Sulla ricerca “pura”: in linea di principio, ogni nuova scoperta scientifica è “utile” e “applicabile”

L'uomo di Altamura

L’uomo di Altamura

L’odio viscerale per la cultura è uno dei tratti distintivi della società italiana di oggi

Rabbi Jaqov Jizchaq. Facendo seguito alle considerazioni svolte nei precedenti post, e visto che il dibattito sul futuro dell’ateneo pare prescindere totalmente dall’argomento (come se un dibattito sul Palio prescindesse dai cavalli), cade a fagiolo questo interessante articolo sul Corriere della Sera di pochi giorni fa, del quale raccomando la lettura aggiungendo un mio commento:

“Proposta semiseria per una revisione: abolire una congiunzione nel primo comma dell’articolo 9. Oggi è improponibile la cultura distinta dalla ricerca scientifica e tecnica […] Recita l’articolo 9, primo comma: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica». Sì: cultura e ricerca…. l’arte poetica non sembra avere troppo in comune con la chimica, dunque in un certo senso le distinzioni sono giustificate almeno sulla base di una convenienza pratica. Meno apprezzabile è tuttavia l’incoronazione di un dominio specifico a Cultura per antonomasia o, meglio, l’esclusione della ricerca scientifica da essa.”

Giambattista Vico coniò l’espressione “Ingegni minuti”, poi recuperata da Benedetto Croce, per significare lo scarso valore intellettuale che egli attribuiva agli scienziati, contrapposti ai “filosofi”. Questo melenso leitmotiv pervade tutt’oggi, a livello più o meno consapevole, la didattica delle scuole superiori italiane, secondo una visione peraltro lievemente retrograda rispetto gli sviluppi della cultura di quest’ultimo secolo. Quelli che vogliono sovvertire questo punto di vista (L’è peso el tacon del buso), spesso fanno solo danno, asserendo la totale inutilità della cultura.

Vico affermava di aver provato invano a leggere gli Elementi di Euclide, senza tuttavia andare oltre la quinta proposizione, perché la sua mente di metafisico non riusciva a piegarsi a quei ragionamenti adatti agli “ingegni minuti” dei matematici, che si sogliono chiamare “dimostrazioni”. Che dire? Eppure quanto a raffinatezza metafisica, matematici come Cartesio o Leibniz non furono certo da meno di Vico.

La cultura italiana recente, incomprensibilmente oltremodo anti-illuministica, non è andata molto al di là di questo anatema verso le scienze e “la tecnica”. Partendo da una base storicista, si è evoluta ispirandosi ora ad un Heidegger, magari cercando di coniugarlo con il marxismo, salvo poi scoprire con imbarazzo che il fu rettore di Friburgo era integralmente nazista ed antisemita. Oppure a certi temi della Scuola di Francoforte, con ciò rimanendo sostanzialmente estranea alla cultura illuministica.

Gentile si chiedeva, con scetticismo, come potessero coesistere in una stessa rivista “l’elettromagnetismo e la coscienza”, e questo nell’Europa dei Poincaré, degli Hilbert, dei Carnap, dei Cassirer, dei Russell, o degli Einstein (!!!!). Un simile atteggiamento liquidatorio ha sortito due effetti: un tratto provincialistico e superficiale della cultura italiana dei nostri giorni, ed una concezione della ricerca scientifica che tratta con disprezzo la ricerca “pura” non immediatamente convertibile in danaro contante. Salvo poi non saper delineare con esattezza il confine e dire esattamente quale parte delle scienze è “applicabile” ed “utile”, visto che ogni nuova scoperta in linea di principio lo è.

Entrambi i partiti concordano sull’inutilità della “scienza pura” e della cultura di livello non superficiale che dialoga con le scienze. L’odio viscerale per la cultura, d’altra parte, è uno dei tratti distintivi della società italiana di oggi. Il prodotto di questa concezione non può che essere la totale sterilità sia della scienza che della cultura e la loro completa estraneità alla migliore tradizione europea.

P.S. Segnalo sul tema questo libro: Lucio Russo ed Emanuela Santoni “Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia”, Feltrinelli, 2011.

Buone vacanze, se ci andate.

La cultura è anche cultura scientifica (pura ed applicata) e la scienza è una disciplina sommamente umanistica

Altan-tagli-culturaRabbi Jaqov Jizchaq. La settimana scorsa, l’ottimo Stefano Feltri (vicedirettore de “Il Fatto”) ha condotto Prima Pagina su RAI3 e, anche per via del vespaio che ha sollevato con i suoi recenti interventi al riguardo, è tornato a sparare a zero contro la “cultura umanistica”, riprendendo una polemica che già da tempo sta conducendo sul suo giornale: “Molti dei commenti confermano l’idea molto italiana che la cultura sia solo la cultura umanistica. Che non conoscere a memoria i versi di Dante su Paolo e Francesca sia sintomo di ignoranza ma sia legittimo e perfino salutare non sapere cosa sono le derivate o la teoria della relatività.” (Stefano Feltri)

Cade a fagiolo con quello di cui discutevamo anche in questo blog. Il discorso investe le prospettive del nostro ateneo, nel processo, non terminato, di ristrutturazione e cancellazione di molte aree scientifiche. Sul piano schiettamente culturale avrei tuttavia delle obiezioni. Potrei, innanzitutto, rimbalzare la palla nel campo di Feltri osservando che, quando, giornalisticamente caldeggiando questa contrapposizione fra umanisti e scienziati, si parla di fisica o di matematica, non ci si riferisce quasi mai ai grandi matematici, le Fields medals, i grandi fisici, i grandi “paradigmi” e le grandi concezioni del mondo fisico, ma solo alle applicazioni tecnologiche o economiche immediate: delle “start up”, delle “spin off”, sostanzialmente di una parte della matematica e di una parte della fisica, dalle quali ci si attendono ricadute economiche immediate, e quasi mai della Scienza come cultura. Non che questo sia un reato, ma vorrei capire meglio di cosa stiamo parlando.

L’insistenza rinnovata su questa (in realtà fluida) demarcazione, accompagnata dal tono bassissimo della discussione, ha l’aria di un rappel à l’ordre, di un ritorno al provincialismo usuale di una cultura sterile fuori dai circuiti mondiali: i detrattori della cultura scientifica a malapena conoscono le tabelline ed i denigratori della cultura “umanistica” difficilmente saprebbero dire cosa intendono con questo concetto: come pensa di inserirsi nel quadro oramai internazionalizzato della cultura chi ragiona in questo modo? La pasoliniana “mezza cultura” italiana è tutta pervasa di questa distinzione fra “umanistico” e “scientifico”, ostentando la quale taluni cercano di dare a bere al proprio prossimo una ampiezza di vedute ed una consapevolezza che non hanno. C’è un non detto nel discorso di Feltri, ovvero che le ultime riforme hanno terribilmente abbassato il livello degli studi umanistici, riducendoli in genere a guazzabuglio. Le isole d’eccellenza sono rimaste poche.

Ma cos’è la cultura “umanistica”? Ad esempio, l’economia politica, che al tempo di Adam Smith si chiamava “filosofia morale”, è scientifica o no? E in generale, perché associare la filosofia alla cultura “umanistica”, quando la più parte della cultura filosofica “professionale” del ‘900 (non, per intenderci, quell’ammasso nozionistico di date e nomi che si studia a scuola) è roba molto tecnica, e, se pensiamo alla riflessione sui “fondamenti” (come si diceva il secolo scorso) della fisica o della matematica, condotta con metodi formali e matematici? È vero che per alcuni (ma solo alcuni) settori entro l’area umanistica, gli indicatori bibliometrici possono risultare più problematici che altrove (e sulla problematicità di questi indicatori in quanto tali, si è soffermata Mary), ma non e vero per altri, dove valgono gli stessi standard di rigore che per le scienze. In ogni caso la difficoltà nell’usare questi strumenti di valutazione non può giustificare la tendenza al lassismo. Si è mormorato, malignamente, che la sconclusionata lista delle riviste “di fascia A” o “scientifiche” per certe aree sia stata generata proprio dall’assenza di professori ordinari che avessero pubblicato su riviste autenticamente di alto livello.

Per me la cultura – a scanso di equivoci – è anche cultura scientifica, pura ed applicata, e anzi, rovesciando diametralmente il discorso, la scienza è una disciplina sommamente umanistica. Come ho già scritto in tempi non sospetti, trovo questo dibattito provincialoide e insopportabilmente stucchevole, perché prescinde da quella che in genere costituisce la premessa di un ragionamento rigoroso, ossia le definizioni esatte di ciò di cui si parla. Molti ritengono che fuori dai confini recintati del proprio orticello, vi siano solo i barbari, dei quali è consentito parlare in termini approssimativi. Insomma, non siamo certo nel Rinascimento, ne prendo atto: ma detto questo, oggi come oggi, interessa veramente la cultura scientifica ai livelli più astratti? È vero che “integrali e derivate – come dice Feltri – sono cultura” (Newton e Leibniz: cavolo se non è cultura!), ma la “matematica” finisce agli intergali di un corso di calcolo per studenti di economia? La teoria di Evaristo Galois non costituisce una tappa della storia del pensiero tout-court?

Intendiamoci, l’uomo della strada mediamente colto, infatti, già comincia a sentire “fumus” di filosofia quando ode mormorare di integrali curvilinei ed osserva geometriche figure tortili barocche, ponendo molto più giù la demarcazione fra scienza e metafisica. Perché parlando di scienza, il pensiero dell’uomo della strada (non ancora investito dal tram) corre immediatamente alle cose tangibili, senza pensare che una teoria, prima di essere applicata, ha da essere concepita. Ma può esistere la scienza applicata senza la scienza pura? Probabilmente la “scienza pura” è quella cosa che sempre di più si farà in “pochi hub della ricerca”, come va di moda dire oggi: ma allora cosa dovrebbero fare atenei come Siena e coloro che vi lavorano, soggetti nondimeno alla tirannia dell’ANVUR, della SUA e del VQR? Il fatto che con una laurea di indirizzo tecnologico o medico si trovi più facilmente lavoro, mi pare comunque essere un problema che sta ad un livello diverso rispetto al dibattito (stucchevole) sulle “due culture”.

C‘è un senso in cui Feltri ha ragione: il senso per cui “verum ipsum factum”, per così dire, ossia che dopo aver sputtanato un’area di studi, è facile riconoscere che essa è diventata inutile. Mi domando quale sia il livello di consapevolezza dei riformatori nazionali e locali visto che nelle recenti trasformazioni dell’università, più che altrove, si è manifestato in tutta la sua virulenza distruttiva quel fenomeno che con espressione pasoliniana ho definito “la mezza cultura”, conducendo rapidamente al declino. Ho già scritto in tempi non sospetti che non capivo come fosse possibile farsi paladini, da un lato, di quell’apparenza di rigore che promana dal VQR, dalla SUA, dall’ANVUR, con gli h-index e le riviste “di fascia A”, e dall’altro assecondare operazioni di bassissimo profilo che acceleravano la deriva.

È indiscutibile che con una laurea in chimica o ingegneria vi sono serie possibilità di trovare lavoro: si può, in extremis fare la valigia ed andarsene in Germania. Si può studiare alla Bocconi, come Feltri, e diventare d’amblé – pare – manager di qualche cosa (ma in questo paese vogliono fare tutti il “manager”?). Però – e non dico che questa sia la tesi di Feltri – da qui a dire che la cultura “umanistica” o anche “scientifica pura” (mi pare che presso i sostenitori di questa tesi alla fine non si facciano troppi distinguo) non servono affatto, ce ne corre: eppure mi pare in sostanza ciò che si sente dire in giro e si vede all’opera anche a Siena, tanto per non andare molto lontano. Ciò equivale a svendere l’identità di un popolo (e non alludo solo alle ruine e alle vestigia architettoniche di un nobile passato), abbandonare l’ultimo presidio di sovranità, accettare l’idea che l’Italia sia oramai anche culturalmente colonizzata, solo un grande suk, dove si vende merce concepita e prodotta altrove, nel quadro di una svendita totale, anche sul piano dei valori.

Io non voglio vivere in un paese dove una scuola rifiuta di far vedere agli studenti le opere pittoriche di Picasso, Guttuso e Chagall (un ateo, un comunista e un ebreo) perché “offensive” verso altre culture religiose: ma questa forma di asservimento, di rinuncia a tutti i valori più positivi della nostra civiltà, è semplicemente dovuta all’ignoranza. Gli eventi tragici di queste ore, poi, con gente che vuol cancellare addirittura la cultura occidentale tout-court a colpi di AK47, dovrebbero far riflettere: più che maomettani imbevuti di fanatismo, a guardarli bene questi ventenni barbuti assomigliano ai pasoliniani “giovani infelici”, omologati e imbottiti di droghe e consumismo, almeno quanto di esplosivo, che dell’Occidente conoscono solo la Coca Cola ed altre sostanze tossiche. Insomma, il passo, dalle considerazioni sensate sul mercato del lavoro, all’atteggiamento di quel famoso Gauleiter nazista che metteva mano alla Luger quando udiva la parola “cultura”, può essere breve.

L’Università era un’altra cosa. In ricordo di Giorgio Israel

Giorgio Israel

Giorgio Israel

Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo della scomparsa del matematico Giorgio Israel, collaboratore del sito ROARS. In un suo intervento aveva scritto: «Tutte le grandi scoperte scientifiche che hanno cambiato il volto del mondo – a partire dal computer digitale – sono frutto di idee teoriche, fondate sulla “scienza di base”. Un grande ingegnere come Leonardo da Vinci ammoniva: “Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza. Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si vada”

E poi ancora sull’oziosa e inattuale guerra fra “umanisti” e “scienziati”: «la sciagurata diatriba tra le due culture danneggia entrambe. Nella furia di distinguerle, le scienze vengono separate dalla cultura e pensate come mere abilità pratiche, predicando che solo ciò che ha un’utilità diretta vale qualcosa.»

Non saprei immaginare commento più appropriato al processo che ho cercato di descrivere nei precedenti messaggi. Qui, nella grettitudine dilagante, se uno sa fare 3×7=21, allora è uno scienziato che si sporca le mani con le dimostrazioni, esposto pertanto al rischio di conseguire qualche infezione. Se poi uno è scovato a leggere un libro, sia Omero o Nabokov, o a suonare un qualsiasi strumento aerofono o cordofono, allora ipso facto è qualificato come un inutile umanista: uno che non immagina neppure cosa sia un bosone o uno spazio vettoriale. Uno immaginato costantemente intento ad esprimersi in rima: fra i batraci eccovi il rospo/brutto eppur utile anfibio/nelle prode sta nascospo/al vederlo tremo e allibio (Primo Levi). Non ci sono più intellettuali o scienziati, ma tecnici e professionisti inscatolati nel proprio settore disciplinare. La cultura e la scienza non sono però affare di scatolame. Dubito che da questo mix di arroganza e di ignoranza (una rima baciata) che in altri termini si chiama provincialismo esca qualcosa di valido. L’università era un’altra cosa.