Gli effetti devastanti dell’abbassamento dell’età di pensionamento dei professori universitari

Si riportano i passi più interessanti di un documento del CUN (2 luglio 2010) che ha analizzato l’impatto sul sistema universitario italiano della proposta di pensionamento a sessantacinque anni dei professori ordinari e associati. È un utile contributo al dibattito sul prepensionamento volontario messo in atto presso l’Università degli Studi di Siena.

Effetti dell’ipotesi del pensionamento dei professori a 65 anni sulle dinamiche e sui costi della docenza universitaria

1. La dinamica della docenza. (…) A legislazione invariata, il 50% degli ordinari attualmente in servizio (che sono quasi 18.000) si sarà comunque pensionato entro il 2018. Con l’ipotesi di pensionamento a 65 anni, nello schema ipotizzato questo dimezzamento avverrebbe entro il 2014. Un fenomeno analogo, anche se più ridotto sul piano quantitativo (25% di pensionamenti alle stesse date) si propone per gli associati. La fuoriuscita annuale di circa 1000 ordinari e circa 500 associati determinata dalle norme attuali pone già di per sé un pesante problema di continuità culturale, scientifica, didattica e organizzativa al sistema universitario. Una fuoriuscita dal sistema di circa 2000 ordinari e circa 1000 associati annui per i prossimi cinque anni, che deriverebbe dall’abbassamento dell’età di pensionamento, avrebbe invece effetti devastanti in tutti gli ambiti sopra indicati: ricerca, didattica e gestione sarebbero in moltissimi casi pressoché paralizzate, né è immaginabile un meccanismo di così ampia sostituzione della docenza che sia insieme sufficientemente rapido e adeguatamente selettivo. Nello scenario più probabile si avrebbe un reclutamento eccessivamente concentrato su poche classi d’età, che, anche se non si trattasse di una ope legis, riprodurrebbe a distanza di trent’anni gli stessi effetti del DPR 382/1980 (effetti di cui il sistema universitario ha pagato e ancora paga le conseguenze) e quindi si pregiudicherebbe nuovamente uno sviluppo armonico del sistema per un ulteriore trentennio. Alternativamente se, come vedremo, tale reclutamento en masse risultasse materialmente impossibile, il sistema universitario subirebbe una contrazione di personale docente tale da rendere insostenibile l’offerta didattica, anche se essa fosse significativamente ridotta rispetto a quella attuale, che è già inferiore del 20% a quella proposta fino ad anni recenti.

2. L’impatto economico. Il prepensionamento di migliaia di docenti ogni anno per un quinquennio non è, e non può in alcun modo essere descritto, come un’operazione a costo zero che libererebbe risorse immediatamente spendibili per il sistema universitario. Infatti, ogni docente che va in pensione ha maturato un diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) e alla pensione che in ultima analisi non può non ricadere sul bilancio dello Stato e quindi sulla fiscalità generale. Il TFR pone immediati problemi di cassa: stimando conservativamente a circa 200 mila euro la quota media spettante a ciascun docente, si tratterebbe di reperire ogni anno, per cinque anni, circa 300 milioni di euro in più di quanto fin qui previsto, in un momento di crisi in cui trovare risorse aggiuntive sembra un’impresa già estremamente difficile.

Il pagamento delle pensioni anticipate pone invece gravi problemi al bilancio di competenza: trattandosi nella maggior parte dei casi, e ancora per qualche tempo, di persone le cui pensioni sono calcolate con il sistema retributivo, non è irrealistico stimare che il monte pensioni da erogare non sia inferiore all’80% del corrispondente monte stipendi. Questa cifra non potrebbe che essere sottratta al Fondo di Finanziamento Ordinario, poiché l’onere finanziario sarebbe trasferito dalle singole Università a un Ente previdenziale, che comunque alla fine fa capo al Tesoro per la copertura dei propri impegni di spesa. Questo ragionamento porta alla conclusione che le risorse annue effettivamente “liberate” da un’operazione di questo genere e disponibili per il sistema universitario non potrebbero superare il 20% dello stipendio lordo medio dei circa 1500 docenti prepensionati (circa 100 mila euro), e quindi ammonterebbero a circa 30 milioni di euro annui.

Per valutare l’impatto di questa cifra consideriamo i due esempi estremi di destinazione d’uso: puro reclutamento di ricercatori (costo 0,5 punti) e pura promozione di attuali ricercatori ad associato (costo 0,2 punti), ricordando che la cifra indicata corrisponde a circa 250 punti. Si avrebbe quindi rispettivamente nei due casi, la possibilità di un reclutamento supplementare di circa 500 ricercatori l’anno (ma in questo caso ci sarebbero 1500 professori in meno) ovvero la possibilità di 1250 promozioni (ma continuerebbero a mancare 250 professori e non si sarebbe nemmeno sfiorato il problema di dare uno sbocco all’attuale precariato). Appare chiaro che qualunque soluzione intermedia (come ad esempio 300 ricercatori e 500 promozioni) continua a risolvere meno problemi di quanti ne crei.

Si può ovviamente immaginare una diluizione del processo di prepensionamento che lo veda svolgersi su un arco di tempo più ampio del quinquennio finora ipotizzato, ma è del tutto evidente che l’attenuazione dell’impatto economico sul bilancio dello Stato corrisponderebbe a una diminuzione delle risorse annualmente rese disponibili: lo scenario nel complesso negativo sopra descritto resterebbe qualitativamente immutato, con una riduzione quantitativa degli effetti auspicati direttamente proporzionale alla riduzione degli effetti indesiderati.

Le considerazioni di natura economica fin qui presentate appaiono difficilmente contestabili, a meno che non si dichiari esplicitamente che esiste una disponibilità a reperire in altri capitoli del bilancio dello Stato le risorse aggiuntive comunque necessarie. Ma se vi fosse questa disponibilità è legittimo chiedersi perché tali risorse aggiuntive non dovrebbero essere usate direttamente per potenziare il reclutamento e/o le promozioni, senza privare il sistema delle risorse umane di cui già dispone, tenuto conto del fatto che la competenza didattica e scientifica della maggior parte degli attuali docenti che sarebbero coinvolti nel provvedimento appare nella maggior parte dei casi difficilmente contestabile sulla base delle statistiche di produzione scientifica e dell’evidenza relativa al numero e alla qualità media dei corsi d’insegnamento attualmente erogati dalla componente più matura della docenza universitaria.

Del resto non è certo casuale che in tutti i settori produttivi si tenda a un innalzamento, piuttosto che a una riduzione, dell’età minima per il pensionamento, ed è notizia recente quella per cui si stima che, in corrispondenza dell’aumentata durata media della vita, nell’arco di pochi decenni per tutti i lavoratori l’età del pensionamento si sposterà intorno ai settant’anni.

3. L’impatto sull’attuale corpo docente. (…) Risulta quindi facilmente immaginabile un duplice effetto negativo sul corpo docente: da un lato il disorientamento derivante dalla rapida scomparsa di un grande numero di punti di riferimento culturale, che in un sistema nel quale la capacità di innovazione si fonda comunque quasi sempre su una buona e solida trasmissione dei risultati già precedentemente acquisiti potrebbe produrre effetti devastanti, e dall’altro un incremento del già purtroppo elevato livello di demotivazione, che spingerebbe proprio i migliori a dirigersi verso altre realtà, diverse e più promettenti di quella italiana, per vedere effettivamente valorizzate le proprie attitudini e competenze, mentre non si vede chi, se non per scarsa qualità intrinseca, potrebbe scegliere di muoversi dall’estero verso il nostro Paese, come invece da più parti e giustamente auspicato per vivacizzare e internazionalizzare il nostro sistema.