Rabbi Jaqov Jizchaq. L’università di Harvard è la migliore del mondo. Ha da sola un budget pari a due terzi dell’intero FFO italiano, ma che vuoi che sia: quando c’è la passione, c’è tutto. Tra i 1000 migliori atenei, però, ci sono 48 italiani. Che è come dire, by the way (e scusate se vedo il bicchiere mezzo vuoto), che oltre la metà degli atenei italiani non compare nemmeno fra i primi mille. Firenze (251), Pisa (285) sono nella top ten degli atenei italiani. Più attardata Siena (437), subito prima dell’Università del Mississippi, dentro i primi 500, ma fuori dalla top ten italiana.
Dunque lo stato dell’arte è che i nostri ingombranti vicini viaggiano a gonfie vele a 150-180 posizioni davanti a Siena. Non credo che altre classifiche (di quelle internazionalmente accreditate) diano un responso tanto diverso. È evidente che il sistema universitario toscano poggia sempre più sul dualismo Pisa-Firenze. Temo che quanto più procederà l’integrazione fra questi due atenei, tanto meno ossigeno resterà per Siena, avverando la profezia del professor Emilio Barucci intorno al ruolo dei tre atenei maggiori della regione, che vede Siena ridotta ad un rango ancillare di sede distaccata e di fornitrice di diplomati triennali. Pur volendo scongiurare tale epilogo, tocca constatare però che il modo in cui avviene la ridefinizione dei ruoli all’interno del sistema degli atenei, e segnatamente all’interno dell’ateneo che dei tre è più sofferente (i sommersi ed i salvati), è ben lungi dall’idea di una razionale programmazione dei compiti spettanti a ciascuno e da un razionale uso delle risorse umane.
Il linguaggio burocratico-aziendalistico finisce per creare una spessa coltre di oblio, soffocando e conculcando ogni domanda di senso. Il livello culturale del dibattito intorno all’università, sia nazionale che locale, appare spesso caratterizzato da una visione approssimativa delle articolazioni dei vari campi della scienza e della cultura, quali esse si delineano oggi, agli albori del ventunesimo secolo (altro che “internazionalizzazione”!). L’appello frequente all’autonomia universitaria non può tradursi in una specie di sofisma pigro: siamo autonomi, ma da noi non possiamo fare niente, ergo, non facciamo niente, que sera, sera. Si dice che urge una sempre maggiore integrazione sinergica, ma ognuno va per conto proprio.
Come nel sistema dell’Armonia prestabilita, una monade, pur senza comunicare, dovrebbe agire in modo congruo all’agire di tutte le altre monadi, ma non vedo alcun Dio o demiurgo che regoli armonicamente le relazioni tra queste monadi e che le cose possano andare avanti così, sperando in un processo darwinianamente evolutivo, mi pare alquanto improbabile. Sintetizzo, appoggiandomi a questo articolo, i recenti criteri per il finanziamento dell’università pubblica (e “se sbaglio, mi corigerete”). Il finanziamento ordinario delle università dipende da:
1) una quota base, fino a oggi calcolata su base storica, cioè guardando ai finanziamenti ricevuti negli anni precedenti. Ora “sarà definita in relazione al “costo standard per studente regolare”: si tratta di una stima dei costi necessari per la formazione di uno studente iscritto in un corso da un numero di anni inferiore o uguale a quelli previsti per il suo completamento. Il costo standard, oltre a tener conto del costo della docenza minima richiesta per il tipo di corso frequentato e dei costi del personale amministrativo e di funzionamento, considera una quota perequativa per bilanciare le differenze di reddito tra regioni.”.
2) e una cosiddetta “premiale”. La quota premiale è assegnata prevalentemente sulla base dei risultati ottenuti dagli atenei nella valutazione della qualità della ricerca (leggasi VQR). È stata del 21,6%, ora verrà portata al 30%.
A regime, il finanziamento ordinario delle università sarà la somma di due quote: 30% di quota premiale e 70% di quota per costo standard. Mi chiedo dunque due cose: da un lato (punto 1), continuando a chiudere corsi e a perdere studenti, se la quota base sarà valutata sulla base del costo per studente e per i docenti necessari (vedasi “requisiti minimi di docenza”) a tenere in piedi i corsi di laurea, c’è da aspettarsi che riceveremo sempre meno quattrini. Dall’altro lato (punto 2) come è possibile che, perdendo quasi la metà del corpo docente (43%) la mole della ricerca e dunque l’ammontare della quota premiale, non ne risenta? È evidente che i nostri dirimpettai, avendo ciascuno tre volte più ricercatori e più studenti di noi, riceveranno, sia per la quota base che per la quota premiale, anche se col VQR siamo stati – nel nostro piccolo – bravini, molti, ma molti più quattrini di noi, e di certo Siena non si risolleverà con qualche spicciolo di contentino (ma a dire il vero il problema investe la maggior parte degli atenei del centro-sud).
Dunque non c’è partita: chi sta bene, starà sempre meglio e chi sta male starà sempre peggio e questo, si direbbe, è il modo per addivenire alla famosa partizione fra atenei di serie A ed atenei di serie B, a prescindere dal valore di chi ci sta dentro. L’esito della VQR, infatti, non appare decisivo al riguardo. Non so quanto spazio vi sia per la ricerca di un giusto mezzo, come mi pare auspicassero i programmi elettorali dei candidati rettore, ma di certo ciò non dipende solo da politiche locali. Tuttavia, anche qui, Siena sconta la drammatica perdita di peso politico a livello regionale e nazionale. E allora (tanto per tenere calda la vivanda, visto che il dibattito si è ulteriormente affievolito col cessare delle ostilità elettorali), continuo a chiedere: qual è il destino e il ruolo di Siena entro il sistema degli atenei toscani?
Forse dovrebbero essere le forze politiche locali a caldeggiare, ad un livello tutto politico, questo tema, sebbene intorno ad esso mi pare non si vada oltre le scaramucce e gli slogan. D’Artagnan sfida a duello Lord Winter, ma invece di incrociare le lame, i due si insultano “a lì mortacci loro”, restando distanti. Ecco, questo è il dibattito politico-culturale: non si entra mai nel merito, non ci si accapiglia sulle questioni di fatto, non c’è un vero e proprio confronto dialettico, ma ci si limita agli slogan, lanciati da debita distanza dalla punta della spada, per sicurezza.
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P.S.
La top ten mondiale
1) Harvard University
2) Stanford University
3) Massachusetts Institute of Technology
4) University of Cambridge
5) University of Oxford
6) Columbia University
7) University of California di Berkeley
8) University of Chicago
9) Princeton University
10) Yale University
La top ten italiana
1) La Sapienza Roma
2) Università degli Studi di Padova
3) Statale di Milano
4) Alma Mater di Bologna
5) Università di Torino
6) Università di Firenze
7) Federico II di Napoli
8) Università di Pisa
9) Università di Genova
10) Università Tor Vergata Roma
Spigolando sulla stampa di questi giorni leggo il seguente commento alle classifiche CWUR, tratto dal giornale on line “Metro”, che mi pare vada, caldeggiandola con una certa veemenza, nella direzione descritta nei precedenti messaggi: distinzione fra atenei di serie A e di serie B, abolizione del valore legale del titolo, attribuzione di diverso peso del medesimo titolo di studio a seconda delle università, contrattualizzazione della posizione del docente, ulteriore riduzione degli addetti alla ricerca di ruolo: l’università pubblica fatta per lo più di precari a cottimo che si dedicano al mestiere della ricerca come “hobby”. Svolgo queste considerazioni qui, perché non sono su Facebook, come richiede il sito del quotidiano.
In sintesi, ecco alcune affermazioni dell’articolista:
«Come fanno le Università a finanziare la ricerca se spendono in stipendi quasi tutti i loro fondi? Semplice, non lo fanno. Non stupisce così che i nostri atenei stentino a brillare nelle graduatorie internazionali. […] L’abolizione del valore legale del titolo di studio, vecchia battaglia di Luigi Einaudi, avrebbe costretto le Università a competere facendo emergere le eccellenze esistenti tanto dei corsi di laurea che della ricerca […]Che dire poi della proliferazione – quasi sempre ingiustificata – di mini Facoltà, sedi distaccate e micro corsi, nati talora dall’esigenza politica di accontentare un territorio in cambio di rinnovate alleanze[…] Oggi invece una laurea conseguita in una nota Università vale tanto quanto quella ottenuta dall’unico studente iscritto a Camerino» http://www.metronews.it/16/07/14/universit%C3%A0-allitaliana-un-mondo-alla-rovescia.html
Non voglio discutere questa concezione liberal-belluina della “competizione” fra atenei, ma ricordo che allo stato dell’arte ciò vuol dire: 1. completare lo smantellamento delle università del centro-sud (da sempre indietro nelle classifiche), 2. ridurre gli atenei medio-piccoli (come Siena) al rango di istituti professionali, come sedi distaccate di “hub” territoriali e 3. chiudere molti atenei: del resto chiudendone la metà, si potrebbero finanziare adeguatamente due o tre grossi atenei del nord e uno nel centro-sud e fare la nostra porca figura all’interno delle graduatorie internazionali del CWUR. Oramai è un quotidiano stillicidio di dichiarazioni di politici e burocrati, trafiletti e articolesse su giornali di ogni sorta che invocano questa svolta: perché le competenti autorità non vengono al dunque? E soprattutto, come, dal punto di vista operativo, intenderebbero attuare questo progetto? Almeno ci si renda conto che, anche qui a Siena, nel nostro piccolo, stiamo parlando di questo e non di altro.
Ciò detto, ma l’autore lo sa che il budget dell’università di Harvard è pari al 56% dell’intero Fondo di Finanziamento italiano e che la Germania investe nell’università 20 miliardi (diconsi venti) più dell’Italia? Si spera forse di pareggiare il conto con maggiori finanziamenti privati, ma è evidente che in un paese in piena deindustrializzazione qual è l’Italia, essi non potranno mai neppure sfiorare le vette vertiginose delle più rinomate università americane. Comunque l’ammontare massimo del budget spendibile in stipendi, qui è fissato dalla legge. La domanda giusta sarebbe se i ricercatori italiani fanno fruttare quei po’ di soldi che gli toccano: secondo l’ANVUR (ed è tutto dire) l’Italia è meglio di Germania, Francia e Giappone come efficienza della ricerca pubblica http://www.roars.it/online/anvur-italia-meglio-di-germania-francia-e-giappone-come-efficienza-della-ricerca-pubblica/.
Questo articolo su “Metro”, comunque, mi pare sia stato scritto mezzo secolo fa, non due giorni fa: l’autore ha tutto il mio appoggio nell’inveire con la pratica di diffondere ovunque “sedi distaccate” (anche se la spiegazione di ciò che fa appello esclusivamente alla perfidia e alla sete di potere dei docenti è alquanto puerile), ma come fanno ad esistere, secondo le norme vigenti, corsi di laurea “con un solo studente”? Lo sa l’autore che il numero di docenti per corso di laurea, così come il numero minimo di studenti oramai da un pezzo, sono fissati dalla legge? Che di corsi di studio, in questi anni, ne sono stati chiusi migliaia? Poi di quale numero eccessivo di “facoltà” va parlando? Le “facoltà” non esistono più dal tempo della Gelmini e i dipartimenti, sebbene non si sappia bene che roba siano, non sono le “facoltà”. E di quale eccesso di docenza va cianciando? Forse le infornate degli anni ’80, ma dopo non gli sono bastati dieci anni di blocco del turn-over? Il sistema ha perso in meno di un decennio migliaia di docenti (mediamente il 17%, ma molti atenei ne hanno persi assai di più: Siena e Firenze ne stanno perdendo oltre il 40%, anche se per Firenze è meno grave, visto che ha tre volte più docenti di Siena).
Il “ricercatore” a tempo indeterminato non esiste più e non è stata una gran trovata, dato che mai si potranno tradurre in associati tutti gli abilitati: ora ci sono i contratti di tipo A e di tipo B. L’Italia è uno dei paesi sviluppati con il minor numero di ricercatori al mondo. Solo Cile, Turchia e Polonia registrano un dato inferiore http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2016/02/bollettino_Prodi_24_2_2016.pdf. Ma per l’uomo della strada, o del metrò, sputacchiare sul “culturame” è da sempre una gioia. Fatto sta che l’articolo lascia intravedere bene la direzione verso la quale ci siamo avviati. È sul modo in cui si intende perseguire l’obiettivo, che non c’è chiarezza: sicché il legittimo sospetto è che si pensi ad un golpe, piuttosto che a una riforma, visto che non è stata resa nota in modo esplicito la “road map”. Non è difficile intravedere il destino di atenei come Siena, in questa cornice. Almeno cerchiamo di averne consapevolezza
Mi scuso con l’autore se inserisco il mio contributo senza aver letto interamente il suo intervento. Comunque, la strada verso una marcata differenza fra atenei è confermata …
http://www.lanotiziagiornale.it/la-giannini-taglia-ancora-i-fondi-alle-universita-cosi-gli-atenei-pubblici-vengono-mandati-allo-sbaraglio/
Liberal-belluina mi sembra una bella definizione! Dite a ogni liberal-belluino di farsi operare da un medico che non ha alcun titolo di studio, così vediamo se insistono con questa storia del valore legale …
– Lauree false a Medicina, la reazione del rettore
«Evidenziata la gravità dei reati contestati»
http://catania.meridionews.it/articolo/33377/lauree-false-a-medicina-la-reazione-del-rettore-evidenziata-la-gravita-dei-reati-contestati/
– Lauree false in Medicina e Odontoiatria, denunciati 12 medici
http://catania.liveuniversity.it/2015/05/29/lauree-false-in-medicina-e-odontoiatria-denunciati-12-medici/
– Lauree facili. Me la compri papà?
http://archivio.panorama.it/italia/Lauree-facili-Me-la-compri-papa
– Dove Comprare una Laurea valida in Italia
http://comprarelaurea.com/
– False lauree comprate in Polonia Scoperti due finti odontoiatri
http://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/2011/03/02/467459-false_lauree_comprate_polonia.shtml
… non continuo perché sull’argomento si può scrivere una Bibbia. Quanto poi alla bravura di quelli dotati di laurea “regolare”, i dubbi sono e rimangono molti (così come gli esempi estrapolabili dalle cronache!). Nell’abolizione del valore legale del titolo di studio, in ogni caso, l’accento non è sulle “garanzie” che il titolo può dare (perché, di fatto, in un Paese ai vertici della corruzione, come il nostro, questa garanzia non la può dare nessuno!), ma, caso mai sul chi sa fare cosa!
ultimissime:
Buco dell’Ateneo: tutti assolti “per non aver commesso il fatto”
notevole….e allora chi è stato? Sarà colpa del fato? Se ci fosse il buon Giacobbo (“Voyager”) direbbe che ci sono di mezzo gli extraterrestri.
…. d’altronde le cronache rivelano la presenza di entità extraterrestri in provincia di Siena: “Ia sera del 17 settembre 1978: due extraterrestri scesi da un oggetto luminoso di forma sferica bloccano l’auto di Rivo Farelli a Torrita, in provincia di Siena”, “L’ultimo avvistamento in Valdorcia risale al febbraio scorso, da parte di due sorelle, e’ avvenuto alla Foce, nei plessi di Chianciano Terme”, “Ero in auto, il motore gradualmente ha cessato di funzionare fino ad arrestarsi del tutto, sono sceso per controllare e, proprio sopra la mia testa, ho notato uno strano aggeggio a forma di disco e dal colore argenteo, era fermo in aria. Dopo pochissimo tempo, non più di un minuto, l’aggeggio é sfrecciato verso il Monte Amiata”, “Sfere di luce e Cerchi nel Grano nelle colline tra Castelnuovo Berardenga e Arceno”, “Anche in Italia i laghi sono popolati da lucertoloni di ogni tipo. Dal lago di Pentolina in provincia di Siena, al lago di Monticchio in cui si avvistano strane bolle, che sono state avvistate anche nel Lago Maggiore”, “SIENA – Una palla colorata che appare nel cielo, e poi resta lì per ore ed ore, cambiando tonalità e limitandosi a piccoli spostamenti. Un mistero al quale molti abitanti di Taverne d’Arbia vorrebbero dare una spiegazione razionale” ecc. … dunque non v’è dubbio: gli autori del buco furono sicuramente extraterrestri e dall’entità del prelievo, si direbbero quadrumani (se non ottomani).
[…] che ho già svolto circa il destino e il ruolo dei tre atenei toscani, la sbandierata, quanto improbabile “sinergia” tra monadi che non comunicano, il timore che essa si traduca in mera sottomissione e cancellazione del più debole, e non voglio […]
[…] né mobilità: come già detto, qualcuno pensa di realizzare “l’armonia prestabilita” fra monadi non comunicanti. La disaffezione dalla politica, l’opzione nichilista o “populista”, alla fine sono […]