. In realtà è così non solo perché “studio e creatività non hanno orario”, ma anche perché spesso le giornate di lavoro vengono assorbite dai compiti amministrativi e dall’interazione con gli studenti. Ci si porta sempre il lavoro a casa: lezioni da preparare e/o compiti d’esame da correggere, pubblicazioni da leggere, progetti da scrivere, “talk” da preparare. Alla sera o durante il weekend. Ore e ore di lavoro per le quali è difficile pensare a una «verifica vincolante».

Ci sono docenti poco seri e/o disonesti che approfittano di questa autonomia? Certo che ci sono, come in ogni professione. Per queste situazioni esiste la gerarchia delle responsabilità di chi governa dipartimenti, scuole, e atenei. Si operi su questa, gli strumenti ci sono già tutti. L’università italiana produce, nonostante tutto, ottimi laureati e tanta ricerca. Di tutto ha bisogno tranne che di (ulteriore) delegittimazione.

È nato il governo 5Stelle-Lega

Università: in attesa di un nuovo Einstein (ma è più probabile che ci arrivino altri Weinstein)

Il paragone (azzardato) di Taverna: «Pure Einstein poteva nascere al Quarticciolo» (La Repubblica, 24 novembre 2017)

La senatrice del Movimento 5 stelle Paola Taverna, durante un convegno, ha sottolineato quanto spesso venga associata al suo quartiere di origine, il Quarticciolo a Roma, aggiungendo un paragone curioso con Albert Einstein. «Sono sempre stata presentata come quella che ‘viene dal Quarticciolo’, come se avessi addosso la lettera scarlatta. E cosa vuol dire? Perché, se Einstein veniva dal Quarticciolo non sarebbe stato capace di formulare la teoria della relatività?”. Taverna poi si è accorta del parallelismo, un po’ azzardato, e ci ha scherzato su.

Rabbi Jaqov Jizchaq. Un errore madornale, frutto di una concezione “eroica” della ricerca, un Archimede solitario nella vasca da bagno che ad un certo punto se ne esce in braghe esclamando “Eureka!”. Se non si comprende che la scienza è un fatto corale, che nasce in un ambiente, che serve un humus culturale, continueremo a desertificare allegramente le strutture universitarie aspettando un nuovo Einstein (ma è più probabile che ci arrivino altri Weinstein).

Siena: le prime cinque domande dei 5 stelle ai tre candidati rettore

Felice Petraglia - Alessandro Rossi - Francesco Frati

Felice Petraglia – Alessandro Rossi – Francesco Frati

Logo5stellesienaLettera aperta ai “magnifici” candidati (meetup 20/05/2016)

Fra non molto l’Università di Siena eleggerà il nuovo Rettore. In considerazione del fatto che si tratta di un ruolo fondamentale per il futuro della città, crediamo giusto rivolgere ai candidati alcuni quesiti. Questi sono i primi cinque, tanto per cominciare …

1. il 4 novembre 2004 l’Università di Siena ratificò, insieme a molte altre Università italiane, la Convenzione di Messina sull’Open Access: “verso l’accesso aperto alla letteratura di ricerca“, riconoscendo e sottoscrivendo la Dichiarazione di Berlino. A distanza di 12 anni non sembra che l’Ateneo senese abbia fatto molto in termini di Open Access che, lo ricordiamo, prevede due clausole fondamentali per la divulgazione dei prodotti della ricerca sviluppati all’interno dell’Ateneo usufruendo di risorse pubbliche:
a) L’autore(i) ed il detentore(i) dei diritti relativi a tale contributo garantiscono a tutti gli utilizzatori il diritto d’accesso gratuito, irrevocabile ed universale e l’autorizzazione a riprodurlo, utilizzarlo, distribuirlo, trasmetterlo e mostrarlo pubblicamente e a produrre e distribuire lavori da esso derivati in ogni formato digitale per ogni scopo responsabile, soggetto all’attribuzione autentica della paternità intellettuale (le pratiche della comunità scientifica manterranno i meccanismi in uso per imporre una corretta attribuzione ed un uso responsabile dei contributi resi pubblici come avviene attualmente), nonché il diritto di riprodurne una quantità limitata di copie stampate per il proprio uso personale.
b) Una versione completa del contributo e di tutti i materiali che lo corredano, inclusa una copia della autorizzazione come sopra indicato, in un formato elettronico secondo uno standard appropriato, è depositata (e dunque pubblicata) in almeno un archivio in linea che impieghi standard tecnici adeguati (come le definizioni degli Open Archives) e che sia supportato e mantenuto da un’istituzione accademica, una società scientifica, un’agenzia governativa o ogni altra organizzazione riconosciuta che persegua gli obiettivi dell’accesso aperto, della distribuzione illimitata, dell’interoperabilità e dell’archiviazione a lungo termine.
Nel bilancio dell’Ateneo Senese la spesa per l’accesso alle riviste scientifiche assume un ruolo preponderante nel capitolo delle uscite, vedendo talvolta l’Ateneo costretto ad acquistare i lavori dei suoi stessi ricercatori.
Nel caso fosse eletto Magnifico Rettore, come intende perseguire gli scopi citati nella Dichiarazione di Berlino e nella conseguente Convenzione di Messina per ridurre i costi relativi all’acquisto dell’editoria scientifica?

2. Rispetto alle altre due università toscane – Pisa e Firenze – l’Ateneo senese si trova in una condizione di incertezza per la sua collocazione nel contesto regionale. Come ha recentemente dichiarato il Prof. Emilio Barocci in una intervista, “[…] Siena è invece un boxeur che è appena andato ko, si è ripreso ma ancora non sa bene quale futuro potrà avere”. Qual è la sua visione ideale di collocamento dell’Ateneo senese nel contesto formativo universitario regionale ?

3. Prosegue, se pur a rilento, l’inchiesta sul “buco di bilancio” di cui è stato protagonista l’Ateneo negli anni 2004-2007, dove risultano attualmente 14 indagati tra cui i due ex rettori Piero Tosi e Silvano Focardi, imputati a vario titolo di abuso d’ufficio, falso ideologico e peculato. Il “buco” di cui si parla è una cifra enorme, circa 200 milioni di €, faticosamente ripianati con importanti sacrifici economici da parte dell’intera struttura e con il conseguente innalzamento delle rette che gli studenti devono pagare per studiare nell’Ateneo.
Nel processo, l’Università di Siena si è costituita parte civile: nel caso la Procura dovesse confermare le ipotesi di reato, come utilizzerebbe i risarcimenti che – auspicabilmente – potrebbero arrivare ?

4. L’Università di Siena è una tra le più antiche d’Europa, nata nel 1240 dalle scuole di Medicina e Diritto: ancora oggi l’Area Biomedica sembra essere un importante motore trainante per l’intera istituzione, tanto da riuscire – almeno così si dice – ad eleggere un Rettore. Fermo restando che due dei tre candidati provengono proprio dall’Area Biomedica, considerando inoltre le dichiarazioni più volte rilasciante anche dal Governatore Rossi sull’intenzione di realizzare a Siena un importante polo di Ricerca per le Scienze della Vita (Tuscany Life Science) alle quali però si susseguono “attacchi” e depotenziamenti alla sanità senese, come vede il futuro dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese e, soprattutto, come si riuscirà a renderla sostenibile economicamente?

5. Al di là degli eventi e dei proclami di questi ultimi anni, i dati indicano una progressiva diminuzione del numero degli studenti e riduzione costante delle matricole. I dati, sempre nel contesto toscano, parlano chiaro: gli immatricolati delle lauree di primo livello negli ultimi 10 anni sono rimasti stabili a Pisa, diminuiti del 14% a Firenze e precipitati a –62% a Siena.
Se venisse eletto Rettore, quali politiche intende attuare per rendere più accattivante l’Ateneo senese e provare ad invertire la tremenda spirale al ribasso delle iscrizioni?

Quante stelle ha l’Università di Siena?

09maggio2016

L’Università italiana e il progetto del MoVimento 5 Stelle: qual è la situazione attuale del mondo accademico italiano, cosa non funziona e dove si può intervenire? Parleremo di diritto allo studio, della proposta di legge che istituisce una #notaxarea ed un sistema di tassazione più equo, della “questione meridionale” e della crisi del settore della ricerca.

Lunedì 9 maggio 2016, dalle ore 21:00 presso la Sala di Palazzo Patrizi, Via di Città 75, ci troveremo insieme ai deputati portavoce del MoVimento 5 Stelle Gianluca Vacca e Francesco D’Uva, membri della Commissione Cultura, Scienza ed Istruzione alla Camera dei Deputati, per parlare – insieme a tutti gli intervenuti – dei problemi e delle prospettive dell’Università Italiana. MoVimento Siena 5 Stelle

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Orgoglio senese con requiem per l’università

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Il rischio che i grillini corrono è che «diventino più partitocrati dei partitocrati che combattono»

Gianfranco Spadaccia

Gianfranco Spadaccia

«Il M5S? Sono solo apprendisti stregoni» (Da: il manifesto, 8 febbraio 2014)

Carlo Lania. «Noi ci definivamo degli ultrà della democrazia e avevamo una solida cultura liberal-democratica che al M5S non solo manca, ma mi sembra la metta anche in discussione. Grillo deve stare attento, perché rischia di fare la stessa fine della Lega e dell’Idv, che a forza di contrastare la partitocrazia hanno finito per acquisirne tutti i vizi». Se in Italia c’è un partito che in passato ha fatto dell’ostruzionismo una pratica quasi quotidiana questo è il partito Radicale, di cui Gianfranco Spadaccia è stato uno dei fondatori e parlamentare. 79 anni, giornalista, oggi è impegnato in una rilettura degli scritti di Leonardo Sciascia ma osserva con attenzione non solo quanto accade in parlamento, ma anche nella rete, regno di Beppe Grillo. «Questi referendum che organizza su vari temi sono ridicoli», dice. «Come fa a parlare di democrazia diretta quando a votare sono solo 50mila persone contro i 9 milioni di elettori del M5S?».

Spadaccia, le piace il modo di fare opposizione del M5S?
Devo dire che ho stima di alcuni di loro perché mi ricordano tanti ragazzi che hanno militato nel partito Radicale e nei Verdi. Gente arrivata alla politica non solo per esigenze morali, ma per voglia di rinnovamento. Detto questo, non condivido assolutamente il metodo con cui il M5S fa opposizione e la patente di democrazia diretta che Grillo attribuisce a se stesso. Viviamo in un mondo in cui la partitocrazia ha travolto tutte le regole della formazione delle classi dirigenti, del dibattito democratico, della trasparenza nella gestione della cosa pubblica, e poi facciamo qualcosa di ancora più evanescente e più opaco, perché il web va a impulsi, e chi controlla gli impulsi governa la democrazia diretta del web.

Ovviamente parla di Grillo e Casaleggio.
Sicuro. Io sono una persona che crede che la democrazia parlamentare debba essere integrata da forme di democrazia diretta. E sono convinto che in questo quadro il web possa essere utilmente utilizzato, ma deve essere regolamentato, non può essere affidato all’autogestione di un singolo partito.

In questi giorni si paragona il M5S al fascismo. Le sembra corretto?
Sono molto prudente sia nel rispondere positivamente che negativamente. Se vado a guardare tutte le persone che hanno collaborato al Popolo d’Italia negli anni precedenti il fascismo e le buone ragioni che molti dei sostenitori iniziali del fascismo avevano… Tanto per intenderci: prima di incontrare Salvemini anche Ernesto Rossi scriveva sul Popolo d’Italia. Quello che posso dire è che alcuni meccanismi autoritari sono molto pericolosi e vedo nei grillini il rischio di diventare degli apprendisti stregoni che non controllano più quello che mettono in movimento.

Che differenza vede tra il modo in cui voi facevate ostruzionismo e quello del M5S?
Mi colpisce sempre che loro con l’ostruzionismo pensano di non far passare un provvedimento, mentre noi facevamo un’opposizione durissima ma quando il governo poneva la fiducia ci fermavamo. L’importante era far passare il messaggio, far capire al Paese il perché del nostro comportamento. Ma la differenza fondamentale è un’altra: come noi anche loro, almeno a parole, sono degli ultrà della democrazia, però mentre noi avevamo una solida cultura liberal-democratica, qui non solo mi pare che manchi, ma viene perfino messa in discussione, tanto che parlano di democrazia delegata.

C’è poi il problema delle alleanze: Grillo le rifiuta, voi le cercavate.
Certo, le faccio un esempio: sul divorzio con Loris Fortuna e nella Lid negli anni ’60 realizzammo da extraparlamentari un’alleanza con Psi, Pli e partiti laici che coinvolse l’opposizione comunista. E su questa alleanza puntammo negli anni 70 per costruire una alternativa ai governi Dc, in polemica con la strategia del compromesso storico.

Possiamo dire che un movimento come il quello di Grillo un po’ ce lo siamo voluto?
Se lo sono voluto. L’assetto partitocratico si è sempre scelto, un po’ per inerzia e un po’ a ragion veduta, i propri oppositori. Questo è avvenuto con la Lega, ma anche con l’IdV di Di Pietro. Il rischio che adesso i 5 stelle corrono è che si ripeta quello che è successo per la Lega e per l’Idv, che dalla lotta alla partitocrazia finiscano col diventare più partitocrati dei partitocrati che combattono. Grillo non può pensare di salvarsi con gli stipendi bassi dei parlamentari. Anche esagerando in questo, con il rischio che una serie di spese vengano scaricate sul finanziamento dei gruppi. Perché se tu tagli troppo stipendi e rimborsi a chi deve venire in parlamento, poi delle compensazioni bisogna trovarle.

Torniamo all’ostruzionismo. Anche voi non ci andavate certo leggeri.
Guardi, io non dico che noi era­vamo buoni ed edu­cati per­ché non lo era­vamo affatto. Ricordo Roberto Cicciomessere che alla Camera arrivò a strappare il regolamento davanti al banco della presidenza. Fu un gesto forte, molto offensivo, ma simbolico. Ma penso anche agli scontri avuti alla Camera con Mario Pochetti, che era il mastino del presidente del gruppo comunista, ma anche al Senato, dove ho avuto confronti durissimi con Perna, Trombadori, Bufalini, con lo stesso Maurizio Ferrara. Tuttavia c’era rispetto reciproco e sono nate anche delle amicizie.

E si manteneva il rispetto delle istituzioni.
Una volta, parlando con Pannella, Loris Fortuna ci definì i sollecitatatori delle istituzioni, quelli che pretendevano di attivare i meccanismi della democrazia.

Sia sincero: le è mai scappato un insulto sessista?
No, il sessismo non ha mai fatto parte delle nostro bagaglio, ma neanche la violenza, al di là di quella simbolica. Il massimo che ricordo sono le accuse di Mellini e nostre ad alcuni settori del femminismo che, tra gli anni 70 e 80, finivano per essere contrari alla libertà sessuale in nome della parità tra uomo e donna. Noi le accusavamo di essere delle bigotte di sinistra. Ricordo anche che una volta Pannella rimproverò a Nilde Iotti di tenere l’ordine in aula come una maestrina. Ma questo è davvero tutto.

Una cosa in comune con il M5S i radicali comunque ce l’hanno, ed è la battaglia per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.
Non è così. Vede io mi preoccupo di abolire il finanziamento pubblico ma mi chiedo anche quali debbano essere le forme di finanziamento della politica che posso prevedere. Un’idea bisogna averla. Non si può risolvere tutto dicendo io faccio il fondo per le piccole imprese, perché è solo un modo per farsi pubblicità. Lei dice che abbiamo lo stesso obiettivo? Io le rispondo che l’estate scorsa noi radicali abbiamo presentato un referendum per l’abolizione del finanziamento pubblico e ci siamo rivolti anche al M5S, ma loro si sono guardati bene dall’aderire.