Se l’Università rinuncia all’italiano (la Repubblica 17 aprile 2012)
Raffaele Simone. È ufficiale: dal 2014 i corsi specialistici e dottorali del Politecnico di Milano si terranno solo in inglese. La misura punta ad attirare studenti e professori stranieri di qualità. Del resto, in vari atenei italiani si progettano da tempo corsi in inglese, col convinto sostegno del ministro Profumo a cui questa sembra la giusta via per l’obiettivo indicato col tremendo termine di “internazionalizzazione”. La linea del Politecnico promette di esser condivisa da altre università, anche perché il programma di internazionalizzazione conta su finanziamenti speciali, non disprezzabili in un’epoca di vacche magrissime. Ma che cosa pensarne? In generale, a una risorsa sovrana (come la moneta o la lingua) si rinuncia quando ha perduto valore o non ne ha mai avuto. È per questo che in Argentina negli anni Ottanta e Novanta il peso fu a lungo affiancato dal dollaro come mezzo di pagamento (il processo si chiamò “dollarizzazione”) e la contabilità nazionale fu redatta nelle due divise. Analogamente, in alcuni paesi dotati di lingue “rare” (come l’Olanda o i paesi scandinavi), lo studente universitario può trovare in aula, senza preavviso, un professore che insegna in inglese. Ma in un’università francese, spagnola o tedesca è difficile, e comunque rarissimo, che i corsi si tengono in una lingua diversa da quella del posto, soprattutto se i destinatari sono tutti o quasi tutti nativi. Questa differenza rinvia a un dato cruciale: tendono a cedere il passo le lingue (come le monete) di scarsa circolazione e di debole tradizione; tengono duro quelle che si chiamano “lingue di cultura”, cioè associate a una lunga storia, una grande tradizione culturale, una vasta reputazione internazionale e (last but not least) una forte “fedeltà” da parte del loro popolo. Che francese e spagnolo appartengano a questa categoria, non c’è alcun dubbio. Basta pensare alla tenacia con cui hanno frenato l’anglicizzazione della terminologia del computer (ordinateur nella prima lingua, computadora nella seconda). Anche il tedesco, a dispetto della sua fama (non vera) di lingua impervia, è usato senza limitazioni nelle università della Germania. Gli stranieri che vogliono studiare in quei paesi ne imparano prima la lingua, anche profittando delle loro efficienti reti di servizi culturali all’estero.
L’Italia è come al solito una curiosa eccezione. Già da tempo i sociolinguisti avevano segnalato la fiacca “fedeltà” (in gergo inglese, loyalty) degli italiani (il popolo come i potenti, la gente come le istituzioni) verso la propria lingua, che pure è indiscutibilmente una “lingua di cultura”. Pur non disponendo di una reale conoscenza di lingue straniere (lo mostra ad abbondanza il ceto politico, amministrativo, professionale, intellettuale e anche accademico), i nostri mollano senza indugio se ritengono che l’ammiccamento inglese faccia fino. Gli esempi si sprecano. La togatissima Galleria Borghese, impassibile alle proteste, inalbera da anni un truce cartello che indica la ticketteria; e non più tardi dell’altro giorno ho visto nel caffè del Maxxi di Roma un avviso che dice (letteralmente): “Maxxi21eat – Ristorante-Happy hour-Aperto-È gradita la reservation”. Spiritosaggini fuori posto? Puro cretinismo? Forse anche questo, ma è soprattutto il penoso provincialismo di chi, senza saper niente di lingue straniere (e poco della propria), vuole sembrare up to date, in, cool. Immaginate quindi cosa potrebbe accadere quando un professore italiano entra in aula e si mette a far lezione in inglese dinanzi a ragazzi quasi tutti italiani (nel Politecnico milanese gli stranieri sono il 17%)! Teatro dell’assurdo? Straniamento brechtiano? Tre uomini a zonzo o Achille Campanile? E di quali studenti stranieri si tratterà poi? Certo non di statunitensi, tedeschi, inglesi e francesi; saranno cinesi, rumeni, bielorussi, ucraini, cioè persone per cui la conoscenza dell’italiano potrebbe essere una risorsa essenziale. Vale la pena di mortificare la sovranità culturale italiana in questo modo? Si potrebbero immaginare risposte di più vasto respiro. Siccome l’italiano, a dispetto dei leghisti, è una grande lingua di cultura, molto ricercata all’estero e ancora mal nota agli italiani stessi, si potrebbe dare un poderoso impulso alla traballante rete dei corsi di italiano negli istituti di cultura, col sostegno di un marketing intelligente e di finanziamenti opportuni, creando simultaneamente negli atenei italiani stazioni dedicate dove gli stranieri possano imparare in poco tempo i fondamentali della nostra lingua. In questo modo, invece di chiedere ai nostri studenti di digerire vacillanti pronunce inglesi, si incrementerebbe il numero degli stranieri colti che conoscono l’italiano. Ciò potrebbe avere uno straordinario effetto moltiplicatore, dato che la conoscenza di una lingua induce una varietà di desideri e aspirazioni, da quelle sentimentali (che favoriscono la pace) a quelle professionali e economiche (favoriscono la crescita). E irrobustisce anche, indirettamente, la gracile “fedeltà” dei nativi.
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Non dubito che l’idea di insegnare in inglese (in modo da coprire frequenti lacune nell’italiano) verrà accolta con entusiasmo anche quaggiù in provincia e sarà fantastico: si comunicherà in un perfetto inglese il contenuto di corsi di laurea tendenzialmente sempre più scadenti, senza curarsi dello “spread” contenutistico rispetto ai titoli conseguiti in altre università o altri paesi europei, trascurando la sostanza, abbacinati, come sempre, da lustrini e paillettes.
Abbiamo corsi che rappresentano solo dei simulacri di quello che furono o di quello che sono altrove: per l’accidiosa burocrazia che governa l’università, va bene così, purché si rispettino “i regolamenti” fino all’ultimo comma, senza curarsi se al contrario si viola ogni principio di buon senso e di rigore scientifico. In questo contesto le vituperate ricerche sull’asino amiatino appariranno da qui a breve -mutatis mutandis – paragonabili per profondità e rigore alle indagini del CERN sulla “particella di Dio”.
Forse non è da estendere ovunque ma in generale mi pare che in molti ambiti sia la lingua della ricerca. Poi non nascondiamoci che inglesizzare vuol dire spingere un sistema sostanzialmente autoreferenziale verso logiche di misurazione dei risultati e di valutazione.
Rabbi Jaqov Jizchaq, on aprile 19, 2012 at 10:30 pm said:
…ma la forma non può sostituire i contenuti: non si può parlare della lingua in cui si insegna, senza parlare di ciò che si insegna e personalmente sono più preoccupato dalla sempre maggiore vacuità dei corsi di laurea, che non della lingua in cui si tengono gli insegnamenti: e poi credo che per chiunque sia nella ricerca, scrivere in inglese non sia esattamente una novità; il guaio è che in una città e forse un intero sistema che ha decimato una generazione dei suoi ricercatori, di gente che apprezza questa sfumatura ve ne sarà sempre di meno; dunque potrei anche essere favorevole, anche in considerazione del fatto che in ogni contesto internazionale (corsi in cui sono presenti studenti/docenti stranieri) si parla inglese, ça va sans dire, senza clamore; ma è inutile fingere di non vedere cosa sta accadendo: stiamo discutendo della ciliegina nella torta… senza torta.