In nome di un merito retorico e salvifico, invocato ma non declinato, finiremo per costruire una società di tutti uguali e di inevitabili perdenti che “non-se-lo-meritano”

La differenza tra merito e “me-lo-merito” (il Fatto Quotidiano 25 novembre 2012)

Antonio Nicita. Finalmente – e inevitabilmente – la questione del merito è diventata centrale nel dibattito politico-elettorale del nostro paese. Essa riguarda la selezione della classe dirigente, non solo nel pubblico, ma anche nel privato. Oggi, ne parlano tutti. Ma pochissimi riconoscono l’equivoco tra merito e “me-lo-merito”. Mi spiego. Spesso i sostenitori del merito non sono solo interessati a una società ‘aristocratica’, cioè dei migliori: essi sostengono il merito perché pensano di possederlo. Capovolgendo la famosa frase di Groucho Marx, una società che non riconosce il mio merito non può che esser sbagliata, se non corrotta.

Per questa ragione – oltre all’oggettiva schifezza che oggi ci circonda – le campagne sul merito attirano molti consensi: perché offrono a molti la speranza che ciò che essi ritengono di meritare sarà sempre riconosciuto in un’ipotetica “società dei migliori”. Ma è davvero così? O meglio: quanti di noi sono disposti ad accettare una ‘società dei migliori’ che ci escluda? Cosa accade quando qualcuno ha i requisiti minimi, ma ci viene preferito dal valutatore per qualche criterio che non comprendiamo o, peggio, non condividiamo (e spesso non condividiamo proprio perché ci danneggia)? Siamo disposti ad accettare il giudizio sul merito anche quando quel giudizio ci esclude? Oggi è del tutto assente dal discorso sul merito la circostanza che, nella sua declinazione concreta, il merito si ‘misura’ in termini relativi e comparativi, cioè all’interno di uno schema concorrenziale. Esser meritevoli (o pensare di esserlo) non basta a far parte della “società dei migliori”, dipende anche, e soprattutto, dal merito degli altri.

La concorrenza è un modo semplice per selezionare: vinca il migliore. Vero. Ma restano comunque due problemi. Il primo è che, in molti ambiti – nel lavoro e nell’istruzione – la valutazione è spesso soggettiva e comunque parziale (nel senso che tende a premiare di più ciò che è più facile da misurare). Si pone il problema di individuare criteri di valutazione del merito condivisibili e condivisi (anche quando si perde). Il secondo è che la concorrenza per il merito genera quella che Fred Hirsch (“I Limiti sociali allo sviluppo”, 1976, Bompiani) chiamava ‘la scarsità sociale’. Prendiamo l’istruzione. Se dobbiamo selezionare i migliori dobbiamo basarci sul titolo di studio e sul voto. Ma quando cresce l’offerta di lavoratori con lo stesso titolo di studio, la domanda dovrà selezionare sulla base di titoli aggiuntivi, generando inflazione da titoli. Un maggior grado di istruzione cresce in valore se decresce il numero di quelli che lo posseggono e diventa un ‘bene posizionale’. La corsa ai titoli di studio genera ‘scarsità sociale’: più sono i titoli mediamente posseduti da una popolazione di aspiranti candidati a un ruolo, minore è la chance di ottenere il ruolo cui si aspira. È qui che la questione del merito cessa di essere facile retorica e diventa un problema serio di meccanismo di selezione.

Se la corsa al merito genera scarsità sociale nell’istruzione possono crearsi tre effetti perversi: il primo è che solo chi ha mezzi personali idonei può accedere ‘in media’ a percorsi di successo e resistere alla gara per i titoli, permettendosi di rinviare l’ingresso nel lavoro a forza di sommare titoli e ciò alimenta diseguaglianza e l’equazione aristocrazia-plutocrazia; il secondo è che viene meno l’offerta di lavoratori per occupazioni con ‘conoscenza tacita’ non misurabile (specie nei servizi, nell’artigianato, nei beni culturali ecc.); il terzo è che la concorrenza per il merito genera standardizzazione dei percorsi formativi e dei curriculum, un esercito di uguali in concorrenza. Finiamo per far tutti la stessa gara, indipendentemente dai nostri talenti e dalle nostre inclinazioni, aumentando il numero di perdenti. L’insopportabile retorica del ‘devi-avere-un-master’ (quale? di che tipo? in quale disciplina? per far cosa?), rivolta a ogni giovane laureato italiano, è figlia di questi equivoci (e del nostro provincialismo atavico).

Beninteso: siamo tutti concordi nel volere una società basata sul merito, ma – oltre gli slogan – c’è il rischio che, in nome di un merito retorico e salvifico, invocato ma non declinato, finiremo per costruire una società di tutti uguali e di inevitabili perdenti che ‘non-se-lo-meritano’, smarrendo in noi, e nei nostri figli, la scoperta dell’originalità, della diversità, dei talenti e delle inclinazioni. La “società dei migliori” sarà certo meglio di quello che abbiamo oggi, ma dubito sia la migliore società. Quantomeno discutiamone nel merito, del merito.

Una Risposta

  1. Matteo Renzi: «L’Italia, che in molti settori dell’industria e del commercio è ai vertici mondiali, non è ugualmente rappresentata ai vertici delle classifiche delle istituzioni universitarie e di ricerca… “mettere a punto un sistema di valutazione delle università e sostenere quelle che producono le ricerche migliori. Anche in questo campo si devono introdurre meccanismi competitivi. …È un risultato che si può ottenere usando indicatori quantitativi sulla qualità della ricerca prodotta sul modello dell’Anvur e il parere di esperti internazionali autorevoli e fuori dai giochi. L’obiettivo è avere una comunità scientifica meno provinciale, che esporta idee e attrae talenti”.»

    Francesco Sylos Labini: «Vero o falso? Nel periodo 1996-2010, l’Italia è ottava al mondo come numero di pubblicazioni scientifiche e settima come numero di citazioni ricevute. Inoltre “il buon livello degli atenei italiani in termini di citazioni è confermato anche dalla comparazione internazionale dei loro “impatti normalizzati” effettuata da SCImago… tutti gli atenei italiani tranne uno mostrano un impatto normalizzato superiore alla media mondiale”. E infatti, come ha messo in evidenza Marino Regini nel suo libro “Malata e denigrata: l’università italiana a confronto con l’Europa”, le classifiche degli atenei mostrano che vi sia un buon livello medio con una buona reputazione scientifica.

    (http://www.roars.it/online/renzi-e-luniversita-come-prima-peggio-di-prima/)

    Sì, ma insomma, vero o falso che sia, a parte le solite sonatine canoniche di politici ed intellettuali intorno all’eccelenza, vorrei sottolineare che pochi giorni fa sono partite 90.000 domande di abilitazione. La faccenda è stata così aggrovigliata (dal calcolo delle mediane, all’accorpamento a capocchia di alcuni settori disciplinari – sicché non si sa cosa cacchio medino ‘ste mediane-, alla già segnalata scandalosa cinobalanica selezione delle riviste “di fascia A”, tra le quali spiccano ridicole presenze e clamorse assenze, il numero esorbitante di partecipanti che alla fine ridurrà il concorso ad una valutazione “ictu oculi” ecc.), che è difficile prevedere l’esito della lotteria: ma anche se ammettessero qualcosa tipo il 35% dei candidati, come si è ventilato, mi sapete dire oggi in Italia quanti e come potranno essere chiamati? E in particolare, quanti a Siena, nel decennio a venire mentre intere aree si svuotano? Sospetto che qui le dita di una mano bastino per contarli.
    Ergo, si chiude bottega. L’università generalista chiude, senza rimpianti, ma non è chiara la sorte di chi, ricercatore od associato dovrà trascorrere in quel di Siena ancora quattro lustri. L’unica risposta plausibile, ancorché ignobile che ho udito a questa domanda, è che “i giovani” (ricercatori ed associati) reduci dei corsi di laurea e dei settori dismessi, verranno dispersi a fare “altro”, perché “tanto non contano un tubo”, e più non dimandare. Constatando che certi corsi di laurea sono nati e moriranno con quella generazione che li ha aperti, uscita di scena la quale, è finito anche il corso di laurea, senza che pressoché nessun “giovane” allevato a pane e cicoria nel corso di un interminabile precariato subentrasse a rimpinguare i “requisiti minimi di docenza” (e sparito il corso, di certo, il tapino non avrà certo chances entrare in futuro, come ho cercato invano di far capire a Golene!), nessuno pensa alla cosa più ovvia, se veramente si ha a cuore “la ricerca”, e al contempo la bestemmia più impronunciabile nel sistema asfitticamente baronale dell’università italiana, ossia, non la Cajenna, ma semplicemente una riorganizzazione dei corsi di studio nel territorio regionale, in modo che ognuno vada, non tanto dove lo porta il cuore, ma semplicemente laddove la sua presenza abbia qualche senso dal punto di vista disciplinare, dove possa espletare la sua ricerca, in vista della creazione o della conservazione di poli specializzati, di strutture robuste dalle finalità chiare, e non ulteriori pasticci “accorpati”. Chi va in pensione a breve, ha tirato di fatto i remi in barca, ma lascia dietro di sé molta gente più giovane che vagola alla vana ricerca di un centro di gravità: volgo disperso che forse ambirebbe a ricongiungersi coi propri simili da qualche altra parte, giusto per tentare di fare il proprio mestiere, anziché perdersi in un inutile servaggio facendo mille mestieri e nessuno, dimenticandosi per sempre de “la ricerca”, salvo quando qualche anima bella scrive un accorato articolo su un giornale.
    Quindi, prima di tanti ragionamenti astrusi, sarebbe utile partire da questo dato di fatto: a Siena, dove il turn over ha funzionato nel modo cinobalanico che è stato posto in luce anche in questo forum, adesso chi non ha partecipato al banchetto non può essere beffato due volte sentendosi dire “siamo troppi” da gente che in illo tempore, quando si trattava di dividere il bottino, non avrebbero pronunciato il pronome personale “noi” nemmeno sotto la minaccia delle armi.
    Le ultime riformicchie sono scaturite dalla giusta constatazione che un eccessivo proliferare di sedi e di corsi, oltre che risultare insostenibile economicamente, ha contribuito a far sì che si perdesse in innalzamento, ciò che si è guadagnato in ampliamento dell’offerta formativa, dando un’interpretazione bizzarra (la montagna che va da Maometto) del diritto allo studio, rendendo vieppiù vano ogni intento meritocratico e illusoria l’idea di un ascensore sociale: in realtà rispetto a queste problematiche non mi pare cambiato un granché, dato che i legislatori non hanno avuto il coraggio di essere conseguenti e di fornire, baconianamente, accanto alla pars denstruens, una adeguata ed efficace pars construens. Il livello della decisione, come al solito, è mancato: si volevano chiudere un po’ di corsi e un po’ di sedi? Lo si doveva fare punto e basta. Ad uno sguardo strategico al territorio e alle cose di valore da preservare, si è sostituita invece una generale ed indiscrimina rottura di cabbasisi a tutti: invece di chiudere quello che si doveva chiudere con incisione e suturazione realizzate a regola d’arte, ci si è limitati ad assistere imbelli al processo di necrosi, affidando al caso la conta di chi vive e chi muore: che senso ha parlare di “eccellenza della ricerca” in un simile contesto?
    Ancora oggi si fluttua nell’incertezza normativa, sommersi da un profluvio di “circolari” interpretative, paventandone altre che costringano a disfare domani mattina ciò che si è fatto stasera, in un gioco a rimpiattino fra burocrazia ministeriale, che vuol farti chiudere attraverso cervellotiche disposizioni sempre più restrittive come la tortura della garrota, e tu che cerchi di eluderle. Viene in mente la celebre definizione dell’opera lirica data da G.B. Shaw: «Opera is when a tenor and soprano want to make love, but are prevented from doing so by a baritone».

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