Il ranking è una cura peggiore del male (dal Corriere della Sera 26 aprile 2012)
Sebastiano Maffettone. Scegliere vuol dire prima confrontare e poi decidere. Per confrontare, può essere una buona idea adoperare guide che pubblichino elenchi in cui sono listati meriti e demeriti di un prodotto comparandoli con altri prodotti dello stesso genere. L’italiano medio tiene in buona considerazione il modello di automobile che compera e la qualità del vino che beve. Proprio perciò, prima di scegliere un’automobile o una bottiglia di vino, spesso e volentieri fa ricorso a giornali specializzati in questi settori. Di solito, in casi del genere, i giornali presentano classifiche – come quelle del calcio di serie A – in cui i vari prodotti vengono elencati dando maggiore punteggio a quelli che sembrano avere più merito e minore punteggio a quelli che ne hanno meno.
È possibile e giusto adoperare la stessa metodologia per valutare comparativamente la produzione scientifica degli studiosi di lingua e letteratura italiana? Questa era la inquietante domanda che Paolo Di Stefano ha sottoposto ai lettori del «Corriere della Sera» nel suo articolo del 23 aprile. La domanda in questione appare inquietante perché l’Anvur – l’Agenzia universitaria nazionale – sembra pretendere di volere mettere in classifica con simili strumentari i ricercatori e i dipartimenti non solo di italianistica ma anche di studi umanistici, filologia, filosofia, storia, sociologia e via di seguito. Di Stefano fa giustamente le pulci a una specifica classificazione di riviste, quelle di italianistica, svelando alla luce dei risultati ottenuti incongruenze e debolezze del sistema prescelto. Dato per scontato che quanto lui sostiene sia pieno di buon senso, vengono alla maggior parte degli studiosi anche di altri settori ragionevolissimi e più generali dubbi sul senso di queste misure comparative. Perché quanto detto per l’italianistica vale anche per molte altre discipline, a cominciare dalla mia, «filosofia politica». In quest’ultimo caso, i due autorevoli colleghi che rappresentavano la nostra disciplina nella commissione Anvur per le riviste avevano finito con il valutare – in maniera difficilmente condivisibile – di prima fascia solo due riviste del settore, trascurandone altre pure assai meritevoli: i più maliziosi hanno fatto notare che due colleghi nella commissione erano anche nella direzione delle due riviste prescelte.
Tutto ciò non fa bene all’università. Le evidenti incongruenze statistiche e sostanziali del metodo prescelto finiscono per creare disagio e scetticismo diffusi presso gli studiosi più seri. Alcuni di questi asseriscono che, tuttavia, talvolta bisogna oggettivare e classificare i risultati della ricerca perché quanto fatto finora – prima delle introduzione della classifiche – non ha portato l’università italiana a ottenere risultati esaltanti. Mi permetto di rivolgere a chi pensa in questo modo un’obiezione generale ma semplice. Innanzitutto, l’università italiana non è sempre così male come qualcuno suggerisce. In secondo luogo, non si deve dimenticare che per rimediare a un male si può crearne uno ancora peggiore. Perché – ci si chiederà – il metodo dei ranking potrebbe essere una terapia peggiore del male? A mio avviso, perché sposta l’enfasi e l’interesse dallo studio a queste classifiche spesso incomprensibili. Andando avanti così, finiremo con il creare una prossima generazione di studiosi abili a far entrare nel più breve tempo possibile in classifica loro stessi e i loro dipartimenti, ma magari scarsamente appassionati alla ricerca. E il rimedio ai disagi attuali? Non so rispondere, ma posso solo dire che da un po’ di tempo in università si parla solo di numeri, cifre, indici e statistiche. E quasi mai di libri, idee, proposte. Io vorrei solo rovesciare un po’ questo trend. Studiare e pensare non fanno parte del «cv standard» e non entrano in classifica. Ma guarda caso le decine e decine di studiosi di razza che ho avuto la fortuna di conoscere nella mia vita accademica, quegli stessi che hanno fatto grandi le maggiori università del mondo, non facevano altro.
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«È possibile e giusto adoperare la stessa metodologia per valutare comparativamente la produzione scientifica degli studiosi di lingua e letteratura italiana?» Di Stefano e Maffettone
Come ho già spiegato altre volte, in questo blog (ma “repetita juvant”), non c’è bisogno di scomodare la lingua italiana per dire che non è affatto giusto! Non è giusto neanche per la Medicina, che pure tanto usa questo criterio (…senza criterio!). E cerco di spiegarmi restando sul suo esempio: Se voglio un vino buono (a parte che il “de gustibus…” è sempre lì a ricordarci che non esistono quasi mai criteri oggettivi di scelta!), consulto una rivista specializzata e vado a comprare la bottiglia (di quello “bono”!)… ma se quello che la rivista spaccia per “bono” lo produce un bravo “taroccatore”, che si fa?
Passiamo all’esempio “medico” (lo stesso che ho fatto un po’ di tempo fa): se si cerca, nella letteratura scientifica: “Aids vaccine” (ossia vaccino contro l’AIDS), si trovano, ad oggi, 9623 articoli scientifici, molti dei quali pubblicati su riviste ad elevato “impact factor” …e certamente, gli scienziati che hanno pubblicato su quelle importanti riviste saranno persone degne del massimo rispetto e della massima stima …Ma c’è un fatto che non si può assolutamente ignorare! Ad oggi, dopo quasi trent’anni di “ricerche”, il vaccino contro l’Aids ancora non esiste!!!
La domanda sorge, allora, spontanea: “ma che diavolo hanno pubblicato, quei rispettabilissimi scienziati su quelle rispettabilissime riviste con le quali hanno fatto le loro rispettabilissime carriere?” …Fuffa!!! Tanto per dirla come piace a qualche noto frequentatore di questo blog!
No, non ci siamo proprio …come diceva mia nonna: “non è questa la strada che porta in Paradiso!”.