L’ateneo perde colpi, ma tengono banco proroghe e candidati (dal Giornale dell’Umbria, 24 marzo 2012)
Alessandro Campi. Ho letto ieri sul “Giornale dell’Umbria”, per la firma dell’ottima Marcella Calzolai, l’ultima puntata della novella intitolata “Proroga sì, proroga no”, che ha per protagonista il Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Perugia. E mi chiedo come un semplice lettore, un cittadino, o un docente di questo medesimo ateneo (quale il sottoscritto) possa appassionarsi a questa vicenda, che va avanti da mesi attraverso continui colpi di scena, rivelazioni a denti stretti e interviste sulla stampa, annunci o minacce di ricorsi, accuse incrociate e ipotesi di candidature che vanno e vengono. Intendiamoci, che Francesco Bistoni rimanga ancora per un anno alla guida dello Studium, oltre la scadenza naturale del suo mandato, e ciò grazie ad un inghippo legislativo, fa una qualche differenza: per il diretto interessato, ovviamente, che potrà continuare a fregiarsi dell’impegnativo titolo e a ragionare con più tempo a disposizione sul da farsi in vista del suo futuro, ma soprattutto per chi rischia, per ragioni anagrafiche, di restare tagliato fuori dalla corsa alla successione. Ed è certo interessante sapere quali complesse manovre si stanno ordendo, dentro e fuori i corridoi di Palazzo Murena, in vista di elezioni che ancora nessuno ha ben capito quando si terranno. Ma l’impressione, viste le condizioni generali dell’università perugina, è che tutto questo agitarsi intorno al nome del prossimo rettore (per inciso, sempre le stesse facce e gli stessi nomi), tutto questo balletto di carte, circolari, rumors e riunioni infuocate (ufficiali e riservate), di cui si legge spesso sulla stampa, sia solo un modo per sfuggire al problema centrale. Che a costo d’apparire irriguardosi o grossolani può ridursi a ciò: un ateneo un tempo glorioso e onusto di storia, s’è ridotto col passare degli anni, ad una condizione che non si fatica a definire critica e decadente.
La sua immagine, rispetto anche al passato recente, s’è deteriorata, come del resto quella della città che l’ospita. Il numero degli iscritti è diminuito di alcune migliaia negli ultimi anni, come s’è ridotto il numero dei frequentanti i corsi, facendo così venir meno il mito di Perugia “città degli studenti”. Il suo corpo docente – basta leggere i cognomi di coloro che lo compongono – è ormai nella quasi totalità umbro, senza più ricambi o innesti dall’esterno, che possano portare idee ed energie nuove. Quelle che erano le sue eccellenze, specie nel campo umanistico, tali non sono più. I suoi bilanci sono perennemente in rosso (ma questa, in verità, è condizione comune agli altri atenei nazionali). L’offerta didattica è al tempo stesso sovrabbondante, disordinata, dispersa e modesta (per quanto finalmente in via di riordino), con corsi specialistici che sovente ricalcano (negli insegnamenti e nei docenti) quelli triennali: corsi, inoltre, che non sempre risultano orientati alle necessità del mercato del lavoro. Sorvoliamo, per decenza, sul nepotismo e sui concorsi dall’esito precostituito (anche questo un male italico). La ricerca langue, per cronica mancanza di fondi. E come conseguenza di tutto ciò si è ridotta l’incidenza dell’università, un tempo considerata la prima industria sul territorio, sulla già asfittica economia locale. Di questo – e di come uscire da una tale situazione – si dovrebbe parlare in pubblico, di questo dovrebbero preoccuparsi le istituzioni e i politici, e tutti coloro che a vario titolo operano all’interno dell’ateneo, ma a quanto pare si preferisce discutere d’altro. Appunto della proroga a Bistoni o di chi potrà, prima o poi, prenderne il posto magari col suo appoggio. Ma per fare cosa? Per ufficializzare – di qui a qualche anno – il definitivo declassamento di Perugia a università di serie inferiore, nemmeno più in grado di attirare i giovani umbri entro le sue aule (già oggi i più volenterosi e determinati tra questi ultimi compiono i loro studi fuori regione)?
Si dirà che una simile rappresentazione è ingenerosa e persino errata. Che non tiene conto dei drastici tagli nei trasferimenti finanziari dello Stato e del complesso riordino, organizzativo e scientifico, imposto alle università italiane dalla controversa riforma Gelmini. Ma proprio perché siamo in una fase, come suole dirsi, di transizione e di profondi cambiamenti – i Dipartimenti prenderanno il posto delle Facoltà, si andrà verso un nuovo modello di governance della struttura accademica, i finanziamenti alla ricerca verranno assegnati sulla base di un complesso sistema di valutazione della medesima su base nazionale, nuovi criteri concorsuali determineranno la selezione dei docenti –, proprio per questa ragione converrebbe dirsi tutta la verità sulle reali condizioni in cui versa l’ateneo di Perugia e avviare un’ampia discussione, franca e pubblica, sul suo futuro. Lo Studium perugino, non foss’altro per i sette secoli che ha alle spalle, possiede grandi potenzialità, non c’è dubbio, ma rispetto a venti-trenta anni fa ha conosciuto – come nasconderlo? – un declino obiettivo, che si registra a pelle e che certo non può essere smentito ricorrendo alle classifiche farlocche che ogni tanto pubblicano i giornali. Basta infatti essere stati studenti a Perugia negli anni Settanta o Ottanta per ricordare la qualità e il prestigio dei docenti che vi impartivano lezione; per ricordare il peso o l’influenza che esso aveva sulla vita civile e culturale cittadina; per ricordare, ancora, la sua capacità di produrre ricerche innovative e di promuovere appuntamenti scientifici di rilievo internazionale; per ricordare, infine, come in città arrivassero, rendendola unica e vivace, studenti da ogni parte d’Italia, spesso destinati a rimanervi con ruoli professionali di prestigio. Così oggi – semplicemente – non è più. Tutti lo sanno, tutti lo percepiscono, ma si preferisce far finta di nulla o illudersi che le cose stiano diversamente. Ecco, invece di parlare della proroga a Bistoni o dell’eventuale discesa in campo di questo o di quello, forse sarebbe più interessante chiedersi tutti insieme – docenti, politici, opinionisti, cittadini – quale ruolo possa ancora giocare l’Università nel contesto cittadino e regionale, cosa fare per renderla nuovamente attrattiva e all’altezza del suo antico nome, come rivitalizzarla dal punto di vista scientifico e didattico. Insomma, come farla tornare ad essere quel punto di riferimento – civile, culturale, economico e simbolico – e quel vanto agli occhi del mondo che per Perugia e l’Umbria essa è stata nel passato.
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Nessuno parla più dei contenuti e del senso dei corsi scaturiti dai recenti rimaneggiamenti; mi sento molto in sintonia con le considerazioni di Campi, mutatis mutandis applicabili anche alle nostre tribolazioni.
«Ma proprio perché siamo in una fase, come suole dirsi, di transizione e di profondi cambiamenti – i Dipartimenti prenderanno il posto delle Facoltà, si andrà verso un nuovo modello di governance della struttura accademica, i finanziamenti alla ricerca verranno assegnati sulla base di un complesso sistema di valutazione della medesima su base nazionale, nuovi criteri concorsuali determineranno la selezione dei docenti –, proprio per questa ragione converrebbe dirsi tutta la verità sulle reali condizioni in cui versa l’ateneo
[…]
L’offerta didattica è al tempo stesso sovrabbondante, disordinata, dispersa e modesta (per quanto finalmente in via di riordino), con corsi specialistici che sovente ricalcano (negli insegnamenti e nei docenti) quelli triennali.
[…] a costo d’apparire irriguardosi o grossolani può ridursi a ciò: un ateneo un tempo glorioso e onusto di storia, s’è ridotto col passare degli anni, ad una condizione che non si fatica a definire critica e decadente.» Campi
A proposito dello scadimento dell’offerta didattica, nell’ “Itaglietta” dove addirittura i parlamentari che hanno votato la riforma universitaria brandendo l’abravaneliana e giavazziana “meritocrazia” partecipano alla compravendita di lauree, mi sento particolarmente in sintonia con quello che afferma Campi, avendolo in qualche misura, con riferimento alle nostre miserie locali, anticipato. Con riferimento a quanto già detto sopra intorno alla copertura eccessiva, o per converso alla non copertura di diversi settori disciplinari (e più in generale al soddisfacimento o meno dei requisiti di docenza richiesti dalla legge), ci sarebbe inoltre un altro capitolo polemico da aprire, legato non solo a una domanda di senso intorno ai corsi di laurea così come sono scaturiti dalle recenti riforme, ma anche al sospetto che si insinua – suffragato da alcune modeste “indagini” o mere constatazioni casuali – che taluni corsi di laurea gattopardescamente assemblati siano poco più che facciate di cartapesta, destinate a durare lo spazio di un mattino; addirittura con certi insegnamenti che esistono solo sulla carta e denominazioni del tutto improprie, corsi magari tenuti da personaggi con nessuna qualifica in quello specifico settore disciplinare. Ma qualcuno si è mai incaricato di verificare? La sordida burocrazia di certo no, perché si accontenta dell’apparenza. Dopo che assai poco “meritocraticamente” si sono trinciati brutalmente interi comparti, senza nemmeno la perizia professionale di un sezionatore di carcasse d’alta scuola di macelleria, per riassemblarli cinobalanicamente, occorrerebbe indagare anche su quali insegnamenti oramai esistono davvero e dove esistono, badando a quello che propinano sul piano della didattica, ossia se sono tenuti da persone (siano essi docenti a contratto, ricercatori, associati od ordinari: non è questione di gerarchia!) realmente qualificati e competenti in quel settore e i programmi siano realmente strutturati secondo gli standard internazionali.
…P.S. Capisco che ogni considerazione di tipo contenutistico, benché di bruciante attualità, in questa fase rischi di apparire fastidiosamente contro corrente. Eppure solo questo conta realmente: Victrix causa deis placuit sed victa Catoni.