Continuiamo a riflettere con un altro grande vecchio della politica, Emanuele Macaluso, intervistato da Daniela Preziosi per “il manifesto”

Macaluso: «Una destra pericolosa, nessuno ora indebolisca il centrosinistra»

Daniela Preziosi (il manifesto, 10 agosto 2019). Per orientarsi nella crisi di governo di questi giorni non si può trovare una traccia in una delle altre della storia repubblicana. Questo spiega Emanuele Macaluso, che pure di crisi di governo ne ha viste e vissute tante: da dirigente comunista, da sindacale, da direttore dell’Unità. A marzo ha festeggiato – anche qui sul manifesto – i suoi 95 anni. Ma, «una crisi così prima non poteva succedere», ragiona. E il motivo è semplice: prima «c’erano i partiti, le personalità politiche».

Di Maio, Conte e Salvini. Ecco le personalità di questi tempi. Che opinione ne hai?
Di Maio sembra uno che ha vinto la lotteria: vicepresidente del consiglio e due ministeri. E crede di sapere i numeri. Diciamo le cose come stanno: è un ignorantello, non ha cultura, né generale né politica, non ha storia, non esiste al mondo una persona che passa da quello che ha fatto, cioè niente, a vicepresidente del consiglio. Già questo dice cosa è stato questo governo. Non ha mai letto un libro, non so neanche se prima leggeva i giornali.

Inadeguato.
Diciamo le cose come stanno: sono stati loro. È stato Di Maio a costruire le fortune di Salvini. Che è arrivato al 36 per cento grazie a Di Maio. E a Conte. Gli hanno fatto fare quello che voleva. Gli hanno approvato tutte le leggi. Il cosiddetto ministro dei trasporti (Toninelli, ndr) gli ha chiuso i porti. Il presidente del consiglio, che costituzionalmente è il responsabile della politica del governo, non ha detto mai una parola su questo. Come se non ci fosse. Ha consentito che Salvini non facesse il ministro: non andava al Viminale, cambiava casacche, un giorno poliziotto, poi pompiere, poi finanziere. E Conte muto. Salvini è stato costruito dall’impotenza, dall’incapacità, dalla miseria politica dei grillini. Solo oggi che Salvini li ha messi fuori se ne sono accorti.

Conte in queste ore rivendica il suo ruolo. I 5 stelle sono emendabili, redimibili?

Conte si è accorto di essere presidente del consiglio da poco. Sono emendabili? Bisogna vedere come andrà il voto. Se diventano un partito marginale forse si innescherà un processo politico. Il Pd, con altre forze di centrosinistra – +Europa, Leu, altre – tutti insieme potrebbero superare il 30 per cento. A quel punto il sistema tornerà ad essere destra, estrema, contro centrosinistra. Anche con quelli che oggi pensano che ci voglia un partito centrista: ma un partito non si inventa a tavolino, o c’è o non c’è.

In quel caso c’è qualcosa da recuperare nei 5 stelle?
C’è una destra estrema molto pericolosa. Il problema centrale è la battaglia per la democrazia e le libertà, perché oggi questo è in discussione. E la questione sociale si è innervata con quella della libertà e della democrazia. Dunque i 5 stelle sono emendabili? Non lo so, se saranno un partito minore, se sparisce Di Maio e torna a fare quello che faceva – cioè niente –, se si sganciano da Rousseau e dalla dipendenza da Casaleggio. Forse la sconfitta può innescare processi che ora non possiamo rivedere.

Dicevi che la destra nazionalista è pericolosa. Questa legislatura ci lascia istituzioni indebolite, come ha detto Rino Formica a questo giornale?
In questa legislatura il parlamento non ha contato niente, tranne che per fare le leggi che servivano a Salvini. L’occupazione dell’informazione pubblica è sfacciata, basta guardare il Tg2. Ci sono le minacce ai giornalisti. Davanti al cronista di Repubblica (Lo Muzio, che ha ripreso il figlio di Salvini su una moto d’acqua della polizia, ndr) Salvini poteva chiedere scusa. E invece no, ha voluto dare un segnale: per i giornalisti che non sono servi c’è il disprezzo, il tentativo di ammutolirli. Questi miserabili dei grillini hanno tentato di uccidere Radio Radicale, il manifesto, l’Avvenire, i giornali locali. Quello che è avvenuto in questa legislatura è la premessa a possibili sviluppi peggiori.

Ora Salvini chiede agli elettori: «Datemi pieni poteri». Cosa vuol dire questa frase?
Ecco, l’altro problema, che per me è il principale del sistema democratico italiano, è un pauroso abbassamento della cultura politica di massa. Un bracciante siciliano dei miei tempi aveva più cultura politica di quanta ne abbia Conte o Di Maio. La tanto criticata educazione politica dei vecchi partiti non erano le Frattocchie, era il rapporto con le masse popolari, che ora si chiama ‘il territorio’. C’erano i giornali delle forze politiche, le riviste, le sezioni, si parlava con le persone. Tutto questo è finito, non da oggi, da trent’anni. Oggi i politici parlano alla pancia perché alla testa non parla nessuno. Oggi non si conosce e non si riflette su cosa succede nel resto mondo.

Sulla «situazione internazionale», come si diceva ai tempi del Pci?
Perché si sapeva che c’era un rapporto con la realtà che vivevi. Ecco, un’altra istituzione in pericolo è in Europa. Non so se Salvini pensa all’uscita dell’Italia dall’Unione, ma ha già annunciato che la conflittualità antieuropea sarà durissima. Ho letto sul Corriere l’intervista a Bannon. Rivela i rapporti con l’estrema destra americana e con Putin. Tutte forze antieuropee.

Salvini è eterodiretto?
Non dico questo, ma ha un’ispirazione politica nelle forze di estrema destra in America. E con Putin, che vuole fottere l’Europa.

Tu sei amico di un presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, considerato molto interventista. L’attuale presidente Mattarella ha un altro stile. Ma credi che ci sia bisogno di una sua azione più esplicita?
Conosco bene Mattarella. È un democratico, uno su cui il paese può fare affidamento. Forse non è riuscito ad avere uno staff all’altezza. E in una situazione del genere, glielo dico con grande amicizia, il presidente della Repubblica deve usare le sue competenze costituzionali fino in fondo. Se è vero quello che penso sui pericoli che corre il paese, certo al presiedente si pongono problemi seri e nuovi. La garanzia di alcune istituzioni, compreso il ruolo del Parlamento, si porrà in maniera più acuta. Ma ho fiducia che lui possa affrontare questi temi con energia. Non è un pavido, nel 1990 non esitò a dimettersi da ministro (contro la legge Mammì, ndr).

E siamo arrivati al Pd. 
Ma la storia comincia con il Pds e i Ds. L’obiettivo del governo era un problema importante per gli eredi di un partito, il Pci, che era stato sempre fuori dal governo, tranne che subito dopo la Liberazione e poi con Moro, nell’area di governo. Ma non poteva essere l’unico obiettivo: quei dirigenti non hanno più posto attenzione ai processi sociali, culturali e sociali. Altrimenti non si spiega che sia avanzata questa destra, anche nel Mezzogiorno dove la Lega tifava per l’Etna e il Vesuvio. È avvenuto un processo in cui le generazioni che c’erano e quelle che sono venute dopo hanno perso le fondamenta di una forza democratica di sinistra. È stata spazzata via la presenza nel territorio, il rapporto personale, nei quartieri, nelle fabbriche, nella scuola. Oggi c’è la rete, ma non basta. Obama faceva comizi, anche piccoli. Così Sanders e i democratici. Comizi in camicia come li facevamo noi negli anni 50 e 60. Salvini l’ha capito, infatti è l’unico che fa ancora comizi.

Il segretario Zingaretti intanto fa appello all’unità del partito. Renzi riuscirà ad accettarlo?
Lo spero. Con lui non ho mai parlato. Non nego che abbia delle qualità. Ma da come interviene si capisce che non ha esaminato autocriticamente le ragioni della sua caduta. Continua a dare le responsabilità agli altri, non vede il suo eccessivo personalismo. Da questo punto di vista non ha riflettuto. Invece dovrebbe. Potrebbe avere un avvenire politico, ma dentro una forza politica. Così si faceva nella Dc, visto che viene da lì. I ‘cavalli di razza’ si alternavano, Moro, Fanfani, De Mita. Fra loro c’è stata competizione, a momenti anche molto dura, ma avevano capito che se si spaccavano finivano. Dopo il ’68 Moro, che era stato presidente del consiglio, fu messo fuori dai dorotei; lui fece una corrente e al congresso prese il 7 per cento. Poi però diventò presidente del consiglio e capo del partito fino a quando fu rapito e ucciso. Questa è la dialettica. Non so se l’ha capito Renzi: se spacca, darà certo un colpo al Pd ma anche lui conterà niente. Se ne è capace, deve reggere una dialettica: competa, il futuro non lo sa nessuno.

Zingaretti ha i numeri per questa fase così delicata? 
Oggi in tutto il mondo politico non c’è più il meglio: i grandi partiti, i Togliatti, i De Gasperi, i Moro e i Nenni. Siamo in piena crisi della politica, altrimenti non avremmo i Di Maio e i Salvini. E la sinistra vive in questa crisi. Quindi bisogna stare attenti a quello che c’è, valutare quello che è possibile. Zingaretti è il meno peggio che oggi il Pd possa esprimere. Ha equilibro, sensibilità, un minimo di cultura politica, ha fatto il parlamentare europeo, ha fatto bene il presidente di regione. Io non sono iscritto al Pd, ho scritto un libro che si intitola «Al capolinea» e per me il Pd soffre il modo com’è nato. Ma siccome ora non c’è altro – ripeto: non c’è altro – dico a tutti che demolirlo significa rafforzare la destra. Quindi bisogna semmai dare argomenti, suggerire temi, mettere in campo questioni, anche fuori dal partito. E bisogna avere la capacità di cogliere quello che di positivo c’è fuori dal partito. Avere molta attenzione al mondo sindacale: il Pd, e non solo Renzi, ha la responsabilità di non averlo capito. E in Italia la questione sociale si intreccia alla questione dell’immigrazione. Perché la questione sociale resta sempre essenziale per una forza di sinistra.

Riflettiamo con Rino Formica, intervistato da Daniela Preziosi per “il manifesto”

Rino Formica

Rino Formica: «È l’ultima chiamata prima della guerra civile. Ora il Presidente parli».

Daniela Preziosi (il manifesto, 8 agosto 2019). «Quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica, o decide la forza. Se non ci sono soluzioni democratiche c’è la guerra civile». Con Rino Formica – classe 1927, socialista, più volte ministro, da più di mezzo secolo le sue definizioni della politica e dei politici sono sentenze affilate, arcinote e definitive – il viaggio per approdare all’oggi, un oggi drammatico, inizia da lontano. Con il Pietro Nenni «di quei dieci giorni lunghi quanto un secolo fra il 2 e il 12 giugno del ’46», racconta, «fra il referendum e la proclamazione della Repubblica c’è il tentativo del re di bloccare la proclamazione della Repubblica. Umberto resisteva al Quirinale. I tre grandi protagonisti, De Gasperi Togliatti e Nenni, presero la decisione di convocare il Consiglio dei Ministri e di dare i poteri di capo dello stato a De Gasperi, che era presidente del consiglio. De Gasperi andò al Quirinale sfrattò Umberto. In quei giorni noi, dalle federazioni del partito socialista, chiedemmo che fare. C’era il rischio reale che si bloccasse il processo democratico. Nenni appunto diramò la disposizione: quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica o la parola passa alla forza». Questa è la «questione», sostiene Formica.

Stiamo assistendo a una rottura istituzionale?
Questa rottura è antica, maturava già dagli anni 70, ma il tema viene strozzato. Il contesto internazionale è bloccato, un paese di frontiera come l’Italia deve fronteggiare equilibri interni ed internazionali. Nell’89 questo blocco salta, ma le classi dirigenti non affrontano il tema della desovranizzazione degli stati che diventavano affluenti dell’Europa unitaria. I grandi partiti entrano in crisi. Il Pci è in crisi logistica e di orientamento; il Psi perde la rendita di posizione; la Dc è alla fine della sua funzione storica.

Torniamo alla nostra crisi istituzionale.
Da allora abbiamo due documenti importanti. Il primo è del ’91, il messaggio alle camere di Cossiga che spiega che l’equilibro politico e sociale è superato. Poi, nel 2013, il discorso del secondo mandato di Napolitano. Due uomini diversi, con due approcci diversi, con coraggio pongono al parlamento il tema del perdurare della crisi. E i parlamentari, fino ad oggi, continuano a far finta che tutto va bene, che è solo un temporale, passerà. Oggi siamo alla decomposizione istituzionale del paese.

Quali sono i segnali della «decomposizione»?
Innanzitutto il governo: non c’è. Oggi ci sono tribù che occupano posizioni che una volta erano del governo. Il presidente del consiglio convoca le parti sociali, ma il giorno dopo le convoca il ministro degli interni. E i sindacati vanno. Quando il sindacato non ha un interlocutore istituzionale ma va da chi lo chiama si autodeclassa a corporazione: vado ovunque si discuta dei miei interessi. Allora: non c’è un governo, perché la sua attività è stata espunta; non ci sono i partiti né i sindacati. È la crisi dei corpi dello stato. Si assiste a un deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura.

Sta dicendo che non c’è alternativa alla guerra civile?
C’è. Oggi siamo in condizione di mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica? Chi può animarla? I leader politici sono deboli o screditati. Serve l’autorità morale e politica che può creare un nuovo pathos nel paese. Uno strumento democratico c’è, sta nella Carta. È il messaggio del presidente della Repubblica alle camere. Nell’81 la camera pubblicò un volume sui messaggi dei presidenti. Nella prefazione il costituzionalista Paolo Ungari spiega che il messaggio alle camere ha una grande importanza. Il presidente ha due modi per dialogare con il parlamento. Il primo è quando interviene nel processo legislativo. Quando rinvia alle camere un disegno di legge per incostituzionalità. È vero che non ha il diritto di veto ma – dice Ungari – porta il dissenso dinanzi al parlamento e anche all’opinione pubblica, «un terzo e non silenzioso protagonista».

Dovrebbe succedere con il decreto sicurezza bis?
Leggo che Mattarella ha dubbi. Forse ha dubbi su di sé: le norme incostituzionali stavano già nel testo che ha firmato e inviato alle camere. Lì si accettava il superamento della funzione del presidente del consiglio: non c’è più, viene informato dal ministro degli interni. È la negazione della norma costituzionale. Ma è vero che se oggi lo rimandasse alle camere la maggioranza potrebbe ben dire: abbiamo votato quello che tu hai già firmato.

Allora cosa può fare?
La situazione di oggi è figlia dell’errore del 2018. Il presidente dà l’incarico esplorativo a Cottarelli e questo incarico viene sospeso dall’esterno da due signori che notificano al Quirinale di non procedere perché stanno stilando un «contratto» di cui indicano l’arbitro, il presidente del consiglio. È il declassamento dall’accordo politico a contratto di natura civilistica, uno stravolgimento costituzionale. L’accordo di governo è altra cosa: stabilisce una cornice politica generale. L’errore è dei contraenti, ma chi lo ha avallato poteva fare diversamente? Se il presidente del consiglio è arbitro si accetta il fatto che la crisi istituzionale si supera attraverso una extrademocrazia aperta a tutti i venti.

Un punto di non ritorno?
Il problema ora è mettere uno stop. Il presidente della Repubblica dovrebbe fare un messaggio sullo stato di salute delle istituzioni. Il presidente del consiglio non c’è più, il governo neanche, la funzione della maggioranza è mutata fra decretazione e voto di fiducia. Ormai, di fatto, una camera discute, l’altra solo vota. Si sta consumando un mutamento dell’equilibrio istituzionale. Il presidente ci deve dire se questa Costituzione è diventata impraticabile.

Intanto il Viminale allarga i suoi poteri.
Salvini crea una novità nel nostro tessuto democratico. All’interno di un sistema di sicurezza crea una fazione istituzionale di partito: spezza un corpo dello stato in fazioni politiche. Il rischio è che nasca una polizia salviniana. Che avrebbe come conseguenza la nascita della Rosa bianca, come sotto Hitler. E non solo. Ormai Salvini fa in continuazione dichiarazioni di politica estera che si pongono al di fuori dei trattati a cui aderisce l’Italia.

Mattarella ha gli strumenti per fermarlo?
Mattarella viene da una educazione morotea, quella della inclusione di tutte le forze che emergono, anche le più incompatibili. Ma ne dà un’interpretazione scolastica. Moro spiega la sua visione nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari Dc, prima del sequestro. Convince i suoi all’inclusione del Pci nel governo ma, aggiunge, se dovessimo accorgerci che fra gli inclusi e gli includenti c’è conflitto sul terreno dei valori, noi passeremo all’opposizione. L’inclusione insomma non può prescindere dai valori. Altrimenti porta alla distruzione dei valori anche di quelli che li hanno. Infatti il contratto non è un’intesa fra i valori ma tra gli interessi.

Insomma questo governo è un cavallo di troia nelle istituzioni?
È la mela marcia che infetta il cesto.

Mattarella può ancora intervenire?
Non c’è tempo da perdere, deve rivolgersi al parlamento. L’opinione pubblica deve essere rimotivata, deve sapere che ha una guida morale, politica e istituzionale. Si sta creando il clima degli anni 30 intorno a Mussolini.

I consensi di Salvini crescono, l’opinione pubblica ormai si forma al Papeete beach.
Ma no, Salvini cresce perché non c’è un’alternativa. Un messaggio del presidente darebbe forza a quelle tendenze maggioritarie nell’Ue che hanno bisogno di sapere se in Italia c’è qualcuno che denuncia il deperimento democratico. Anche perché, non dimentichiamolo, l’Unione ha l’arma della procedura di infrazione per deperimento democratico, già usata per la Polonia.

In questo suo ragionamento l’opposizione non ha ruolo?
Il paese è stanco, il Pd non è in condizioni di rimotivarlo. Nessuno ne ha la forza. La stampa è sotto attacco, si difende, ma per quanto ancora? Hanno aggredito Radio radicale, i giornali, dal manifesto all’Avvenire, intimidiscono anche la stampa più robusta. Solo una forte drammatizzazione istituzionale può riuscire. All’incontro con i cronisti parlamentari Mattarella ha fatto un discorso importante. Ecco, tutti insieme dovrebbero chiedergli di ripeterlo ma in forma di messaggio alle camere. Per dare un rilievo ufficiale agli attacchi alla libera stampa. La signora Van der Leyen non potrebbe non intervenire.

Anche perché resta il dubbio che la Lega sia strumento della Russia contro l’Ue.
I rapporti fra Salvini e la Russia di Putin sono servili. La Russia ha un forte interesse a un’Italia destabilizzata per destabilizzare l’Europa. Il disegno non è di Salvini, lui è solo un servo assatanato di potere.

Ministro, con Salvini sono tornate le ballerine, stavolta in spiaggia?
Quando parlai di «nani e ballerine» intendevo che non si allarga alla società civile mettendo in un organo politico i professionisti del balletto. Qui siamo alla versione pezzente del Rubigate. Quello di Berlusconi era un populismo di transizione ma non si può negare che intercettasse sentimenti popolari. Salvini invece eccita i risentimenti plebei.

Chiede al Colle di agire un conflitto inedito nella storia repubblicana?
Ma se questa situazione va avanti, fra due anni Salvini si eleggerà il suo presidente della Repubblica, la sua Consulta, il suo Csm e il suo governo. Siamo al limite. Lo dico con Nenni: siamo all’ultima chiamata prima della guerra civile nazionalsovranista.

Perché il destino di Radio Radicale ci riguarda tutti

(Da: il manifesto 23 febbraio 2019)

Andrea Pugiotto. Ciò che non è riuscito – pur avendoci provato – a molti governi precedenti, è ora a portata di mano di quello felpa-stellato: chiudere Radio Radicale.

Sarà il trailer per le chiusure che seguiranno, con il programmato taglio dei contributi per l’editoria: Avvenire, Il Foglio, questo stesso quotidiano.

Poiché sono i mezzi a prefigurare i fini, c’è da essere seriamente preoccupati. Si tratta infatti di voci molto diverse tra loro, ma con un denominatore comune: pensare altrimenti, rispetto al populismo e al sovranismo imperanti.

Si difende il diritto all’informazione in un solo modo: informando. È quanto da sempre fa Radio Radicale, fedele al suo motto einaudiano «conoscere per deliberare».

Da un partito eterodosso non poteva che nascere un’emittente inedita nel suo fare informazione: di parte, ma non faziosa; privata, ma capace di fare servizio pubblico; piccola, ma non marginale; senza musica, solo parole; niente pubblicità, tutta informazione; vox populi grazie ai fili diretti e alle interviste per strada, ma non populista; una voce che dà voce a ogni voce; «dentro, ma fuori dal Palazzo».

Un ossimoro radiofonico, insomma, rivelatosi spazio ragionante grazie ai suoi tempi lunghi, e non menzognero grazie alla scelta di trasmettere tutto, da ovunque, per tutti, direttamente.

Così è stata fin dalle origini. Perché l’informazione di potere si batte così, mettendo in rete le istituzioni, i partiti, i sindacati, i movimenti, l’opinione pubblica, consentendo a ciascuno di sapere, capire, farsi un’idea. L’esatto contrario di una controinformazione altrettanto faziosa, destinata a farsi omologato senso comune a rapporti di forza rovesciati.

Se è la durata a dare forma alle cose, si è trattato di una felice intuizione: Radio Radicale, infatti, trasmette ininterrottamente dal 1975.

La sua probabile chiusura – come quella delle testate che seguiranno – segnala lo scontro in atto per la rappresentazione della realtà, di cui si vuole proibire una comunicazione non mediata, capace di mostrarla per ciò che è, fuori dal dominio controllato dei portavoce, dei blog eterodiretti, dei tweet autoreferenziali, dei narcisistici selfie.

Nel caso di Radio Radicale c’è dell’altro. Non è in gioco solo la rappresentazione del presente, ma anche la memoria del passato e del futuro.

Il suo archivio è il più grande tabernacolo audiovisivo di democrazia, dove sono custoditi nella loro integralità oltre quarant’anni di storia politica, giudiziaria, istituzionale. Una memoria collettiva di quel che è stato detto e fatto, fruibile da chiunque.

Sappiamo da Orwell che «chi controlla il passato, controlla il presente; chi controlla il presente, controlla il futuro». Ecco perché l’archivio di Radio Radicale è un’arma nonviolenta per resistere a coloro che nulla sanno e poco vogliono sapere, desiderosi di plasmare una storia semplificata e binaria, dove autorappresentarsi nuovi, giusti, innocenti, arcangeli vendicatori.

Qui lo stop all’attività di registrazione e catalogazione sarà già un colpo mortale per tutti, non solo per Radio Radicale: il suo archivio, infatti, è un fondo alimentato ogni giorno da documentazioni che si aggiungono a quelle già esistenti. Interromperne il flusso significa smarrire per sempre le tracce di quanto accadrà nel nostro Paese. Irrimediabilmente.

Dunque, preoccuparsi per Radio Radicale e occuparsi della sua sorte si deve, ma come?

Il cappio che può stringerla mortalmente è tutto normativo: è la legge di bilancio ad aver dimezzato il contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari, rinnovando la relativa convenzione solo per il primo semestre 2019. È la stessa legge a stabilire l’eliminazione del contributo per l’editoria a partire dal 1 gennaio 2020. Solo una sua duplice modifica può consentire di giocare il possibile contro il probabile.

«La stampa serve chi è governato, non chi governa»Corte Suprema degli Stati uniti, 30 giugno 1971

Mi (e vi) domando: dove sono i tanti parlamentari, di ogni schieramento, che mai si sono sottratti ai microfoni di Radio Radicale?

Perché i senatori a vita, custodi di un’autentica memoria collettiva, non si fanno promotori di un’iniziativa legislativa ad hoc?

Si può sperare in un’oncia di ascolto a Palazzo Chigi, dove siede un giurista che conosce il rango costituzionale del pluralismo informativo?

Il film The Post, citando la Corte Suprema, ha ricordato a tutti che «la stampa serve chi è governato, non chi governa». Vale ovunque esista uno stato di diritto che sia ancora tale. Anche per questo la sorte di Radio Radicale prefigura il destino che tutti ci accomuna.

I mali dell’Università: servilismo e mercimonio, corruzione e clientelismo e una baronia più arrogante, ignorante e corrotta

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Università, il coraggio di denunciare (da: il manifesto 25 ottobre 2016)

Arnaldo Bagnasco, Gian Luigi Beccaria, Remo Bodei, Alberto Burgio, Pietro Costa, Gastone Cottino, Franco Farinelli, Luigi Ferrajoli, Giorgio Lunghini, Claudio Magris, Adriano Prosperi, Stefano Rodotà, Guido Rossi, Nadia Urbinati, Mario Vegetti, Gustavo Zagrebelsky. Dell’Università oggi si parla molto e di solito agitando luoghi comuni: sortite che dell’Università italiana colgono aspetti marginali e non i problemi più gravi, forse dimenticando che all’Università è affidato il compito fondamentale di formare cittadini responsabili, oltre che la delicata funzione di preparare la classe dirigente del paese.

In Italia l’Università è da tempo un malato grave, abbandonato a se stesso e devastato dalle «riforme» degli scorsi decenni, sino alla esiziale riforma Gelmini: cure ispirate a una ideologia aziendalistica e peggiori dei mali che dovrebbero guarire.

Molti di questi mali sono noti: servilismo e mercimonio, corruzione e clientelismo. Altri costituiscono fenomeni relativamente recenti, come la precarietà dei giovani ricercatori e una esasperata competizione su risorse e carriere.

Nomi alti e principî venerabili sono stati piegati al servizio di consorterie, favorendo l’instaurarsi di una nuova baronia universitaria non meno potente della vecchia, ma incomparabilmente più arrogante, ignorante e corrotta. A un vecchio barone non conveniva, di norma, esagerare: non sarebbe stato rieletto nelle commissioni future.

E circa la precarietà dei giovani, questi, in un lontano passato, potevano almeno contare sulla regolarità nel bando dei concorsi, dalla libera docenza all’ordinariato. Oggi invece tutto dipende dai Dipartimenti inventati dalla Gelmini, che nulla hanno a che fare con la ricerca scientifica. Vi si discute soltanto di soldi: per i soldi si confligge, in base ai soldi si valuta e si sceglie (coinvolgendo in tali scelte anche la didattica – la cosiddetta «offerta formativa» – quindi la preparazione delle giovani generazioni).

Per questo nei nuovi Dipartimenti spadroneggiano gruppi di potere.

L’attuale autonomia degli atenei (ben diversa da quella prevista dalla Costituzione) tende a premiare i docenti interessati alla gestione delle risorse e al controllo delle funzioni amministrative assai più che alla ricerca e all’insegnamento. La valutazione del merito è degenerata in un sistema spesso incapace di misurare l’effettiva qualità scientifica: le commissioni giudicatrici non sono diventate più «obiettive» grazie agli algoritmi escogitati dall’Anvur né con la bibliometria, che è invece un silenzioso ma efficace invito al conformismo.

Il feticcio dell’«eccellenza» non soltanto induce a trascurare il sistema nel suo complesso, ma legittima scelte discrezionali e arbitrarie. Si pensi, a questo proposito, alle chiamate dirette (senza concorso) dall’estero, di cui beneficiano non di rado docenti privi di comprovata autorevolezza; e, da ultimo, alle cosiddette «Cattedre Natta»: cinquecento posti di professore associato o ordinario attribuiti a pretesi «ricercatori di eccellenza» selezionati da commissioni soggette al giudizio politico (i presidenti saranno nominati – a quanto pare – dal presidente del consiglio) e destinati a un trattamento privilegiato («stipendi più alti in ingresso» e possibilità di «muoversi dove vogliono dopo un periodo minimo di permanenza nell’ateneo prescelto»).

È indubbio che l’Università italiana sconti anche drammatici problemi di scarsità di risorse; ma aumentare queste ultime senza contestualmente affrontare le questioni più generali e di fondo servirebbe soltanto ad accrescere il potere delle camarille accademiche.

Nessun intervento esterno può essere efficace senza una autoriforma del corpo malato. Ciò è difficile, ma non impossibile: i docenti universitari desiderosi di risanare l’Università potrebbero compiere sin d’ora un gesto di coraggio civile, denunciandone i mali e le pretese panacee.

Università: sulla scomparsa della comunità scientifica e della figura del Maestro

Enzo Scandurra

Enzo Scandurra

Intellettuali silenti e declino dell’Università (il manifesto, 3 febbraio 2016)

Enzo Scandurra. Il declino lento e inarrestabile dell’Università, la sua rinuncia ad essere l’universo, luogo di produzione di sintesi convincenti, ben esprime e rappresenta il collasso narrativo dell’Occidente e lo stato dell’afasia contemporanea. Il dibattito sul suo ruolo si è, anni fa, incagliato (e lì è rimasto) intorno a questo nodo fondamentale: sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli? Ha prevalso il primo termine: quello che va bene al mercato, va bene anche all’università e così a partire da Luigi Berlinguer si è sviluppato quel processo di declassamento e di delegittimazione che sembra non conoscere fine. Se sentiste parlare gli studenti, avreste modo di conoscere quanto essi non vedono l’ora di abbandonarla come un luogo inutile, un castigo necessario, nell’attesa (sempre più disperata) di un posto di lavoro. Forse fa eccezione qualche studente, sopravvissuto al collasso, che tenta di ricomporre una qualche sintesi all’interno dei dottorati di ricerca, poi niente, silenzio.

Avendo smarrito i propri fini, l’Università è diventata un sistema burocratico-amministrativo fallimentare e improduttivo, senza alcuna capacità di scorgere i segnali del cambiamento e tanto meno di possedere la capacità di interpretarlo e incidere sulle trasformazioni che sconvolgono il mondo contemporaneo. È capace l’università, tanto per fare solo alcuni esempi tra mille possibili, di fornire una qualche narrazione adeguata dei cambiamenti climatici in atto, della questione ambientale, della crisi economica, della crisi del modello urbano? No, non ne è capace, anzi si limita, nel migliore dei casi, a fornire dei rimedi parziali, delle risposte inadeguate, essendo in tutt’altre faccende affaccendata.

Come affermava Pietro Barcellona, non esiste più una comunità scientifica, ma solo alleanze fra cordate e gruppi di potere, là dove i nostri figli avrebbero disperatamente bisogno di un Paese che si appropri del proprio futuro, che sappia progettare ponti e cattedrali, scoprire i segreti delle stelle e i miracoli delle nanotecnologie, senza perdere di vista, però – aggiungeva Pietro – che il vero problema è sempre il destino dell’uomo nel tempo che ci tocca vivere. E alla scomparsa della comunità scientifica si aggiunge quella drammatica della scomparsa della figura del Maestro.

Anziché una ricomposizione, i saperi vengono continuamente disarticolati, scomposti, separati gli uni dagli altri fino al nozionismo più esasperato (i famosi Cfu, crediti formativi), così da preparare il terreno a quei mitici concorsi universitari in ordine ai raggruppamenti disciplinari (Ssd), vero e propri pilastro culturale intorno al quale si organizzano accordi elettorali, cordate accademiche e produzione di inadeguati e falsi saperi. E che dire delle pubblicazioni scientifiche sulla base delle quali una fantomatica Agenzia (Anvur) è chiamata a giudicare ogni membro della morente comunità accademica? Intorno ad esse – le pubblicazioni scientifiche – sono sorte migliaia di nuove riviste accreditate, fiorisce l’unica attività editoriale ancora produttiva del Paese.

Per anni screditata dagli attacchi dei mass-media (luogo di malaffare, di corruzione, di svendita degli esami, ecc.), l’Università ha finito con l’adeguarsi alla cattiva immagine che di essa ne è stata fatta tra la gente comune, rinunciando perfino a far valere le proprie ragioni, non rintuzzando la concorrenza sleale delle varie libere università sorte come funghi. Del resto, se essa è demandata solo a fornire sterili nozionismi, perché un privato non potrebbe riscuotere maggiori successi?

Conosco sempre più docenti che hanno chiesto di essere messi in pensione prima del tempo. Almeno da questo punto di vista, essi si sono arresi. Il declino dell’università, che pure essi hanno ostacolato, avversato e combattuto con passione, ha finito con lo sfinirli. Asor Rosa ha paragonato questo esodo a quello dei dinosauri in estinzione: «Questo lungo e faticoso cammino – rispetto all’approdo finale, ossia lo stato presente delle cose – fa sentire chi l’ha compiuto nelle condizioni di quegli animali primitivi che a un certo punto uscirono di scena per il totale mutamento delle condizioni generali del pianeta» (“Il Grande silenzio, intervista sugli intellettuali”).

Coloro che sono rimasti, si sono adeguati, così che dopo il Grande silenzio è subentrata anche la Grande tristezza. Sembra una questione archiviata; le cifre e i numeri che circolano sul suo stato di salute (meglio sarebbe dire sulla sua malattia terminale) ne attestano la morte presunta. Forse a metterci sopra la pietra tombale sarà l’annunciato (ennesimo) provvedimento di Renzi sulla “Buona Università”.

Ma in un’affollata assemblea di dottorandi e ricercatori precari, a Roma qualche giorno fa, ho sentito esclamare: «Dobbiamo scatenare una controffensiva culturale di portata equivalente a quella scatenata da Confindustria, verso la metà degli anni Novanta, iniziando a criminalizzare l’università italiana. Dimostriamo loro che non siamo bamboccioni improduttivi; noi produciamo scienza, nuovi saperi, cultura vivente…».

Benvenuta e salutare è allora l’iniziativa per l’Università promossa l’11 febbraio a Napoli da, Arienzo, Bevilacqua, Bonatesta, Carravetta, Catalanotti, Olivieri (Lettera-Appello al mondo dell’Università, su il manifesto del 22 gennaio). Coraggio si ri-parte! Non dalle aule della Bocconi; questa volta si parte dalle macerie del Sud. E gli intellettuali dove sono? Perché non escono dal Grande Silenzio per scendere in campo a fianco di questi ragazzi, senza i quali il silenzio diventerà tombale?

Tra ricorsi preventivi e quelli degli esclusi, si profila il blocco dell’università

Tutti i ricorsi contro le «abilitazioni mostro» (il Manifesto 9 ottobre 2012)

Ro. Ci. La tragicommedia della lista delle riviste scientifiche ha fatto vacillare paurosamente l’agenzia Nazionale per la Valutazione del sistema Universitario (Anvur) tanto da spingerla a eliminarne venti, come si legge in un comunicato auto-assolutorio diffuso sabato 6 ottobre. Ancora nulla è stato però fatto contro il rischio dei ricorsi che sono stati annunciati nelle ultime settimane. La prima ad avere impugnato una parte della delibera che istituisce i criteri del processo di valutazione scientifica della ricerca è stata l’associazione dei costituzionalisti guidata da Valerio Onida. Lo stesso orientamento sembra che stia maturando tra i romanisti e i medici legali.

Anche la storia della matematica è in fibrillazione. Le decisioni dell’Anvur rischiano di cancellare una materia fondamentale per la cultura italiana che dal XII secolo fino ai discepoli di Galileo è stata avanguardia nel mondo. La preoccupazione è tale che duecento studiosi di sedici paesi hanno definito l’Anvur una «minaccia», accusando i suoi membri di lavorare «in modo poco trasparente e fuori controllo della comunità scientifica». «La storia della matematica si differenzia poco nelle pubblicazioni dalla storia in generale, e in particolare dalla storia della scienza – afferma Luigi Pepe, presidente della Società degli storici della matematica che ha firmato, insieme a 6 colleghi, un ricorso al Tar del Lazio contro il regolamento Anvur –. Esse sono costituite principalmente da edizione critiche, monografie e articoli su volumi monografici». L’Anvur ha invece stabilito che la valutazione avverrà in base alle banche dati Scopus e Isi che non prendono in considerazione una ricerca a cavallo tra le discipline scientifiche e umanistiche, ma solo le pubblicazioni su riviste, come accade per altre discipline «bibliometriche», come ad esempio l’algebra o la geometria. Si è venuto così a creare un paradosso: una decina di professori ordinari ha fatto domanda per entrare nelle commissioni e giudicare i candidati all’abilitazione, ma sono stati respinti perché non hanno raggiunto il punteggio sufficiente. I candidati all’abilitazione verranno giudicati da commissari che non hanno alcun rapporto con la storia della matematica.

«Questa situazione – sostiene Pepe – è frutto del connubio tra la mentalità ingegneristica del ministro Profumo e i guasti prodotti dalla riforma Gelmini che non solo scardina la tradizione humboldtiana, ma persino la tradizione medioevale dell’università, come insieme delle conoscenze utili che porta ad un titolo di studio con un valore legale in tutto il mondo civile. Le materie culturali come la storia verranno messe da parte rispetto a quelle che hanno un profilo pratico e professionale. È l’idea di Confindustria, una delle grandi sostenitrici della riforma Gelmini: un’università al servizio dei poteri forti che vogliono mettere sotto controllo le istituzioni neutrali dello stato liberale».

Esiste un terzo ricorso contro quelle che sono state definite le «abilitazioni–mostro». È stato presentato da 130 tra professori associati e ricercatori, e appoggiato dal Conpass, il Coordinamento Nazionale dei Professori Associati. Tra i firmatari ci sono medici, ingegneri, fisici, quindi studiosi che rientrano nelle materie «bibliometriche». «Nel ricorso che abbiamo presentato – spiega Armando Carravetta, professore di ingegneria idraulica a Napoli – chiediamo il sorteggio puro dei commissari perché l’Anvur non è stato capace di stabilire criteri attendibili per nominare solo quelli più attivi. La valutazione deve essere fatta analiticamente sui prodotti della ricerca e sui curricula dei candidati, come previsto dalla legge 240». Sarà davvero possibile fermare questo treno in corso prima dello schianto finale? «Questo è un caos complesso da capire – risponde Carravetta –. Il ministero si è indirizzato verso una strada che prevedeva l’individuazione dei docenti più meritevoli sulla base di criteri automatici e non ha capito che questi criteri non erano rigorosi e applicabili. Oggi mi metto nei panni dell’Anvur. Hanno operato in una condizione di urgenza. Poi si sono resi conto che era difficile tornare indietro. Ma oggi bisogna fermarsi, c’è ancora tempo per rendere la procedura trasparente. Questi sono solo ricorsi preventivi, poi verranno quelli degli esclusi. E allora l’università si bloccherà per molto tempo».