La cultura è anche cultura scientifica (pura ed applicata) e la scienza è una disciplina sommamente umanistica

Altan-tagli-culturaRabbi Jaqov Jizchaq. La settimana scorsa, l’ottimo Stefano Feltri (vicedirettore de “Il Fatto”) ha condotto Prima Pagina su RAI3 e, anche per via del vespaio che ha sollevato con i suoi recenti interventi al riguardo, è tornato a sparare a zero contro la “cultura umanistica”, riprendendo una polemica che già da tempo sta conducendo sul suo giornale: “Molti dei commenti confermano l’idea molto italiana che la cultura sia solo la cultura umanistica. Che non conoscere a memoria i versi di Dante su Paolo e Francesca sia sintomo di ignoranza ma sia legittimo e perfino salutare non sapere cosa sono le derivate o la teoria della relatività.” (Stefano Feltri)

Cade a fagiolo con quello di cui discutevamo anche in questo blog. Il discorso investe le prospettive del nostro ateneo, nel processo, non terminato, di ristrutturazione e cancellazione di molte aree scientifiche. Sul piano schiettamente culturale avrei tuttavia delle obiezioni. Potrei, innanzitutto, rimbalzare la palla nel campo di Feltri osservando che, quando, giornalisticamente caldeggiando questa contrapposizione fra umanisti e scienziati, si parla di fisica o di matematica, non ci si riferisce quasi mai ai grandi matematici, le Fields medals, i grandi fisici, i grandi “paradigmi” e le grandi concezioni del mondo fisico, ma solo alle applicazioni tecnologiche o economiche immediate: delle “start up”, delle “spin off”, sostanzialmente di una parte della matematica e di una parte della fisica, dalle quali ci si attendono ricadute economiche immediate, e quasi mai della Scienza come cultura. Non che questo sia un reato, ma vorrei capire meglio di cosa stiamo parlando.

L’insistenza rinnovata su questa (in realtà fluida) demarcazione, accompagnata dal tono bassissimo della discussione, ha l’aria di un rappel à l’ordre, di un ritorno al provincialismo usuale di una cultura sterile fuori dai circuiti mondiali: i detrattori della cultura scientifica a malapena conoscono le tabelline ed i denigratori della cultura “umanistica” difficilmente saprebbero dire cosa intendono con questo concetto: come pensa di inserirsi nel quadro oramai internazionalizzato della cultura chi ragiona in questo modo? La pasoliniana “mezza cultura” italiana è tutta pervasa di questa distinzione fra “umanistico” e “scientifico”, ostentando la quale taluni cercano di dare a bere al proprio prossimo una ampiezza di vedute ed una consapevolezza che non hanno. C’è un non detto nel discorso di Feltri, ovvero che le ultime riforme hanno terribilmente abbassato il livello degli studi umanistici, riducendoli in genere a guazzabuglio. Le isole d’eccellenza sono rimaste poche.

Ma cos’è la cultura “umanistica”? Ad esempio, l’economia politica, che al tempo di Adam Smith si chiamava “filosofia morale”, è scientifica o no? E in generale, perché associare la filosofia alla cultura “umanistica”, quando la più parte della cultura filosofica “professionale” del ‘900 (non, per intenderci, quell’ammasso nozionistico di date e nomi che si studia a scuola) è roba molto tecnica, e, se pensiamo alla riflessione sui “fondamenti” (come si diceva il secolo scorso) della fisica o della matematica, condotta con metodi formali e matematici? È vero che per alcuni (ma solo alcuni) settori entro l’area umanistica, gli indicatori bibliometrici possono risultare più problematici che altrove (e sulla problematicità di questi indicatori in quanto tali, si è soffermata Mary), ma non e vero per altri, dove valgono gli stessi standard di rigore che per le scienze. In ogni caso la difficoltà nell’usare questi strumenti di valutazione non può giustificare la tendenza al lassismo. Si è mormorato, malignamente, che la sconclusionata lista delle riviste “di fascia A” o “scientifiche” per certe aree sia stata generata proprio dall’assenza di professori ordinari che avessero pubblicato su riviste autenticamente di alto livello.

Per me la cultura – a scanso di equivoci – è anche cultura scientifica, pura ed applicata, e anzi, rovesciando diametralmente il discorso, la scienza è una disciplina sommamente umanistica. Come ho già scritto in tempi non sospetti, trovo questo dibattito provincialoide e insopportabilmente stucchevole, perché prescinde da quella che in genere costituisce la premessa di un ragionamento rigoroso, ossia le definizioni esatte di ciò di cui si parla. Molti ritengono che fuori dai confini recintati del proprio orticello, vi siano solo i barbari, dei quali è consentito parlare in termini approssimativi. Insomma, non siamo certo nel Rinascimento, ne prendo atto: ma detto questo, oggi come oggi, interessa veramente la cultura scientifica ai livelli più astratti? È vero che “integrali e derivate – come dice Feltri – sono cultura” (Newton e Leibniz: cavolo se non è cultura!), ma la “matematica” finisce agli intergali di un corso di calcolo per studenti di economia? La teoria di Evaristo Galois non costituisce una tappa della storia del pensiero tout-court?

Intendiamoci, l’uomo della strada mediamente colto, infatti, già comincia a sentire “fumus” di filosofia quando ode mormorare di integrali curvilinei ed osserva geometriche figure tortili barocche, ponendo molto più giù la demarcazione fra scienza e metafisica. Perché parlando di scienza, il pensiero dell’uomo della strada (non ancora investito dal tram) corre immediatamente alle cose tangibili, senza pensare che una teoria, prima di essere applicata, ha da essere concepita. Ma può esistere la scienza applicata senza la scienza pura? Probabilmente la “scienza pura” è quella cosa che sempre di più si farà in “pochi hub della ricerca”, come va di moda dire oggi: ma allora cosa dovrebbero fare atenei come Siena e coloro che vi lavorano, soggetti nondimeno alla tirannia dell’ANVUR, della SUA e del VQR? Il fatto che con una laurea di indirizzo tecnologico o medico si trovi più facilmente lavoro, mi pare comunque essere un problema che sta ad un livello diverso rispetto al dibattito (stucchevole) sulle “due culture”.

C‘è un senso in cui Feltri ha ragione: il senso per cui “verum ipsum factum”, per così dire, ossia che dopo aver sputtanato un’area di studi, è facile riconoscere che essa è diventata inutile. Mi domando quale sia il livello di consapevolezza dei riformatori nazionali e locali visto che nelle recenti trasformazioni dell’università, più che altrove, si è manifestato in tutta la sua virulenza distruttiva quel fenomeno che con espressione pasoliniana ho definito “la mezza cultura”, conducendo rapidamente al declino. Ho già scritto in tempi non sospetti che non capivo come fosse possibile farsi paladini, da un lato, di quell’apparenza di rigore che promana dal VQR, dalla SUA, dall’ANVUR, con gli h-index e le riviste “di fascia A”, e dall’altro assecondare operazioni di bassissimo profilo che acceleravano la deriva.

È indiscutibile che con una laurea in chimica o ingegneria vi sono serie possibilità di trovare lavoro: si può, in extremis fare la valigia ed andarsene in Germania. Si può studiare alla Bocconi, come Feltri, e diventare d’amblé – pare – manager di qualche cosa (ma in questo paese vogliono fare tutti il “manager”?). Però – e non dico che questa sia la tesi di Feltri – da qui a dire che la cultura “umanistica” o anche “scientifica pura” (mi pare che presso i sostenitori di questa tesi alla fine non si facciano troppi distinguo) non servono affatto, ce ne corre: eppure mi pare in sostanza ciò che si sente dire in giro e si vede all’opera anche a Siena, tanto per non andare molto lontano. Ciò equivale a svendere l’identità di un popolo (e non alludo solo alle ruine e alle vestigia architettoniche di un nobile passato), abbandonare l’ultimo presidio di sovranità, accettare l’idea che l’Italia sia oramai anche culturalmente colonizzata, solo un grande suk, dove si vende merce concepita e prodotta altrove, nel quadro di una svendita totale, anche sul piano dei valori.

Io non voglio vivere in un paese dove una scuola rifiuta di far vedere agli studenti le opere pittoriche di Picasso, Guttuso e Chagall (un ateo, un comunista e un ebreo) perché “offensive” verso altre culture religiose: ma questa forma di asservimento, di rinuncia a tutti i valori più positivi della nostra civiltà, è semplicemente dovuta all’ignoranza. Gli eventi tragici di queste ore, poi, con gente che vuol cancellare addirittura la cultura occidentale tout-court a colpi di AK47, dovrebbero far riflettere: più che maomettani imbevuti di fanatismo, a guardarli bene questi ventenni barbuti assomigliano ai pasoliniani “giovani infelici”, omologati e imbottiti di droghe e consumismo, almeno quanto di esplosivo, che dell’Occidente conoscono solo la Coca Cola ed altre sostanze tossiche. Insomma, il passo, dalle considerazioni sensate sul mercato del lavoro, all’atteggiamento di quel famoso Gauleiter nazista che metteva mano alla Luger quando udiva la parola “cultura”, può essere breve.

7 Risposte

  1. Poiché il saper di chi ragiona e pensa,
    quantunque idee fornisca e sentimenti,
    e il buono e il giusto e il ver segni all’immensa
    universalità delli viventi,
    pur col poter dispotico contrasta,
    e per doverlo detestar ciò basta.
    GB Casti

  2. “La dottrina secondo la quale il mondo è fatto di oggetti indipendenti dalla coscienza umana si rivela in conflitto con la meccanica quantistica e con i fatti stabiliti sperimentalmente” (Bernard d’Espagnat – fisico, non filosofo … ma c’è differenza?)

    “Quando le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, esse non sono certe; quando sono certe, esse non si riferiscono alla realtà” (Albert Einstein – Fisico, non filosofo … ma c’è differenza?)

    “Dobbiamo ricordare che ciò che osserviamo non è la Natura in se stessa, ma la Natura esposta al nostro metodo di indagarla” (Werner Heisenberg – fisico, non filosofo … ma c’è differenza?)

    “L’universo è immateriale: mentale e spirituale!” Richard Conn Henry … tratto da “Nature” (2005); 429: 6 (Astrofisico, non filosofo … ma c’è differenza?)

  3. Essere stufi di sentire il bocconiano di turno che sputa sulla cultura inutile. Ma cos’è utile, l’uomo a una dimensione? Produci-consuma-crepa; fai l’ingegnere; datti al piacere, droghe leggere, centro commerciale. Credi che Omero e Aristotele sian da buttare. Non sai che Galileo fu un grande umanista, Voltaire un classicista. Ti piace il tatuato che batte sulla tastiera, ma la penna gli è straniera. Piazzi ovunque computer e così difendi il tuo utile. L’uomo-bancomat paga per vivere, non vive certo per pensare o scrivere.

  4. … la fisica è già “metafisica” (o meglio, è tornata ad esserlo!) … solo che a questo punto, la consapevolezza è completamente diversa! E’ lo studio “scientifico” della natura dei fenomeni, che ci riporta verso Dio e dunque all’esterno e all’interno di noi stessi! Le “Scienze Umane” sono le uniche vere scienze! … tutto il resto è pura illusione! …

  5. «il sistema di riparto dei fondi … insistendo su ambigui criteri di merito sta finendo per concentrare le risorse e gli investimenti in pochi atenei di serie A che coprono un triangolo di 200 chilometri di lato con vertici Milano, Bologna e Venezia (e qualche estensione territoriale a Torino, Trento, Udine); mentre la serie B, cioè gli altri atenei, copre il resto del Paese» (LINK)

    «Ci sono università di serie A e di serie B, ridicolo negarlo … Ci sono delle università che riescono a competere nel mondo e università validissime, che però hanno un’altra funzione, un’altra missione» Matteo Renzi

    «Quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa. Ora rivedremo anche i corsi di dottorato, con criteri che porteranno a una diminuzione molto netta.» S. Benedetto, consiglio direttivo ANVUR.

    Già il sito ROARS (http://www.roars.it/online/che-cosa-e-ragionevole-attendersi-da-monti-in-tema-di-politiche-universitarie/) parlava di “divaricazione ex imperio tra teaching e research universities” al tempo di Monti. Sarà giusto? Ingiusto? Non so: “parliamone”, e cerchiamo di capire qual è il ruolo dell’università, secondo il dettato della nostra Costituzione (per avere quattro atenei nei ranking internazionali, in fondo basta chiudere gli altri novanta 🙂 ), ma per favore, non fingiamo di non capire che questa scelta ne porta con sé, a cascata, delle altre piuttosto dolorose: porta con sé, anzitutto, un radicale riassetto del sistema, a cominciare da una chiara distinzione tra “teaching” e “research university” (che al momento non si sa cosa cacchio voglia dire in sostanza, in un sistema premiale dove oramai la didattica, individualmente e collettivamente conta meno che niente), delle relazioni tra atenei sul territorio, della mobilità dei docenti, che non mi pare essere all’ordine del giorno.

    Questo è l’orizzonte, la direzione di marcia su cui si è avviata oramai da tempo la politica universitaria, che lo si condivida o no: pochi grossi atenei, uno a regione, e il resto “sedi distaccate” di fatto, ed è evidente – in un contesto in cui i grossi atenei baciati dalla Grazia avranno sempre più risorse e agli altri, ben che vada toccherà un contentino – che Siena, questo luogo ameno e bucolico dove pastori e mandriani continuano nell’esercizio onanistico di comporre carmi all’improbabile ateneo “piccolo è bello”, all’insegna della monocoltura (“tre o quattro corsi d’eccellenza”, che tradotto in idioma italico vuol dire “sede distaccata di Firenze o di Pisa”), sarà sempre più vaso di coccio tra i vasi di ferro toscani.

    «Se il Paese non investe sull’Università, l’università si restringe. Una pozza d’acqua che si asciuga. Per la prima volta nella sua storia, è diventata più piccola di circa un quinto… gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66mila (-20%); i docenti sono scesi a meno di 52mila (-17%); il personale tecnico amministrativo a 59mila (-18%); i corsi di studio a 4.628 (-18%).»
    (http://www.corriere.it/scuola/universita/15_dicembre_10/gli-studenti-italiani-voltano-spalle-all-universita-sette-anni-20percento-095e7a3e-9f59-11e5-a5b0-fde61a79d58b.shtml)

    Non ho a portata di mano i dati senesi aggiornati circa le iscrizioni ed immatricolazioni, ma salta agli occhi (vedi grafico “memento mori”) che Siena si discosta dal caso nazionale per due punti: se a livello nazionale il calo di docenti è stato un preoccupante -17%, a Siena si avvia ad essere un catastrofico -50%; lo stesso per i corsi di studio. Sono le cifre del declino. Come ripeto, non ho un’opinione precisa circa la evitabilità o meno di questo epilogo ineluttabile, purché mi si dica come si intende gestirlo e non mi si prenda per le natiche. Siccome “eccellenza nella ricerca” vuol dire strutture, gruppi di ricerca solidi e duraturi, massa critica, vorrei capire come può un ateneo come Siena, che in pochi anni sta perdendo metà (diconsi metà) del suo corpo docente, dopo aver smantellato intere aree di ricerca, bloccato il turn over e le carriere per dieci anni (i.e. distrutto una generazione di ricercatori) e per ampie aree è ancora è alla ricerca di un assetto stabile, partecipare a questa competizione aspirando ad essere accolto nella zattera dei pochissimi salvati “atenei di serie A”.
    Per questo esorterei a porre questa questione al centro di un dibattito nel quale siano però vietati anglicismi, prosa enfatica, luoghi comuni e spargimento di inutile ottimismo.

  6. L’ignoranza, troppo vasto programma…

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