Coordinamento comunale di Forza Italia. Abbiamo letto l’accordo fra la Regione Toscana, l’Azienda ospedaliera universitaria senese e l’Università degli studi di Siena e ci siamo posti delle domande sull’utilità della soluzione trovata. Nell’accordo si legge che «gli spazi del polo didattico ospitati all’interno dei blocchi assistenziali del policlinico risultano poco funzionali alle esigenze universitarie mentre risulterebbero adeguati (poiché direttamente collegati al resto della struttura ospedaliera) a risolvere esigenze di reperimento di spazi ulteriori per i servizi dell’Azienda ospedaliera universitaria». Ora l’assessore alla sanità regionale, Stefania Saccardi, deve dirci se tale accordo risponde a logiche di economicità, se all’interno delle Scotte non fosse stato possibile trovare, vista anche la riduzione delle attività assistenziali, altre soluzioni che avrebbero permesso di non fare nuove edificazioni. Ammesso e non concesso che si debbano fare, cosa di cui dubitiamo fermamente, tali costruzioni andrebbero a soddisfare vecchie richieste di ex rettori che non rispondono più alla situazione attuale. Così come dovrebbe dirci, sempre l’assessore regionale, se tali interventi, stimati in diversi milioni di euro, rispondono alla logica dell’impiego di risorse sanitarie unicamente nei servizi sanitari al fine di potenziarli e migliorarne la qualità. Ci nasce il sospetto, vista la situazione delle Scotte e dell’Università, che l’accordo non abbia altro fine che quello di un ulteriore finanziamento all’ateneo senese.
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«Il risveglio di Forza Italia». De mortuis nil nisi bonum dicendum est, certo Siena ha combinato dei guai attribuibili principalmente (ma non solo: il “groviglio armonioso” politico-familiare) alla sua élite politica ed accademica, che afferisce ad un’area politica ben precisa. Essa ha offerto su un piatto d’argento la propria testa a chi gliela voleva tagliare (sempre all’avanguardia!), ma il fenomeno detto della “compressione selettiva” del sistema universitario, che vede la marginalizzazione sempre maggiore degli atenei medio-piccoli è politica nazionale, perfettamente bipartisan, oramai da tempo.
A me pare che la politica universitaria sia perfettamente bipartisan all’insegna della continuità. Scrive il prof. Viesti, autore del volume «Università in declino. Indagine sugli atenei da Nord e Sud»:
«la cosa che stupisce è che non c’è nessuna differenza fra Berlusconi, Monti, Letta, Renzi. La politica è assolutamente identica. Di questa politica non si è occupato il Parlamento, nel senso che non ho trovato evidenza di discussioni parlamentari su questi temi. Ho trovato invece evidenza di un pensiero unico, di una rappresentazione sciatta dell’università» http://www.roars.it/online/g-viesti-da-berlusconi-a-renzi-e-in-atto-un-vasto-programma-per-poter-chiudere-le-universita/
Si fa notare in particolare che l’Italia investe meno di 7 miliardi nella sua università, mentre la Germania 26. L’Italia ha tagliato gli investimenti del 22%, la Germania li ha aumentati del 23%”http://www.roars.it/online/universita-litalia-taglia-la-germania-investe/ì L’articolo citato comincia col ricordare anche il fallimento della legge Berlinguer-Zecchino del «3+2», che ha mancato in pieno l’obiettivo del 40% di laureati entro il 2020: “Siamo all’ultimo posto nell’Europa a 28 con il 23,9%.”
Si è altresì sostenuto in modo bipartisan che la riforma Gelmini fosse “di gran lunga la migliore riforma fatta dal governo Berlusconi” (Zingales). Sulla stessa linea editorialisti come Abravanel o Giavazzi: dunque, perché discostarsene? Alla riforma Gelmini dobbiamo l’ANVUR e Renzi ha fatto suo il “dictum” gelminiano della qualità e dei “pochi hub della ricerca”, che porta a distinguere fra sommersi e salvati:
“Negare che vi siano diverse qualità nell’università è ridicolo – ha detto Renzi – Ci sono università di serie A e B nei fatti e rifiutare la logica del merito e la valutazione dentro l’università e pensare che tutte possano essere uguali è antidemocratico, non solo antimeritocratico” https://ilsensodellamisura.com/2016/08/15/il-risveglio-di-forza-italia-sulluniversita-e-la-sanita-senesi-e-il-sonno-profondo-delle-altre-opposizioni/#respond
Sotto Profumo è proseguita la contrazione dell’università italiana, e in particolare si è verificata la riduzione del numero di docenti dai quasi 60.000 a circa 40.000 http://www.roars.it/online/da-gelmini-a-profumo-la-politica-contro-luniversita-e-la-ricerca/. Allora di che lamentarsi, se sono tutti d’accordo? Il compianto Giorgio Israel ebbe a scrivere:
“non c’è né Spectre né Protocolli, ma un’agenzia molto trasparente che ha lanciato da tempo un’Opa sul sistema dell’istruzione italiano (tutto, scuola e università). È Confindustria[…]. Un modo per formare quadri aziendali gratis e avere un ufficio studi a costo zero.”
Lo dico in maniera del tutto oggettiva ed avalutativa. Nel senso che può darsi che tutti codesti signori che propugnano la teoria dei “pochi grossi hub della ricerca” affiancati da satelliti detti “teaching universities”, con tutte le prevedibili conseguenze (non equipollenza di fatto delle lauree, contrattualizzazione delle posizioni lavorative ecc.) abbiano ragione e chi li osteggia abbia torto. Chiedo solo che siano conseguenti e traggano le conclusioni dai principi che postulano: come pensano di attuare i loro propositi?
Anche ammettendo la plausibilità di una simile metamorfosi del sistema, essa non può attuarsi difatti semplicemente attraverso la mera marginalizzazione, dunque la punizione di massa, nei confronti di chi lavora negli atenei minori, principalmente del centro-sud, né lasciando marcire le situazioni, attraverso la lenta eutanasia delle aree scientifiche non funzionali al disegno di trasformazione degli atenei minori in una sorta di Fachhochschule o Community College professionalizzanti. Vogliono realizzare sistemi integrati di atenei, ma non c’è coordinamento, né mobilità: come già detto, qualcuno pensa di realizzare “l’armonia prestabilita” fra monadi non comunicanti. La disaffezione dalla politica, l’opzione nichilista o “populista”, alla fine sono conseguenza della rassegnata constatazione di questa incapacità della politica di uscire dalla stasi e dalla stagnazione.
‘Mieux vaut un désastre qu’un désêtre.’ (Alain Badiou)
http://www.lettera43.it/cultura/gli-universitari-italiani-fannulloni-e-impreparati_43675125347.htm
http://www.signoraggio.it/i-professori-delle-universita-italiane-fanno-ridere-i-polli/
tanto per citarne alcuni…..
Ragionando in questa prospettiva, chi vuole gli hub suppongo abbia anche come conseguenza la rovina di parecchie carriere.
Comunque, il sistema universitario si sta muovendo esattamente come indicato qui:
Fai clic per accedere a 201006_Sfida_Strategica_Universita.pdf
….Latest news, un’altra classifica, quella di Shanghai (oramai non passa giorno… gutta cavat lapidem!):
«Università, La Sapienza migliore delle italiane nella classifica di Shanghai. Nell’Academic Ranking of World Universities 2016 la Sapienza è alla 163esima posizione, unica università italiana nel range 151-200 insieme con Padova, in 183esima posizione.» http://roma.repubblica.it/cronaca/2016/08/16/news/universita_la_sapienza_migliore_delle_italiane_nella_classifica_di_shangai-146065873/
….ma per infilare qualche altro ateneo italico nelle prime cento, basta accettare la Endlosung del sistema dell’università pubblica delineata nel documento Ambrosetti che tu citi. Io lo dissi come battuta, ma questi qua parlano sul serio: se l’obiettivo è quello di portare un po’ di atenei italiani ai vertici delle classifiche internazionali, la strada migliore è chiuderne almeno la metà, per recuperare danari da investire in “grossi hub della ricerca”. Anche se difficilmente si conquisterà immediatamente la massima onoreficienza, e non solo perché il budget di Harvard è pari a due terzi dell’intero FFO italiano.
Vedo infatti che il documento Ambrosetti pone come obiettivo per gli atenei quello dell’ottenimento di un certo numero di riconoscimenti e fa il caso dei premi Nobel (o simili, I suppose, visto che il Nobel per la Matematica o per l’Archeologia del Vicino Oriente non esiste, a meno che gli ambrosettiani non ritengano queste aree irrilevanti). Pare che sia tutta una questione di sforzo di volontà, alimentata col randello della “competizione meritocratica”. Forse però si dovrebbe riflettere meglio sul perché in passato vi siano stati, non uno, ma ben 44 premi Nobel a ricercatori affiliati ad un ateneo non troppo più grande di Siena come Göttingen.
Qui da noi in molte aree scientifiche abbiamo il problema più terra-terra di salvaguardare almeno una laurea magistrale, altro che premio Nobel: stiamo più semplicemente cercando di capire se sopravviveranno o meno. Dunque quelli dell’Ambrosetti non abbassano lo sguardo, non parlano di noi o di Monte Cassino, e pare invero che non considerino “università” strictu sensu quelle di analoga dimensione. Come volevasi dimostrare. Del resto dicono che 88 atenei sono troppi, anche se non è chiaro rispetto a cosa. La Germania ha 109 università (Universitäten), 191 istituti superiori di formazione professionale (Fachhochschulen) e 55 istituti superiori di formazione artistica, cinematografica e musicale (Kunst-, Film- und Musikhochschulen).
Ma mentre attendiamo che si affermi il modello aziendalistico manageriale, con privatizzazione e divisione del mondo in “research university” e “teaching university”, mentre insomma in qualche antro si decide il nostro destino, si può fare qualcosa, oppure dobbiamo dare per scontato che in attesa che si crei “l’uomo nuovo” a quello vecchio non resti altro da fare che attendere la sentenza e quindi gettarsi da una rupe?
“se l’obiettivo è quello di portare un po’ di atenei italiani ai vertici delle classifiche internazionali, la strada migliore è chiuderne almeno la metà, per recuperare danari da investire in “grossi hub della ricerca”
O a Bari, Messina, Urbino e a spiegare che la chiusura di quelle tre università (in fondo alla classifica dell’Anvur) è nell’interesse dei loro figli. Non è frequentando una fabbrica delle illusioni che ci si costruisce un futuro.
http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_19/ragnatela-corporativa_bb05a596-088e-11e3-abfd-c7cdb640a6bb.shtml
Che nell’università ci siano troppi professori è un fatto
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_24/un-paese-fuori-corso-editoriale-francesco-giavazzi_b658834c-df3d-11df-ae0f-00144f02aabc.shtml
L’Italia è uno dei paesi sviluppati con il minor numero di ricercatori al mondo; fanno peggio solo Cile,
Turchia e Polonia http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2016/02/bollettino_Prodi_24_2_2016.pdf.
Comunque nota che l’articolo di Giavazzi che citi è del 2010, basato dunque su dati antecedenti. Un’altro mondo: come dire il MPS prima o dopo il tracollo. In questi lasso di tempo la situazione è cambiata radicalmente. Migliaia di corsi chiusi. Sono spariti 10.000 docenti. A Siena ne sono spariti 350 e un altro centinaio è lì per andarsene. Il 40% circa di quelli rimasti sono ricercatori old style. Se però la politica è quella di abbattere il sistema dell’università pubblica basato su 88 atenei, sterminando gli atenei medio piccoli e concentrando le risorse su pochi grandi atenei del nord, noi che possiamo fare, oltre ad assistere allo spettacolo?
Lo so che sono datati, appunto per questo mi diletto ad acclarare come determinate dichiarazioni vengo applicate nel tempo.
[…] Jaqov Jizchaq. «Il risveglio di Forza Italia». De mortuis nil nisi bonum dicendum est, certo Siena ha combinato dei guai attribuibili […]
… ma il problema di fondo (IRRISOLTO!!!), secondo me, è sempre lo stesso …. e ce lo conferma uno che se ne dovrebbe intendere: http://video.corriere.it/cantone-chi-perbene-non-fa-carriera-pubblica-amministrazione/5077a3c6-7d0a-11e5-8cf1-fb04904353d9