Per ricordare Mauro Barni, pubblichiamo il suo intervento (apparso su “Il senso della misura” il 4 maggio 2010) all’incontro-dibattito «Salvare l’università di Siena. Quale modello per il futuro?»
Università di Siena: basta con l’autoreferenzialità e con l’autonomia dell’irresponsabilità
Pubblichiamo la quinta puntata del resoconto integrale dell’incontro-dibattito «Salvare l’università di Siena. Quale modello per il futuro?» La prima parte è stata pubblicata con il titolo: «Ci sarà un risorgimento per l’università di Siena?». La seconda parte : «La crisi dell’università è crisi del “sistema Siena” e non può essere risolta da chi l’ha creata». La terza parte: «L’università di Siena è destinata per molti anni a stare in rianimazione». La quarta parte: «L’università di Siena è cresciuta in modo disordinato, senza criteri di omogeneità e di efficienza».
Stefano Bisi (Vice Direttore “Corriere di Siena”) Moderatore. Sentiamo il professor Barni che ha fatto il Rettore. Il professor Gaeta ha posto un problema di sottrazione. Mauro Barni non è un matematico, però i conti tornavano quando è stato Rettore all’Università di Siena.
Mauro Barni (Già Rettore dell’Ateneo di Siena). Io sono particolarmente lieto, ma anche un po’ imbarazzato, perché temo sempre che prevalgano in noi le memorie e non nella visione diretta della realtà. Questo è un male grosso che vorrei, cerco sempre, di evitare, ma spesso non mi riesce. Ma sono contento veramente di poter dire qualcosa in spirito collaborativo. Contento di essere stato in questa Sala del Risorgimento che, come diceva Stefano Bisi, è di buon auspicio. Francamente, più per l’idea che per i personaggi che vi sono effigiati. Certamente curare e salvare l’Università. Io sono un medico, come Adalberto, però io sono un medico legale e questo potrebbe…!
Stefano Bisi. Proviamo ad aprire questo corpo, allora, proviamo ad aprirlo!
Mauro Barni. Però, usciamo da questo discorso. L’auspicio è buono: anche perché siamo di fronte ad un autentico dramma. Mi pare che Adalberto e Gaeta abbiano detto delle cose sagge, un autentico dramma di proporzioni inaudite. Francamente non c’è niente di male a dirlo. Naturalmente, quello che fa paura di fronte a questo dramma, è l’indifferenza. L’indifferenza notevole di una comunità che non si rende conto esattamente della situazione, indifferenza dei politici spesso, di qualunque parte essi siano, che vi vedono in questa realtà delle possibilità di incremento di una parte sull’altra, nello scarico di responsabilità, che francamente non è corretto. Ma non è corretto nemmeno ricorrere, da parte di chi dovrebbe avere una posizione al di sopra delle parti, alternativamente all’una o all’altra parte. Queste sono cose che non si fanno, perché c’è una grande dignità, un grande decoro in chi rappresenta l’Università, per cui certamente ognuno ha le sue idee, però dovrebbe avere soprattutto l’orgoglio di rappresentare una grande istituzione vitale per una città come per un paese nel suo insieme. Ma io dirò pochissime cose, in effetti, perché molte sono state dette, e francamente voglio fare un discorso politico, che si riassume in brevissimi termini.
Noi dobbiamo vedere l’Università di Siena anche nel quadro generale, nel quadro della crisi generale dell’Università. Crisi non è detto che sia sempre un’espressione negativa. È una crisi dell’Università. Cominciamo dal Policlinico, di cui si è parlato in una conferenza sul passato dell’Università e del Policlinico, diretta magistralmente dal Bisi al Santa Maria della Scala. Il Policlinico è stato oggetto di un sollievo notevole, non parlo del San Nicolò, perché, francamente, per me è un dolore pensare che una generazione di senesi, un secolo di senesi hanno realizzato questa grande struttura, che si è volatilizzata perché non erano stati pagati i contributi per il pensionamento del personale. Questo è un dolore forte, perché è un dolore che fa anche male a chi ha memoria di certi personaggi. Io l’ho detto chiaramente all’amico Rettore, non c’è nient’altro da fare, il Policlinico si deve vendere, in fondo la Regione gestisce la sanità. Ma, francamente, buttando questi soldi del Policlinico, che verranno non tutti insieme, ovviamente, e parlo anche di quelli del San Nicolò, e parlo di altri che potrebbero venire da Pontignano, da tante parti, ma tutto ha un limite, si rimedia la situazione? Mi pare di no, perché si butta altra acqua in un tubo bucato, sfondato. Quindi mi sembra che questa non sia la sola via d’uscita. Probabilmente il male è nel passaggio di proprietà, perché certamente la Facoltà medica avrà un peso minore. È inutile che qualcuno faccia il furbo, come ci sono sempre fra i docenti e fra i non docenti: “ma io sono ammanicato con l’assessore Rossi”. Ma siamo ancora a questo punto? Allora, siamo molto indietro! Lo posso dire, non per niente perché sono vecchio. È un male per tutti: l’Università che governo ha fatto del Policlinico? Questo è un altro discorso importante. Secondo me, mettendosi una mano sulla coscienza anche autocriticamente, non abbiamo fatto un buon governo del Policlinico e della leadership che ci dava nell’ambito sanitario. Non sono state fatte scelte adeguate, spesso sono state scelte sbagliate. È inutile stare a discutere poi se oggi la Regione, come gestore della sanità, e l’azienda ricorrono a un ruolo diverso, ricorrono al ruolo dei primari; questo è un cattivo governo della Regione o è una specie di supplenza a carenze altrui, cioè le nostre?
Poi c’è una politica, chiaramente nell’ambito della sanità, che va vista non superficialmente, come si usa fare spesso per risolvere una battuta o un dibattito rapidamente. C’è una tendenza, in campo regionale e anche nazionale, a dare maggiore peso al servizio sanitario nella formazione del personale, medico e non medico. Certamente questo è un dato che va visto e considerato. Quindi, in fondo, questo addolcisce un po’ la pillola ma rende amaro il ruolo dell’Università, Facoltà medica nel futuro. D’altronde, in Francia è così, in Germania è così. L’Università ha un ruolo marginale nella formazione dei medici e del personale sanitario. E questo discorso si inserisce anche in una sorta di messa a regime del sistema universitario. È inutile che ci si inquieti. Il cattivo governo che si è fatto dell’Università, con la proliferazione degli atenei, ha indotto, induce e indurrà qualunque governo, di destra o di sinistra che sia, a un processo di razionalizzazione. Occorre vedere bene come si mettono le cose, non fare dei duplicati inutili, non inventare delle professioni inutili, dei corsi inutili. È una rincorsa verso la follia, verso il San Niccolò. Mi sembra sia stato detto molto chiaramente anche fin qui. Quindi, l’indifferenza di tutti. La Regione con un colpo di mano, logico secondo me, ha accentrato tutto il Diritto allo studio della Toscana. C’è un’azienda sola e pochi se ne sono accorti a Siena. Per fortuna che c’è un bravissimo politico colligiano senese a dirigerla, che ha seguito sempre la realtà del diritto allo studio. Ma noi non contiamo. Certamente l’Università perde questi contatti e non ha la necessaria visione complessiva in questo sistema universitario, in una maggiore distribuzione, anche.
Guardate la politica della ricerca della Regione Toscana: è una politica che tende a supplire le carenze dell’Università, tende a creare dei poli di attrazione per la ricerca – e Siena ne ha – che non hanno nulla o poco a che fare con l’Università. C’è, ovviamente, un’Università, quella di Pisa, che è l’unica che ha capito il gioco. C’è stata, ma fino a un certo punto. Ha detto: io la ricerca me la finanzio da me, però faccio la ricerca che voglio. Ma Pisa è un faro isolato nella ricerca biomedica, è l’Università che concentra il maggior numero di centri del C.N.R. e, quindi, drena praticamente l’80% dei fondi del C.N.R. per la biomedicina e per altri settori. Quindi mi sembra che il discorso vada visto anche in maniera più complessiva, guardando la situazione di Siena nel quadro dell’evoluzione dell’Università. Siena non finisce a…
Stefano Bisi. Porta Camollia.
Mauro Barni. …Porta Camollia, e nemmeno a San Giovanni Valdarno. Oggi, giustamente, è stato detto: ma salviamo questo Polo di San Giovanni Valdarno! Con tutto il rispetto perché è gente cara e operosa.
Stefano Bisi. C’è nessuno di San Giovanni Valdarno?
Mauro Barni. Perché c’è qualcuno che dà dei soldi? Ma li può dare per un anno; poi siamo alle solite. Come quando si facevano le cattedre convenzionate, qualche magnate, benefattore pagava un professore nuovo per tre anni, poi tutto a carico dello Stato, dell’Università, etc. etc… Quindi, mi sembra che il discorso possa essere visto in un quadro più generale. Ovviamente non la voglio far lunga, ho dato dei cenni, degli spunti. Quali sono i punti, telegraficamente, da considerare? Innanzitutto, per quanto riguarda l’Università di Siena, basta con l’autoreferenzialità! Se c’è qualcuno che fa una piccola cosa, sente il bisogno di tormentare i presenti o altri, per dire “ho fatto una grande scoperta”, che poi non è niente, non è niente o è poco, insomma, che rientra nella routine. Basta questa autoreferenzialità! L’Università di Siena faro qua, faro là, capitale sotto, capitale sopra! Ci sono state tra noi anche delle carogne, certamente, però ognuno di noi cerca di dare quello che può, in un sistema, di fare praticamente il proprio dovere. Quindi se l’Università continua a parlare in termini di autoreferenzialità, che sono i più bravi, i più belli, i più larghi, come diceva Berlinguer, coloro che promuovono più persone al mondo, coloro che danno tutti 30 e lode. In pratica, questa autoreferenzialità è un fatto molto, molto negativo. Diciamo come stanno le cose. Se stanno male, cerchiamo di intervenire, serenamente, senza fare troppa caccia alle streghe. La situazione attuale è in mano anche ad altri organismi di giudizio. L’altro aspetto, l’altra parola magica è l’autonomia, ma mi pare che Adalberto ne abbia parlato. Che governo abbiamo fatto dell’autonomia? Abbiamo fatto un pessimo governo. Innanzitutto – lo dicevo stamattina con un caro amico che è qui presente – se non c’è responsabilità non c’è autonomia. L’autonomia dell’irresponsabilità. La moltiplicazione dei pani e dei pesci: dei contratti dati per far piacere a questo o a quello, dei concorsi per ricercatori trattati in termini paternalistici, o peggio ancora. Quindi mi sembra che questa autonomia, che poi ha voluto dire, molto spesso, uno statuto per certi aspetti scellerato. Io parlo abbastanza chiaro, ma in fondo ho lottato perché questo non avvenisse. Perché queste dilatazioni, per esempio, del potere degli organi di governo, dilatazione indiscriminata, fondata soltanto sulla prepotenza di alcuni gruppi di potere, che ci sono certamente, ma che debbono e possono essere governati. Un Rettore che mi ha preceduto e che ha seguito Grossi li creava questi gruppi di poteri ma li governava anche. Quando questi gruppi di potere sono sfrenati, è finita… l’autonomia vuol dire no ai controlli. Ci controlliamo da noi. No a qualunque riguardo delle spese. Questo è successo. Ma non è successo solo a Siena, dove ha assunto significati patologici. Quindi l’autonomia. E l’armonia. Altra parola. Cominciano tutte con la “A”. Armonia tra le componenti, giusta ripartizione dei compiti, dei doveri, delle posizioni, il preside faccia il preside, il rettore faccia il rettore, non ci siano dei potentati che superano questo e quello, e non mi riferisco soltanto ai sindacati, anzi, molto meno ai sindacati che ad altri poteri abbastanza subdoli. Potrei fare anche degli esempi, ma se mi si chiedono li faccio. In ogni caso, questa armonia deve avere un primo momento che la funzione amministrativa ritorni a essere una funzione amministrativa. Il rettore non è un amministratore, i presidi non sono amministratori, i professori di economia non sono amministratori. L’amministrazione che abbiamo… – Giovanni Rotelli, che è un giurista, conosce bene il diritto amministrativo, conosce bene anche la situazione di altri paesi – non si può pensare di fare a meno di un personale amministrativo gerarchizzato, dotato di competenze e di responsabilità, altrimenti si fa confusione! Ultimo aspetto.
Stefano Bisi. Ho capito, ma mancano i dirigenti – dicono – all’Università.
Mauro Barni. Appunto. Io ho avuto, in questa sede, un grande dirigente, quando ero sindaco: si chiamava Ceruti, qualcuno se lo ricorderà.
Stefano Bisi. Il Segretario Generale, commendator Ceruti.
Mauro Barni. Il Segretario Generale del Comune di Siena, il Commendator Ceruti, padre del più grande matematico italiano vivente. Appena insediato mi disse: sindaco, vogliamo andare d’accordo? Sì. Allora, guardi, io le dirò tutte le delibere che possono o non possono passare. Vedrà – allora c’era il controllo – che non gliene bocciano una. Infatti, di centinaia di delibere fatte dal Comune di Siena e fatte attraverso il Consiglio soltanto una fu respinta, ma riguardava una punizione di contrada, e quindi quella mi sembra….!
Stefano Bisi. Insomma, la Corte dei Conti non faceva con il Comune di Siena quello che ha fatto con l’Università di Siena.
Mauro Barni. Certo. Ultimo: amputazioni! Amputazioni precise: qui abbiamo dei chirurghi insigni. Quando un arto, una falange o qualche cosa non funziona, si leva!
Stefano Bisi. Quando va “in cancrena”, come si dice in campagna.
Mauro Barni. Si leva, si ha coraggio, non si ricorre a pannicelli caldi per fare piacere a Tizio o a Caio, per compiacere il segretario di questo o di quell’altro partito. Questo va fatto: amputazioni molto chiare. Io ho visto con dispiacere – questa è l’ultima annotazione – che, per esempio, si dice: “ma assorbiamo altre università perché piccole”. Ma sono discorsi… cioè vuol dire distruggere quel che di buono c’è in un certo ambito, sarebbe come a Pisa levare la Normale per inglobarla nell’Università. Sono cose che non si fanno e non si dicono. Si affronta la realtà per quello che è, si ha coraggio di fare e di dare. Queste non sono ricette, sono semplicemente osservazioni di uno che conosce l’ambiente, ancora è in grado di…
Stefano Bisi. Chissà che, Mauro, non ti facciano commissario di questa Università? Te la sentiresti?
Mauro Barni. Non sono disponibile!
Stefano Bisi. No, perché, dopo la regola delle quattro “A”: Autoreferenzialità, Autonomia, Armonia, Amputazione, ci vuole anche la quinta che può essere “S”, come Servizio, e quindi se ti chiamassero sono convinto che torneresti a dare una mano.
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Cordoglio per scomparsa del Maestro
Cosimo Loré e Scienze Medico-Legali
Don Giovanni. Oh, Leporello mio! va tutto bene.
Leporello. Don Giovannino mio! va tutto male…
(Mozart, Don Giovanni)
Ma all’università va tutto bene o tutto male?
Mauro Barni «….Ultimo: amputazioni! Amputazioni precise: qui abbiamo dei chirurghi insigni. Quando un arto, una falange o qualche cosa non funziona, si leva!»
Stefano Bisi. «Quando va “in cancrena”, come si dice in campagna.»
Mauro Barni. «Si leva, si ha coraggio, non si ricorre a pannicelli caldi per fare piacere a Tizio o a Caio, per compiacere il segretario di questo o di quell’altro partito. Questo va fatto.»
Andrebbe aggiunto che dopo l’amputazione, sarebbe bene, che so, procedere all’emostasi ed applicare qualche punto di sutura. Per esempio aggregare i professori sopravvissuti dei settori amputati – che sono dipendenti statali – ad un dipartimento in cui la loro opera sia utile presso altra sede, a Pisa o Firenze, dove tali settori sussistono ancora, magari previo incentivo in termini di POE alle sedi ospitanti i profughi. Altrimenti non capisco cosa vuol dire “amputare”: cosa dovrebbero fare qui, nei prossimi dieci o vent’anni? Sospetto che non lo si farà, ma allora veramente non capisco di cosa stiamo cianciando: una rivoluzione senza muovere le terga. Sottolineo inoltre che sono entrati in crisi molti corsi e molte aree scientifiche di base, non esattamente “fuffologiche”, e non per mancanza di studenti, ma per la perdita a casaccio di metà dei docenti senza possibilità di rimpiazzo.
“A come amputazioni“: amputare una falange, un braccio o la testa, pari non sono; i “requisiti minimi”, uniti al blocco del turnover, sono stati l’analogo del taglio lineare, passando a fil di lama belli e brutti. Con dieci anni di turnover completamente bloccato, si sono tagliati così corsi utili quando sono andati in pensione i docenti punto e basta. La considerazione dell’utilità o meno (già di per sé assai equivoca) non mi pare che abbia avuto alcun peso nella determinazione di chi vive e di chi muore. Non mi sembra, in definitiva, che le “amputazioni” (con notevoli complicanze post-operatorie) siano state eseguite a regola d’arte, a meno di non confondere la chirurgia con l’arte di Mastro Titta.
“A come armonia“. Realizzare minestroni incommestibili, proprio mentre l’ANVUR ti richiede prestazioni d’eccellenza, non è realizzare l’armonia. La pratica iniziata diversi anni or sono di “accorpare” in modo cinobalanico per soddisfare i requisiti di docenza, è stata oramai portata al parossismo e non costituisce più un’opzione praticabile su larga scala. E viceversa, risultano opinabili anche certe decisioni (dettate da ragioni politiche) di non accorpare, laddove sarebbe stato necessario ed urgente. Per questo all’epoca trovai oltremodo surreale, antidiluviana e fuori dalla realtà, la tenzone durata troppo a lungo sul mantenimento di doppioni in sedi distaccate (le famose brioches di Maria Antonietta), e il cui unico effetto temo sia stato l’abbassamento inumano del livello dei corsi oggetto del raddoppio.
«La crisi è finita, tutto è tornato ad essere come prima della crisi», si legge nelle gazzette. Se, pur essendo parte in causa, esprimi qualche dubbio, sei un disfattista tacciato di comportamenti antipatriottici: come nel Cyrano, guai allo stomaco del sovrano che osa dolere, ribellandosi alla regale ingordigia. Certo, con circa trecentocinquanta stipendi in meno da pagare (“A come amputazione”), in gran parte di professori ordinari, i conti non possono che andare meglio. Patetico il ricordo di certi messaggi che pervenivano a questo blog all’indomani dello scoppio della crisi, in cui si diceva che mandavano via i vecchi per far posto ai giovani. E non semplicemente per sopprimere posti di lavoro, come di fatto è stato.
Come attestano le discussioni in questo blog, la faccenda del debito è controversa; in ogni caso mi pare appurato che resti una parte di esso, certo più gestibile, ma che per lo stato che benevolmente concede i “punti organico” da spendere ogni anno se hai fatto il bravo, sempre “debito” è. Rispetto ai tempi in cui Barni era rettore l’università ha subito una metamorfosi totale. Non c’erano l’ANVUR, l’ASN o la VQR. Alcune leggi, addirittura risalenti a Mussi, fissano implacabilmente il numero di docenti e l’assortimento necessario per accreditare i corsi di studio e, più recentemente, i mega-dipartimenti che hanno rimpiazzato le “facoltà”: se non ce l’hai, chiudi bottega e amen.
Ma, ribatte l’uomo della strada, “I professori universitari senesi sono troppi, come si evince dal rapporto studenti/docenti, che a Siena è più alto che altrove”. Atteso che non si può prendere un nefrologo e metterlo ad insegnare astrofisica extragalattica e filologia romanza (o viceversa), non c’è modo di parlare di redistribuzione dei docenti come se si trattasse di mandrie di vacche, indistinguibilmente grigie nella notte hegeliana, questa è una sentenza di genere trilussiano: io mangio due polli e tu digiuni, ma per la statistica mangiamo un pollo a testa. Ci insegnano però i linguisti che “io” e “tu” sono espressioni indicali, il cui significato dipende da chi le pronuncia.
“A come amputazioni“. L’uomo della strada che volentieri reclama le amputazioni, dovrebbe sapere che hanno chiuso o sono entrate in crisi, o sussistono come mero simulacro di quello che furono, intere aree scientifiche non marginali, desertificate dal pensionamento a macchia di leopardo. Il personale docente dell’università italiana si è ridotto del 20%, passando dai circa 63mila docenti nel 2008 ai circa 50mila del 2015 https://www.roars.it/online/la-mobilitazione-dei-professori-universitari-puo-essere-un-buon-segno/. Qui siamo stati più bravi, perdendone nello stesso periodo oltre il 30% (vd. http://cercauniversita.cineca.it/php5/docenti/vis_docenti.php): da 1056 a 723. Ad oggi, dopo la ripresa del turn over col contagocce, ne risultano pochi più (737 in tutto, di cui 728 confermati), ma nei prossimi tre anni dovrebbero andarsene ancora una settantina. Diversi, malauguratamente, sono prematuramente scomparsi.
Questo è lo stato dell’arte. Pisa, per fare un confronto (incluso Normale e Sant’Anna), di docenti ne ha mille (diconsi ne ha mille) in più. Circa mille in più ne ha anche Firenze. Siena, sia per quanto riguarda la docenza che il numero di iscritti, si sta riducendo a un nano, rispetto a Firenze e Pisa ed è incomprensibile che l’uomo della strada non tragga nessuna conseguenza da ciò, in un contesto di lotta per la vita che vede delinearsi dei “sistemi planetari” di atenei, con un centro e tanti satelliti in orbita attorno ad esso.
“A come autonomia“. Quindi non sarebbe male se si cominciasse a porre in maniera pressante il tema del destino del sistema degli atenei toscani e delle aree scientifiche in essi rappresentate. La situazione toscana è per certi versi peculiare. Siena si barcamena alla stregua di un pianeta che orbita attorno a due soli, come Tatooine, il pianeta della saga di Guerre stellari o Kepler 16, scoperto dalla NASA a 200 anni luce dalla Terra (vd. http://www.dday.it/redazione/20265/scoperto-il-piu-grande-pianeta-che-orbita-attorno-a-due-soli). Due soli in un’orbita piuttosto stretta… bisogna chiedere ad un astrofisico come fanno a starci, ma che ne sarà di Siena se si fondessero?
“…invero non sarà necessario che mostri che sono tutte false, cosa che forse non potrei mai raggiungere; ma, poiché la ragione già persuade che bisogna rifiutare l’assenso alle opinioni non del tutto certe ed indubitabili non meno accuratamente che a quelle sicuramente false, per rifiutarle tutte sarà sufficiente che trovi in ciascuna di esse qualche motivo di dubbio.” (Cartesio, Meditazioni)
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2017/07/16/ASH2DjPI-universita_decimati_studenti.shtml
“E a mio avviso è fra un gruppo di esperti, tecnocrati “illuminati”, che, in base alla conoscenza che solo essi hanno del Bene e del Male, perseguono un disegno politico-ideologico (assai simile nelle sue linee ispiratrici a quello del partito conservatore britannico) volto ad un radicale ridisegno del sistema dell’istruzione superiore, concentrandolo su poche sedi da essi prescelte, anche attraverso scelte politiche mascherate da decisioni tecniche. Magari destinando alle altre, ed in particolare a quelle delle aree più deboli del paese, un po’ di misure compassionevoli (per i “disabili”).” (Gianfranco Viesti https://www.roars.it/online/a-proposito-dei-dipartimenti-di-eccellenza-e-di-quelli-disabili/)
p.s. È uscita la cosiddetta “Classifica di Ferragosto”, ossia la prestigiosa Academic ranking of world universities di Shanghai. Potevamo non darne conto, al termine di un anno accademico speso per lo più a rincorrere affannosamente ogni sorta di competizioni? Prima la SUA, poi la VQR, con l’intermezzo dell’ASN, indi le semifinali dei Ludi dipartimentali per l’attribuzione di ricchi premi ai primi classificati ecc. ecc. … tutta una gara, condotta con spirito non decoubertiano. Leggo che addirittura “all’Università di Firenze, il prof guadagnerà di più in base al voto degli studenti” (La Repubblica). Ci sarà insomma anche una gara per ricevere lo stipendio alla fine del mese e già immagino come si farà per vincerla. Ma veniamo al raviolo cinese. Secondo Shanghai, prima fra le italiane risulta “La Sapienza”. Ora che lo so, magno cum Gaudio.
“Università, la classifica di Shanghai: Roma e Padova resistono. Gli altri atenei perdono quota.” (Corriere della Sera)
“Il ranking universitario di Shanghai, ormai noto come la classifica di Ferragosto, e comunque uno dei tre report più letti sui migliori atenei del mondo (gli altri sono i britannici Times Higher e Qs), ribadisce che anche nel 2016 la Sapienza di Roma è la più stimabile tra le università italiana. È il secondo anno consecutivo, ma nel 2014 Sapienza era soltanto quinta. La classifica di Shanghai, poi, scopre Padova secondo ateneo nel nostro Paese (era il terzo sia nel 2014 che nel 2015) e certifica la forte ascesa del Politecnico di Milano, solo settimo nel 2014, sesto nel 2015 e ora in terza posizione.”(La Repubblica)
Siena come è messa? Veleggia fra il seicentesimo ed il settecentesimo posto, su milletrecento considerati, trentunesima fra le italiane. Insomma. a metà classifica, sia nella classifica generale, che fra le italiane. Le quali in ogni caso arretrano http://www.shanghairanking.com/ARWU2017Candidates.html. Naturalmente i commenti sui giornali sono tutti all’insegna del “dagli ar curturame!”: hai visto? Nemmeno una ai primi posti, ‘sti fannulloni, guadagnano troppo, sono tutti corrotti, nepoti e raccomandati e via scemeggiando.
A parte i paragoni surreali fra il budget di Siena e quello del Massachusetts Institute of Technology, di tutto ciò che è accaduto in questi anni, del massacro del sistema universitario, della perdita di un quinto del corpo docente (che a Siena, in ragione dei ben noti fatti, si avvia ad essere del 35%), del blocco del reclutamento durato due lustri, della desertificazione di molte aree scientifiche, pare non si abbia contezza o memoria. Non una parola! Se comunque permane il desiderio politico di portare un certo numero di atenei ai vertici di queste classifiche, non disponendo di danari aggiuntivi, è evidente come questo scopo verrà perseguito: sottraendo risorse agli altri per erigere cattedrali dette “grandi hub della ricerca”.
In realtà, parlando nel mondo reale, mi pare che veramente nessuno si sia accorto di nulla: “tutto è tornato come prima!”. Così la gente continua piacevolmente a parlare di cose che non esistono più come se fossero ancora esistenti, in una sorta di assurdo dialogo beckettiano. Zero informazione. Solo una piatta adesione alle giaculatorie del più vieto senso comune. Se questa sarebbe la montante rivolta contro il sistema, allora male mi sento: ma esiste ancora la politica VERA, cioè l’esercizio della critica?