Non premiando il merito ma la casualità e la territorialità, si creano università di serie A, B e C

Altan-ballaLa giungla dei fondi, così le università si dividono tra A e B (Il Mattino.it)

Marco Esposito. I premi ci sono e sono ricchi: 1,2 miliardi di euro. Ma sulla qualità della valutazione delle università c’è molto da perfezionare. Per esempio chi quest’anno ha ricevuto più soldi, Siena, è appena al 38° posto nelle classifiche Anvur. Quindi c’è il rischio che invece di incentivare il merito si sta premiando il vantaggio di operare in una zona rispetto a un’altra. Quest’anno la premialità vale un miliardo e 200 milioni, ripartiti tra le 56 università statali italiane, nelle quali studia (in corso) quasi un milione di ragazzi. Una somma che a fine 2014 è stata suddivisa in base a sei parametri, per tener conto della qualità della ricerca, delle politiche di reclutamento, del numero di studenti Erasmus in ingresso e in uscita, del tasso di internazionalizzazione misurato dai crediti formativi conseguiti all’estero degli studenti e dai laureati. Tutti criteri che offrono il fianco a critiche, come spesso accade quando si misura la qualità e non la banale quantità. In attesa di perfezionare il sistema, però, sono i criteri ufficiali di qualità del sistema universitario italiano, dietro i quali ci sono formule che permettono di individuare gli atenei di serie A e quelli di serie B. Con molte sorprese.

La migliore università d’Italia, in base a tali parametri, è come detto quella di Siena che ha potuto beneficiare di 26 milioni di premialità. Naturalmente la cifra in valore assoluto non è di per sé significativa, per cui nell’elaborazione del Mattino la si è confrontata con la quota base del Fondo di finanziamento ordinario, che per i 56 atenei vale 4.911 milioni di euro. La premialità media è del 24,4% ma per Siena raggiunge la percentuale record del 34,1%. Al capo opposto della classifica c’è Messina, dove la premialità è stata appena del 14,4% sempre rispetto alla quota base del Ffo. Dalla classifica non si può dire che la dimensione di per sé aiuti la performance dell’ateneo. Tra le prime dieci ci sono colossi come Bologna (55mila studenti) e Padova (41mila) ma anche i microatenei di Foggia e del Molise, i quali sono stati premiati soprattutto per le politiche di reclutamento, cioè la capacità di produrre ricerca dei docenti assunti da meno anni. Foggia e Molise tengono alti i vessilli del Sud insieme a Teramo, Sannio, Sassari e Salerno. Quest’ultima è anche l’unica università meridionale di serie A che è anche di dimensioni discrete, con 20mila studenti, mentre le altre promosse sono tutte piccoline.

Nella parte bassa della classifica ci sono università piccole un po’ di tutta Italia che non riescono a mantenere standard di qualità, almeno così come sono misurati attualmente. Vanno male la Iuav di Venezia, Camerino, Napoli Orientale, Napoli Parthenope e il Politecnico di Bari, tutti con meno di 10mila studenti in corso e performance premiali molto modeste. Tra gli atenei del Nord il peggiore è Genova, con un risultato allineato a quello dell’Università del Salento e dell’Orientale. Nelle ultime dieci posizioni si trovano anche i due colossi del Centrosud e cioè la Sapienza e la Federico II che insieme superano i 110mila studenti in corso. In base ai punteggi che sono dietro il riparto dei fondi premiali, Sapienza e Federico II non garantiscono performance all’altezza di atenei di analoghe dimensioni, come Bologna, Padova, Torino. Nel girone delle Università di serie B si trovano anche la Seconda università di Napoli, Bari e le tre siciliane di Palermo, Catania e Messina.

La premialità, però, ha senso se è correttamente misurata e può spingere verso un generale miglioramento dell’offerta formativa. Ancora è troppo presto, forse, per comprendere se il nuovo meccanismo sta spingendo gli ultimi a migliorarsi. Tuttavia ci sono alcune anomalie evidenti. Per esempio la «più premiata» università italiana, Siena, non è nella top-20 delle classifiche di qualità dell’Anvur e anzi è appena trentottesima. Anche Udine, Bergamo, Foggia, Molise, Insubria sono nella parte alta per quota di finanziamenti premiali, però non rientrano nella top-20 dell’Anvur. Trieste è a metà classifica come premialità eppure è negli ultimi dieci posti nella valutazione Anvur.

E nelle valutazioni Anvur, che comprendono anche gli atenei privati, la Bocconi varrebbe meno della Piemonte Orientale. Come a dire che ogni classifica segue criteri diversi e può smentire la precedente ma mentre molte graduatorie portano solo prestigio quella effettuata dal Miur sposta denari freschi. Anche il fatto che in coda si trovino simultaneamente tutti i grandi atenei delle città del Sud (Napoli, Bari, Catania, Messina e Palermo) consente di ipotizzare una forma di disagio territoriale piuttosto che una sincronica prova di inefficienza. E anche qui con delle anomalie, la più sorprendente delle quali riguarda la Sun. Per la premialità ufficiale è la peggiore università della Campania nonché terzultima in Italia, mentre nelle graduatorie dell’Anvur si piazza alla pari della Cattolica di Milano.

Qualsiasi analista ne dedurrebbe che tali metodologie vadano prese con le molle e utilizzate nel tempo dopo verifiche e approfondimenti. Invece in Italia il meccanismo, per quanto evidentemente imperfetto, ha già effetti diretti nella ripartizione delle risorse. Con esiti paradossali perché si rischia non di premiare il merito ma la casualità o più banalmente la territorialità. Se infatti per qualche ragione un parametro favorisce determinate aree del Paese al di là dei meriti degli atenei, la premialità invece di incentivare chi si migliora finisce con l’alimentare le distanze. Gli atenei siciliani, per esempio, sono quelli che ricevono meno fondi, hanno un turnover autorizzato molto basso e stanno anche perdendo rapidamente studenti. Se l’obiettivo dell’Italia è non offrire a nessun ragazzo corsi universitari di serie B, ci si deve affrettare a trovare un sistema per evitare che alcuni atenei precipitino in serie C.

Agli intellettuali senesi di una certa età manca tensione etica, apertura mentale e spessore culturale

IntellettualeRabbi Jaqov Jizchaq. Scrive Raffaella Zelia Ruscitto su Il Cittadino online: «Dove sono gli intellettuali senesi? In quali antri si nascondono? A quale esilio si sono autocondannati? È pur vero che l’Università perde docenti e che questi non vengono sostituiti da altri ma sarà rimasto vivo, da qualche parte, lo spirito dialettico e rigenerativo che si è sempre respirato lungo i corridoi e nelle aule dell’Ateneo!»

…Où sont les neiges d’antan? Della neve di due giorni fa, rimane solo un po’ di fango. Lo “spirito dialettico”? Cara Direttrice, di spirito dialettico, attualmente, di voglia, cioè, di discutere costruttivamente, mi pare che non ci sia rimasta nemmeno la puzza: parlare del senso delle cose è assolutamente vietato. Azzoppate le istituzioni culturali (già in passato colonizzate dalla partitocrazia) facendo fuori dall’università o emarginando le leve meno anziane (media di età dei “giovani ricercatori” senesi, 52 anni; età media degli ordinari, 62 anni) viene meno l’humus stesso dove cresce lo spirito dialettico. Quanto agli intellettuali di una certa età, quando non suonano bucolicamente il piffero, normalmente passano il tempo a parlare male l’uno dell’altro: manca tensione etica, apertura mentale e, in definitiva, spessore culturale.

Altrimenti risulterebbe chiaro, per esempio, che per la “cultura” (in senso rigoroso, scientifico od umanistico, per chi ama queste oziose distinzioni), nell’attuale impostazione aziendalistica dell’università, di spazio, proprio non ce n’è e non ce ne sarà in futuro. Verrà preservato forse qualche esemplare di “intellettuale”, preferibilmente con la “erre” moscia, da destinarsi al museo delle razze estinte, tra scheletri di brontosauri e nerboluti uomini di Neanderthal. L’efficienza aziendalistica, da mezzo è diventata il fine e peggio ancora una religio: vuota liturgia, ideologia, rovesciando il rapporto fra mezzi e fini; una finzione di efficienza che ammonta a un girare a vuoto soffocando ogni domanda di senso, in una metastasi di materiale cartaceo sfornato dall’apparato burocratico. Un susseguirsi di minacciose “circolari” che accompagnano, a livello del corpo accademico, la recrudescenza di certo autoritarismo, legato forse al fatto che i ruoli sono congelati da dieci anni, molti settori sono stati marginalizzati, e le gerarchie istituitesi paiono pertanto eterne e inamovibili. Risorge, dietro questa parodia della matematica oggettività, una certa insofferenza verso i “ludi cartacei” della democrazia…

L’aziendalismo dogmatico, da un lato sta conducendo alla mcdonaldizzazione del sistema dell’istruzione superiore (senza oltretutto raggiungere lo scopo di sfornare un maggior numero di laureati), e dall’altro, con la volontà di ridurre tutte le dinamiche interne dell’istruzione e della ricerca a leggi di mercato, si è ridotto esso stesso a un’astratta ideologia, malcelata dietro un profluvio di disposizioni burocratiche che, di fatto, contraddicono ogni idea pratica di efficienza.

Max Born diceva: «sono convinto che la teoria fisica sia oggi filosofia», ma oramai, qui, nella cornice aziendalistica dell’università riformata, anche “filosofia” è una parola proibita, o usata con significato dispregiativo. Oggi, invece dei filosofi, imperversano semmai i tuttologi, razza perniciosa che pontifica su tutto, non dicendo niente.

Va detto che tutti i rami delle scienze moderne sono oramai giunti a un tale livello di specializzazione che rasenta l’incomunicabilità; questo fatto taglia fuori l’intellettuale che, senza essere specializzato in nulla, svolazza di fiore in fiore; ma crea nondimeno eserciti di ignoranti altamente specializzati, i quali ritengono che non esista altra cultura, se non quel centimetro quadro di cui essi stessi sono cultori.

Il tutto si dovrebbe ricomporre nella cornice di quella che chiamiamo solitamente “civiltà” (la “civiltà occidentale”, uno pensa al già citato Musil, ad Einstein, a Turing – che ora va di moda – ecc.). La specifica vocazione professionale di ciascuno non dovrebbe esimere dal dovere etico di cercare di informarsi su ciò che accade in altri campi, e soprattutto dal piacere di farlo, pur senza pretendere di pontificare: «gli scienziati non leggono Shakespeare e gli umanisti sono insensibili alla bellezza della matematica», lamentava Ilja Prigogine.

È deprimente osservare come i poeti mediocri vantino con civetteria la loro ignoranza in cose di fisica e matematica, e gli scienziati mediocri disprezzino la poesia e la musica, senza rendersi conto di come, nella cornice sopra descritta, gli uni e gli altri si trovino al contrario dalla stessa parte della barricata. Quel che è peggio, è che, nonostante oramai tutti si sentano volteriani e brandiscano ampi cartelli “Je suis Charlie”, è rischioso dire queste cose in giro.