Rabbi Jaqov Jizchaq. Scrive il Rettore: «in questi stessi giorni viene inviato ai consiglieri di amministrazione e ai componenti del Senato e ai direttori di dipartimento la bozza del Regolamento per la chiamata dei professori di prima e seconda fascia». Vuol dire che nel giro di un paio d’anni chiameranno un paio di dozzine di professori. Che forse nel giro di cinque o sei anni diventeranno una cinquantina. Ma, attenzione: verosimilmente la maggior parte saranno semplicemente avanzamenti di carriera, eccetto una percentuale che per legge deve essere riservata agli esterni. Dunque, di fatto entreranno in tutto forse una quindicina di professori nuovi e gli altri saranno avanzamenti (se qualcuno possiede stime più esatte, lo pregherei di fornirle). A fronte di oltre cinquecento che nel frattempo se ne sono andati, come già detto, un po’ a casaccio, lasciando scoperti molti insegnamenti e interi settori disciplinari, provocando falle nei “requisiti di docenza” che hanno determinato e determineranno il mancato accreditamento dei corsi di studio, annichilendo ulteriormente la già dimezzata offerta formativa, rendendola ancor più raffazzonata e poco attraente. Non so come saranno ripartiti questi pochi concorsi, ma lascio le conclusioni alla fervida fantasia del lettore.
Qui vorrei solo riproporre (vox clamans) un interrogativo che finora non ha trovato risposta. L’università di Siena è stata l’epicentro di un autentico terremoto: per colpe tutte locali, la crisi qui ha colpito più che altrove; usando una metafora, dopo il terremoto alcuni edifici (pochi) non hanno subìto danni consistenti, perdendo giusto qualche calcinaccio e qualche tegola; altri hanno subìto danni più gravi e sono inabitabili; altri ancora sono venuti giù completamente. I pochi posti che da qui a qualche anno saranno messi a concorso serviranno giusto a rifare gli intonaci, sistemare qualche tegola o qualche travicello, ma non risolveranno il problema degli edifici fortemente danneggiati, né di chi ci abitava: della cui sorte evidentemente, nel clima delle recenti euforie ci si dimentica facilmente. Vogliono abbattere questi edifici? Provvedano dunque a spalare le macerie e sistemare gli evacuati! Quali edifici vogliono restaurare? Quali consolidare e ampliare? Questo sarebbe parlare di “università”: il resto è politichetta.
Sono passati quasi sette anni e le competenti autorità non si sono risolte a prendere alcuna decisione sul “che fare?”, ossia a delineare, a prospettare il nuovo volto dell’ateneo, trovando una soluzione per i settori che oramai non si ritiene opportuno o vantaggioso restaurare (come ho suggerito ad nauseam, per questi non esiste una soluzione localistica, ma regionale ed interateneo). L’interrogativo appare più pressante proprio adesso che si ricomincia a parlare, sia pure in termini virtuali ed infinitesimali, di concorsi. L’ANVUR, il VQR esigono prestazioni da superstar di Harward o di “Ossforde”, ma si rendono conto in che clima e in quali situazioni operano le persone? Ritengo inutile andare oltre questa rappresentazione metaforica, precisando quanti e quali sono gli edifici disastrati e a ciò rimando ai precedenti messaggi: chi vuol capire, capisce.
Come misura della distanza fra le parole e le cose dico solo che mi ha colpito che, mentre le competenti autorità continuano a biascicare litanie sulla “capitale europea della cultura”, sia giunta la notizia dello smembramento della biblioteca che fu della già defunta Facoltà di Lettere e Filosofia, ossia di uno dei più importanti presìdi culturali di questa città.
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