All’università di Firenze l’Urbanistica la insegnano meglio filosofi e poeti

Fiorenza

Urbanistica, in cattedra un filosofo e un poeta (la Repubblica Firenze, 30 novembre 2012)

Un dottore di ricerca in filosofia con tesi su Heidegger e Hegel e un maestro elementare-poeta specializzato in «paesologia» hanno vinto due docenze in urbanistica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Un candidato escluso, l’architetto Alessandro Rizzo, dottore di ricerca in progettazione e titolare di un master in Housing and Urbanism conseguito a Londra, ha presentato ricorso al Tar, sostenendo che i due vincitori non hanno i requisiti richiesti dalla legge, dal regolamento e dal bando. Gli avvocati Maria Beatrice Pieraccini e Maurizio Dalla Casa sostengono che il filosofo ha una preparazione «in alcun modo riconducibile alla materia dell’urbanistica, ma neanche all’architettura», mentre l’altro vincitore «non è neppure laureato» e «per quanto possa essere grande la sua cultura o la fama (la sua specializzazione è la “paesologia”, disciplina “compresa fra il territorialismo e l’espressione poetica”) è impensabile che la laurea non costituisca un requisito minimo per l’accesso alla docenza universitaria»: non rilevando a tal fine il giudizio della commissione di concorso, secondo cui la sua opera «ha ormai un riconoscimento nazionale presso poeti, scrittori, artisti, giornalisti, registi e docenti universitari».

14 Risposte

  1. Non sappiamo più cosa altro dobbiamo vedere! Una volta l’Urbanistica richiedeva studi specifici e non soltanto una competenza generica e spesso discutibile!

  2. Devo dire che anche noi qui a Siena abbiamo visto cattedre assegnate alla Facoltà di Lettere e Scienze della Comunicazione a non laureati, il cui unico merito era quello di essere saliti sul carrozzone della politica al momento giusto. Ma questo probabilmente è già noto al prof Grasso.
    Vorrei inoltre ricordare che a Firenze nel ’68 (io non ero ancora nata, ma basta chiedere a quelli più grandi di me) proprio alla Facoltà di Architettura si dava il voto politico agli esami “bastava dire tre o quattro volte la parola tupamaros, e mostrarsi propensi ad abbracciare la guerriglia” (cito la vedova di un prof. della Facoltà di Architettura). Può darsi tuttavia che queste due persone cui è stata assegnata la cattedra di Urbanistica fossero davvero profondi conoscitori della materia dell’urbanistica, io non lo escludo. Così come conosco una studiosa profonda conoscitrice del Rinascimento i cui testi sono addirittura nella biblioteca vaticana e vengono citati e consultati dai ricercatori di tutto il mondo (è stata chiamata anche a far lezione alla Sorbona!), che fa l’insegnante delle scuole medie inferiori (ora in pensione).

    Ad maiora

  3. …sicuramente vi sarà una ragione a tutto; forse il giovine filosofo cercava un lavoro qualsiasi e come dice la Fornero non bisogna essere troppo “choosy”. Parafrasando Simone Weyl (“il popolo ha bisogno di poesia come di pane”), a giudicare dagli obbrobri edilizi che sono sotto gli occhi di tutti, si potrebbe inoltre convenire sul fatto che gli architetti abbiano più bisogno di poesia che di mattoni. Ma la cosa, comunque la si giri, un po’ bizzarra lo è: com’è – ci si può chiedere – che proprio un filosofo heideggeriano si è ritrovato a fare l’urbanista? Probabilmente la spiegazione è che il contratto non era pensato esattamente per urbanistica, almeno nelle intenzioni di chi l’ha bandito, ma per estetica (o forse l’urbanistica, come scienza, semplicemente non esiste) e pare in effetti che Heidegger abbia ispirato molta estetica dell’architettura contemporanea (cfr.
    http://www.architettiroma.it/monitor/d/didatticaurbana/portoghesi_la_tenera_crescita.html). Ed è forse per questo, soggiungerei, che non c’è da meravigliarsi se le nostre periferie urbane sono oscure e contorte come il pensiero dell’ex rettore di Friburgo.
    Per venire al punto, deplorevole è stato innanzitutto il proliferare nel corso degli anni di questi contrattucci del menga da due mesi (in genere non retribuiti), con relativo “concorso”, che da evento eccezionale, si sono gradualmente trasformati nel modo in cui si sopperiva alle lacune della didattica, mostrando la carota della futura stabilizzazione al precario, mentre in realtà per la quasi totalità di loro si preparava il bastone: a un certo punto è scoppiato il buco e i precari li hanno buttati fuori tutti o quasi. Si debbono tuttavia fare alcuni distinguo: il contratto gratuito, ancorché deplorevole come concetto, è per alcuni sopravvissuti, che in una situazione normale sarebbero stati già stabilizzati, l’unico residuo legame con l’istituzione scientifica presso la quale hanno prestato servizio per anni.
    Distinguo anche sull’utilizzazione di questo nefando arnese, parto delle nostre sadiche ed autoreferenziali burocrazie: i contratti sono stati utilizzati in qualche caso con parsimonia per sopperire ai vuoti nella didattica, stretti nella tenaglia di un maggiore fabbisogno dovuto alla creazione del 3+2 e delle progressive uscite di ruolo dei docenti, offrendo una chance a qualche giovine promettente. Altri, di contratti ne hanno fatto letteralmente incetta (si pensi alle “sedi distaccate”), circondandosi di legioni di precari, promettendo a tutti qualche cosa e non mantenendo la promessa con nessuno. Salvo le eccezioni ben note di interi corsi di laurea nati “a contratto”, che a causa dell’intercessione miracolosa dell’Altissimo hanno visto poi stabilizzare d’un botto tutti quanti, con carriere fulminanti (una delle fonti del “buho”). Ma sul modo squilibrato ed irrazionale in cui è avvenuto il reclutamento e sull’ipocrisia di asserzioni generiche “(t)erga omnes”, si è detto abbastanza in questo forum.
    I contratti – commentando il post di Margherita – sono stati utilizzati anche come piccoli “cadeau” per personaggi affatto esterni al mondo accademico e mai sottoposti ad alcuna valutazione, investiti del titolo di “docente” per “chiara (?) fama”, non mancando mai di ricordare, naturalmente, che “anche Montale non aveva la laurea!” e che “c’è molto da imparare da chi viene dal mondo delle professioni!”, frasi che dobbiamo ricordarci di aggiungere alla prossima edizione del Dizionario dei Luoghi Comuni. Questi magari, li pagavano pure e il sospetto è che non si abbassassero alle cifre miserrime che venivano elargite ai giovani precari, colpevoli magari di possedere qualche titolo scientifico ed accademico.
    Di geni universali assolutamente convinti di essere in grado di insegnare tutto, infine, sono piene le aule, e c’è persino chi teorizza l’incompetenza come valore aggiunto, deplorando “lo specialismo”, disconoscendo la complessità delle scienze moderne, appellandosi alla trasversalità del sapere (cioè la equi-ignoranza di tutte le cose) e ritenendo che l’infarinatura sia la giusta paideia da somministrare ai pargoli del giorno d’oggi: questo, a dire il vero, è stato il Leitmotiv delle ultime riforme.

    • Rabbi Jaqov Jizchaq, chiunque lei sia, il suo post è bellissimo. Mai post più bello fu scritto in un blog. Grazie. Spero di leggerla ancora.

      Cordialmente
      Margherita

      P.S. Vorrei solo sapere se è di Siena o di Firenze.

  4. Ma il paesologo non sarà mica Franco Arminio? Se è così, povera Firenze e poveri noi tutti. Ho avuto la sventura di ascoltarlo una sera durante un’incontro all’Università di Urbino. Si presenta ai giovani studenti incapaci di autonomia critica come se solo lui fosse in grado di interpretare il paesaggio. Insopportabile. E ora da quel che leggo anche assai dannoso. Anna Vicari

  5. Grazie, “troppobbuona”.
    Io sono in quel di Siena.
    Ricambio i saluti
    RJJ

    • Anch’io sono a Siena. Ma io voglio sapere chi sei. Che sei il rabbino della sinagoga? Scrivi troppo bene e sei un intellettuale finissimo… persona da conoscere. Io sono su facebook, mi trovi lì.

      Marghe

  6. Da non perdere: due commenti sulla vicenda apparsi sul “Corriere Fiorentino”.

    Vermena. Inutili sensazionalismi, per insegnare all’università – grazie a Dio – non è ancora necessario o obbligatorio aver conseguito una laurea. Io Betocchi, Montale, Quasimodo, Caproni, Gregory Corso, Carver, anche Saba, li avrei fatti insegnare all’università – in questo paese, in nome del valore legale del titolo di studio, molte persone no. Questo architetto e dottore di ricerca sbaglia proprio il “principio” del ricorso, se dovesse vincere – un altro mattone della “misura del Sapere” sarà messo nel muro.

    Saverio Mecca. Intervengo come persona interessata, sono il preside della Facoltà, che ovviamente nessun giornalista ha ritenuto di contattare dando voce solo agli avvocati di chi pretende questo piccolo contratto di supplenza da 48 ore in un anno (30 settimane di laboratorio). Questo è solo uno dei tanti articoli apparsi che danno molto risalto al ricorso al TAR contro gli esiti di un bando per due supplenze del modulo di Urbanistica all’interno di un laboratorio di Progettazione Architettonica e Urbana guidato da professori di ruolo. Sono d’accordo con Vermena, è un inutile sensazionalismo che dà voce ad un interesse personale. L’urbanistica viene insegnata in altri corsi specifici. Se guardiamo al merito non c’è dubbio che i due supplenti, il “filosofo” e il “maestro” sono più interessanti per una migliore formazione. Per insegnare penso che debbano esserci qualità scientifiche ed etiche come ad esempio umiltà e rispetto per altre culture. Le affermazioni degli avvocati manifestano un’assoluta incomprensione di cosa è l’architettura e la contemporanea arroganza di volerle mediante un tribunale imporre alla scuola di architettura stessa. Ci si potrebbe preoccupare.

  7. Questi uffici sono a commentare la cretineria e la dabbenaggine del preside: e meno male che nessun giornalista si è abbassato a dar voce ad un coglione del genere che, oltre all’evidente malafede e all’aggrovigliata sintassi di cui dà sfoggio, mette in mostra una preoccupante, per un professore universitario, ignoranza del fatto che siamo in uno Stato che ha delle leggi e delle regole che vanno rispettate. Allora se la legge dice che per fare il docente universitario ci vuole la laurea e c’è questa, discutibile per carità, faccenduola del valore legale del titolo di studio, queste norme vanno rispettate e per primo il preside che deve farle rispettare. Se l’acqua andasse per i suoi fossi dovrebbero presentarsi domattina i Carabinieri alla Facoltà di Architettura e compiere il loro dovere, che è esattamente il medesimo del preside tonto: far rispettare la legge. E il TAR farà bene ad annullare, per manifesta illegittimità, il concorsino di cui si parla nella speranza che chi lo ribandirà pretenda che si presentino solo laureati in architettura, meglio se con specializzazione in urbanistica. Ma fateci il piacere: buffoni!!!

    Di questi uffici, con immenso disgusto
    Cesare Mori

  8. Io Betocchi, Montale, Quasimodo, Caproni, Gregory Corso, Carver, anche Saba, li avrei fatti insegnare all’università Vermena

    …ah, certo, “si parva licet”, come diceva il mi’ nonno… costoro le medaglie le hanno conquistate sul campo: può dirsi la stessa cosa di altri personaggi?

  9. In un paese dove Dionisotti non ha trovato posto e naturalmente a Oxford l’hanno implorato per insegnare, dove piacerebbe a questi uffici conoscere chi ha vinto il concorso per associato a legge per fisica nucleare che ha visto estromesso un certo Carlo Rubbia e dove, per rimanere a Siena, all’università praticamente non ha mai messo piede il Prof. Carli che forse di arte medievale qualcosa sapeva, vi sembra il caso di stare a tirar fuori Montale o Quasimodo che comunque se ne sono sempre fregati di insegnare all’università? E forse, fra l’altro, è stato bene così perché, per fare un esempio, l’eloquio di Montale dubito che avrebbe fatto presa presso gli studenti.
    Siamo sempre al benaltrismo imperante, ci pare. Resta inalterato il senso di disgusto che la vicenda provoca e il giudizio del post precedente su quel cialtrone del preside.

    Cesare Mori

  10. Cara Margherita, “nie sollst du mich befragen”, è una buona regola dei blog, che favorisce il confronto delle idee senza personalismi o dietrologie. A meno che chi scrive non sia un personaggio pubblico. E io non lo fui. Intellettuale non mi ci sento proprio, e faccio mia la celebre frase di Bernanos, secondo cui gli intellettuali dovrebbero essere considerati idioti, fino a prova contraria. Trovo del resto sconvolgente il fatto che molta intellighenzia senese accetti la situazione in cui versa il proprio ateneo come una catastrofe naturale (un terremoto, un’inondazione, qualcosa di cui accusare la natura matrigna), con la rassegnazione che segue contemplando lo scatenarsi delle forze della natura. I politici non ne parlano proprio, se non con frasi generiche e nebulose. Ma sulla base delle considerazioni che ho (pedantemente, e me ne scuso) cercato di sviluppare nei miei precedenti messaggi, quando si parla del futuro dell’ateneo, suggerirei di smettere di parlare de “l’università di Siena” latu sensu, prescindendo dalle dinamiche in corso, come se fosse un corpaccione unico che o si salva o perisce tutto intero, mentre è sotto gli occhi di tutti che si sta disarticolando, non si sa se abbia una testa, ha perso via via dei pezzi e ne perderà ancora molti: perderà in definitiva i connotati di ateneo semi-generalista, per diventare cosa, non si sa bene.

    Abolirei cioè questa locuzione: “l’università di Siena”, se prima non si è chiarito, dicendolo esplicitamente, di quale università stiamo parlando, chi sono i salvati dalla imperscrutabile volontà del Magnifico e quale inferno è riservato ai sommersi: al netto di un certo numero di cose che andavano chiuse in nome della decenza (ma non dimenticando quelle che invece, con oltraggio alla decenza, non sono state chiuse) la cosa di cui mi sono convinto è che il succedersi di riforme e riforme delle riforme dei corsi di laurea, il progressivo venir meno dei livelli specialistici e dei dottorati, abbiano di fatto disintegrato ogni idea di didattica ben strutturata: per venire al tema di questa discussione e alle considerazioni di s.e. Cesare Mori, è abbastanza evidente che questo è l’humus dove prosperano i lestofanti e gli incompetenti che vendono la scienza un tanto al chilo (“Di mestiere sono tipografo; però commercio nel campo dei medicinali; e sono pure attore – attore tragico, capisci -; quando ci ho l’occasione faccio sedute di ipnotismo e frenologia; qualche volta giusto per cambiare insegno geografia cantabile; ogni tanto faccio delle conferenze… Oh faccio un sacco di cose”- M. Twain, Le avventure di Huckleberry Finn).
    Da un lato c’erano i governi e le burocrazie, torturatori che premendo quasi esclusivamente sulla leva dei “requisiti di docenza” (cioè del numero di professori necessario per tenere in piedi un corso), avvitavano la garrota di norme sempre più stringenti e oramai addirittura paranoiche (in presenza di numerose ed imminenti uscite di ruolo, naturali o con prepensionamenti e del blocco del reclutamento), dall’altro lato le Facoltà che cercavano di sfuggire alla tortura eludendo le norme (già di per sé ambigue) con esegesi opportunistiche.

    Adesso siamo giunti a un punto di non-ritorno e per un pezzo cospicuo de “l’ateneo” bisognerebbe avere il coraggio di dire che non c’è più niente da fare, e che da qui a breve saremo semplicemente nella impossibilià di fare qualsiasi cosa. Ma né il rettore, né i politici parlano mai di questo. Io un’ideuccia, non utopistica, né originale, né peregrina, l’avrei formulata (vedi precedenti post), ed è quella di una integrazione fra i tre atenei che insistono sul territorio regionale, in modo da consentire la sopravvivenza, almeno in una sede, di corsi di laurea e discipline, concentrando in quella sede gli studiosi oramai isolati e messi nelle condizioni di non agire nelle sedi restanti. È quello che fanno altri paesi europei di fronte ad analoghi problemi, dicendolo esplicitamente e non attendendo la putrefazione.

    L’occasione svanita della venuta del ministro a Siena, sarebbe stata propizia per sottoporgli questo semplice quesito: atteso che di soldi non ce ne sono, il ministero pensa di esaurire la sua funzione riformatrice ed organizzatrice nella mera interdizione, come in un manicomio prebasagliano provvedendo esclusivamente alla contenzione degli agitati, e seguitando ad inviare “circolari” intorno a ciò che non si può fare, pur constatandone l’inutilità, visto che oramai non si può fare più niente? Dice il ministro: “per avere dei buoni ricercatori, occorre avere dei buoni studenti”. Ma come fanno a esservi dei buoni studenti, se non vi sono dei buoni corsi di laurea? Come fanno i buoni docenti ad insegnare in pessimi corsi di laurea privi di qualsiasi struttura?

  11. Caro Rabbi

    la tua idea di coalizzare gli atenei della regione è a dir poco ottima e non fa una grinza. Difatti, dati i presupposti che in questo blog sono stati sviscerati a sangue, altra strada non ci sarebbe. Mettono questi uffici il condizionale perché ostano alla possibilità di attuazione di questo escamotage, nominabile anche come “canna del gas”, alcune vicende di non infimo ordine. In estrema sintesi:

    Gli atenei toscani intanto non sono tre, ma molti di più: ci devi mettere la Normale, il Collegio Sant’Anna, l’Università per Stranieri e, mica te lo sarai dimenticato, il crogiuolo di dissestatori e dannificatori erariali SUM. Poi: la Regione Toscana ha qualche difficoltà derivante dalla Sanità. Infatti i bilanci delle ASL nonché dei Policlinici hanno più buchi del groviera svizzero originale. Spicca ovviamente Massa con un ottimo risultato di 420 milioni di buco (tenuto nescosto fino a poco tempo fa dietro un “confortante” 200 milioni). Se solo lo sommi col buco dell’Ateneo senese raggiungi la simpaticissima cifra di 670 milioni. Ma non è finita perché se leggi il Corriere Fiorentino ti renderai conto che tutte le ASL presentano bilanci sconfortanti e, per ragioni che qui non è il caso di approfondire, non si fa menzione dei 10 milioni di buco di quella di Siena, cifra risibile rispetto all’Ateneo, ma comunque sempre allegra andante. E poi è quella dichiarata, mentre a questi uffici risulterebbe che già il consuntivo 2010 (nota bene, il penultimo) era stato chiuso grazie ad un’anticipazione di cassa da 19 milioni (concessa dalla Banca che, è noto, non sa che farsene di tutti i quattrini che produce). Last but not least il Montesquieu di Pontedera, al secolo Enrico Rossi per quanto sopra si è beccato un bell’avviso di garanzia per falso in bilancio (sai, è trendy falsificare i bilanci) e quindi anche politicamente non ha più tanto smalto (anche perché il buco a Siena, se c’è, è di piena responsabilità della consorte sua, quindi …). Infine l’accorpamento produrrebbe degli esuberi di personale tecnico-amministrativo (effetto dell’accorpamento di uffici) il quale, va bene che non fa parte del core business dell’università, ma potrebbe trovare seccante essere mobilitato al – che so io – comune di Vergate sul Membro con lo stipendio da fame e la famiglia a Siena. Quindi anche quello è un problema.
    Insomma se questi uffici possono dare un suggerimento a cotanta capacità intellettiva è quello di tirarsi il mantello sulla testa, come Cesare avvedutosi delle intenzioni dei suoi sicari, e cercare soddisfazione nei propri studi senza curarsi troppo di come la pubblica istruzione italiana, e segnatamente quella senese, sia stata letteralmente devastata e demolita da loschissimi figuri che vanno dal musicologo garante dei garanti Gigino Berlinguer per giungere al Criccaboni dei giorni nostri.
    Ave et vale

    Cesare Mori

  12. Beh, ma qualche cosa intanto si potrebbe fare: almeno alcuni settori, alcuni corsi di laurea, le famose “scienze… avanzate”, quelle che separatamente oramai non hanno nessuna possibilità di sopravvivenza. Che purtroppo non sono esattamente le inutili “scienze del bue muschiato”, ma altre, che dopo morte, ci vuole mezzo secolo per ricrearle. La questione è urgente, e se politici temporeggiatori ed accademici troppo impegnati nella narcisistica difesa del proprio particulare non lo capiscono, se il Montesquieu di Pontedera non ci arriva e rinnega sé stesso, se la politica universitaria a Siena la fa un tizio che non ci ha manco la laurea, le future generazioni li rammenteranno nell’enciclopedia del crimine a fianco del bandito Tiburzi e del brigante Musolino.

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