Rabbi Jaqov Jizchaq. Ieri sera, in occasione della trasmissione del film della Von Trotta su Hannah Arendt e della ricorrenza del Giorno della Memoria, mi sono andato a rileggere il Discorso di rettorato che fu pronunciato sabato 27 maggio 1933 da Martin Heidegger, filosofo “agreste e boschivo” e discretamente nazista, in occasione della cerimonia ufficiale del suo insediamento come nuovo rettore dell’Università di Friburgo in Bresgovia. Non ho molta affinità con il personaggio, e men che mai condivido le sue simpatie, risalenti a questo periodo, per il regime nazionalsocialista, o certi lati criptonazisti del suo pensiero. Aborro altresì, per più ragioni, il suo disprezzo antisemita (i “Quaderni Neri”) per quel popolo che si distingue per “il rimarcato talento nel dar di conto” (sic), ossia gli ebrei. Ma il tono non è certo quello ragionieristico di chi parla solo ed esclusivamente di requisiti minimi e crowdfunding, intercalando qua e là la parola “cultura”:
«Scienza non è per loro [i greci] neppure il semplice mezzo del potenziamento del sapere che rende consapevole ciò che è inconsapevole; essa è invece quella potenza che, nel mantenere acuto e intenso l’intero Dasein (l’intero rapporto con l’essere), lo contiene e lo abbraccia completamente. Il sapere scientifico è l’interrogante e stabile stanziarsi nel bel mezzo dell’ente che, colto nella sua interezza, costantemente si nasconde. Tale operante perseverare è pienamente consapevole del proprio disconforto dinanzi al destino ecc.»
Lasciamo perdere il resto… probabilmente, ai nostri giorni, non del tutto senza ragione, l’uditorio, anziché inquietarsi laddove Heidegger accennava alla “missione storica e spirituale del popolo tedesco”, si sarebbe semplicemente addormentato, dopo aver cercato invano qualche istogramma da rimirare o qualche sito da compulsare; quello che voglio dire è che nel frenetico fare e disfare di questi anni, nell’università italiana e senese in particolare, mi pare che sia mancato e manchi un orizzonte di senso.
Ho più simpatia invece per quell’altra università germanica, di proporzioni non dissimili da Siena, dove di “talenti nel dar di conto” non mancarono certo e che vide succedersi o coesistere, tra gli altri, personaggi come Gauss, Dirichlet, Emmy Noether, Riemann, Klein, Hilbert, Born, Planck, Minkowski, Wigner, Husserl, Weber ecc. (sto parlando ovviamente della Goettingen che fu e diversi dei succitati illustri personaggi furono allontanati in occasione della “Grande purga” antisemita del 1933); tanto per dire che quando si parla di “eccellenza”, senza citare la solita “Ossforde” e “senza nulla a pretendere”, i punti di riferimento storici nella cultura europea, sarebbero di questa scala: allora, “senza nulla a pretendere” e contendandoci anche di parecchio meno, che cosa vuol dire che si vuol rilanciare “la cultura” a Siena?
Non è chiara in particolare, in una tale cornice, la sorte che in seno all’ateneo si riserva a quelle aree dove “l’approssimazione” non è di casa, cioè ai rami più astratti ed esatti della scienza e della cultura: “l’uomo impreciso domina il tempo presente”, scriveva Musil, ma non si capisce come si pensi di fronteggiare la concorrenza di atenei italiani ed esteri che oramai offrono ben delineati corsi di studio solidi e di tutto prestigio, concorrenziali non solo dal punto di vista dei contenuti e delle prospettive, ma oramai anche dal punto di vista economico.
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