Lo volete capire che l’università di Siena non è una fabbrica di cavallucci e panpepati?

Rabbi Jaqov Jizchaq. Aderendo allo sciopero sulla sospensione dell’erogazione del trattamento economico accessorio al personale tecnico e amministrativo dell’Università di Siena, Elisa Meloni, segretario provinciale del Pd senese, scrive: «sosteniamo con convinzione il lavoro del Comune e della Provincia per tenere alta l’attenzione sul risanamento dell’Università…». Sì, ma Maremma maiala, lo volete dire alla fine cosa intendete per “risanamento” dell’università? Cosa volete fare? Perché non muovete il culo, a livello politico, almeno laddove contate qualche cosa, ossia a livello cittadino e regionale? Perché dovete essere succubi a baronie che facendo scompisciare la buonanima di mio nonno anarco-socialista ottocentesco, hanno l’improntitudine di proclamarsi addirittura di sinistra? Perché non la piantate con la lista dei nauseanti luoghi comuni? Basta con le manfrine, coi discorsi di circostanza, con le frasi fatte e i proclami vuoti. L’università di Siena non esce dal pantano in cui si è cacciata con la sciatta demagogia populista e i minuetti: che cacchio volete fare? È lecito chiederlo? Questo del “risanamento” sta diventando un mantra, una frase ripetuta ossessivamente che cela un sostanziale navigare a vista, una coltre di spessa retorica per bischeri che giustifica ogni sorta di scelleratezza, senza che nessuno, in concreto, dica cosa esattamente vuol fare, a parte ridurre stipendi e personale, smantellare ricerca e didattica e naturalmente non toccare gli interessi costituiti: ma qual è la prospettiva, da un punto di vista scientifico, di quella che è una delle istituzioni accademiche più antiche del mondo, che non è dunque una fabbrica di cavallucci e pampepati? Quali osterie bisogna frequentare per averne contezza?

3 Risposte

  1. Condivido la rabbia, caro Rabbi. Aspettarsi però che sia solo la politica a risolvere ogni problema non credo che sia corretto. La politica può dare una mano, ma su come ricostruire e rilanciare l’università occorre che si diano da fare tutti i diretti interessati. La politica ha già agito abbastanza; la vendita delle Scotte alla Regione per 108 milioni non è stata una cosa da poco, ed è stata un’operazione indubbiamente politica. Quell’operazione significa che se c’è da pagare paghiamo tutti e se c’è da guadagnare guadagniamo tutti. La politica e le istituzioni possono indubbiamente fare ancora dell’altro ma non dimentichiamoci di quello che hanno già fatto.
    L’Università deve quindi darsi da fare anche da sola. Deve metterci più del suo. Occorrono idee per lo sviluppo e il rilancio. E dato che le idee buone sono una cosa rarissima allora occorre che a concorrere siano tutti, nessuno escluso. L’università deve diventare un polo di attrazione nazionale e internazionale, attraverso una formazione ed una ricerca di alto livello, attraverso la collaborazione con altre università, anche straniere, ed anche attraverso la collaborazione col mondo industriale, manifatturiero o terziario che sia. Se non si hanno idee proprie allora occorre almeno guardare le migliori università del mondo, pubbliche o private che siano, e cercare di trarre ispirazione.
    Il Rettore e l’amministrazione hanno certamente una grande responsabilità, ma, ripeto, è anche responsabilità di tutti farsi carico di contribuire in qualche modo alla salvezza dell’università. Salvezza che non può venire solo dalle milionate che calano dal cielo andando a tappare buchi di bilancio. Occorre altro. Perché le milionate possono risanare le situazioni contingenti ma non possono certo trasformare da sole una cosa scadente in una cosa eccellente. La politica che procura milioni non basta quindi mai. Occorre invece solidarietà, lungimiranza e buon governo da parte degli addetti ai lavori, ma soprattutto servono idee che portino all’eccellenza. Se le idee sono buone i soldi per realizzarle si trovano, altrimenti no. Occorre che ci si metta nelle condizioni di chiudere i bilanci sempre in attivo. Occorre mettersi nell’ottica che se i soldi pubblici diventano sempre più scarsi allora occorre aumentare gli incassi che arrivano dalla produzione e vendita di formazione e proprietà intellettuale. Per poter fare questo occorre eccellenza e quindi capacità di attrarre studenti da formare e ricercatori convinti di trovare a Siena l’ambiente giusto per fare ricerca. Non vedo altre vie.

  2. Caro Petracca,

    sui media locali, nelle prese di posizione politiche, c’è una rappresentazione a mio avviso stereotipata della realtà (forse per mera ignoranza), una illusione che sarebbe bene dissipare: infatti a leggere certi giornali pare che tutto sia rimasto sostanzialmente immutato; in sofferenza, forse, ma immutato, come uno che dimagrisce, ma non per questo perde un occhio o una gamba, e si tratti dunque “solo” di far quadrare i conti in modo da poter ricominciare a mangiare, magari vendendo qualche altro palazzo, mandando via un altro po’ di docenti (cioè svuotando ulteriormente i corsi), segando le gambe ad un altro po’ di giovani alla vana ricerca di una chance. Ebbene no, non è così: quello che semmai sopravviverà è uno spezzone dell’università senese, ed è lecito ed opportuno domandarsi quale. Tutta l’operazione comporta un pesante ridimensionamento di didattica e ricerca, e questo viene appena sfiorato con levità dai media, come se fosse la cosa più ovvia, naturale e trascurabile del mondo e non richiedesse un serio dibattito ed una riflessione un pochino più ampia e trasparente, visto che oltretutto le modalità con le quali ciò avviene autorizzano il sospetto che sia “pèso il tapòn del buso”.
    Si diceva che a Siena c’erano “troppi docenti”; poi si scoprì che in realtà tali medie erano di genere trilussiano, cioè a dire che a prescindere dall’importanza e dalla necessità, in realtà questi docenti erano pessimamente distribuiti, tutti concentrati in certe aree, chissà, forse a causa della presenza di “vortici”, come nel triangolo delle Bermude, mentre altre, non meno importanti, già in pesante sofferenza al momento dello scoppio del “buco”, con la fuoriuscita di una parte cospicua del corpo docente e in presenza dello stop al turn over, hanno subìto un tracollo. Si diceva che c’erano troppi corsi di laurea, che se ne dovevano chiudere un po’: cosa sicuramente vera (se ne sono chiusi a decine), ma poi anziché scegliere, si è finito per chiudere ed accorpare un po’ a cacchio di cane: uno scempio operato sulla base anagrafica dei pensionamenti e nessun altro plausibile criterio di tipo qualitativo. Senza manco sapere cosa farsene dei docenti residui “in esubero” dei corsi smantellati, o poterli trasferire, o dire loro cosa faranno per i prossimi tre lustri: periodo in cui verranno mandati verosimilmente a spaccare le pietre, o peggio a insegnare ciò che non sanno, per completare il monte ore (o fingere di farlo), tagliando oltretutto le gambe ai giovani non stabilizzati, ma competenti e riducendo l’offerta didattica in taluni casi ad obbrobri inguardabili.
    Pare che come nella satira di Gogol sulla burocrazia, taluni abbiano smarrito il proprio naso, rimanendo incapaci di annasare l’odore di truffa e di raggiro che promana da equivoche operazioni di rabberciamento, a Siena in modo eclatante, ma in differente misura, va detto, anche nella maggior parte dei sessanta atenei italiani che non sono in grado di sopportare la fuoriuscita senza ricambio di legioni di docenti (e la congiuntura economica non lascia sperare in inversioni di tendenza a breve periodo): a sentire altre voci di amici e colleghi dislocati lungo lo Stivale, i discorsi appaiono sorprendentemente simili e si direbbe che in mezza Italia questo sia il problema dei problemi, legato a riforme incompiute, miranti a curare il sintomo col manganello dei famigerati “requisiti minimi”, che danno una botta in testa a tutti (sempre all’avanguardia di tutte le tendenze, qui abbiamo già provveduto a sbatterla preventivamente da noi contro un colonnino), non risalendo alla causa, ossia l’immobilismo prodotto dalla cosiddetta “autonomia universitaria”; sicché chi non può essere licenziato o mandato in pensione e non ha più una struttura di riferimento, verrà tenuto come ostaggio dei Tupamaros a languire in contesti ove azzardarsi a parlare di buona didattica e buona ricerca, sovente è considerato addirittura un affronto ed una sfida all’autorità costituita. Uno strano metodo, quello di certi “chirurghi”: operare, dimenticandosi di suturare le ferite. Alla luce di tutto questo, parlare di ranking e valutazione appare lievente umoristico.
    In Toscana insistono cinque o sei atenei, più sedi distaccate che si muovono in un’ottica “secessionista”: in questa fase in cui la più parte di loro si trova con le pezze al culo, non è pensabile che non sussista fra istituzioni dello stato italiano, quali sono le università pubbliche, alcuna forma di scambio, collaborazione, programmazione, sviluppo delle sinergie, e non solo a livello di dottorati, come si incomincia a fare di nuovo, “affrettandosi” un po’ troppo lentamente. Credo anch’io (buon ultimo) che tutte queste sedi in Toscana non siano più sostenibili: è ridicolo! Andate a vedere cosa offrono realmente certi corsi di studio e certi insegnamenti, ed è del tutto evidente che alcune specialità non possono sopravvivere ovunque ad un livello minimamente decoroso. Ebbene, allora si amputi, se necessario, ma poi ci si ricordi di suturare la ferita: fuor di metafora si programmi la distribuzione dei corsi di laurea sul territorio e la dislocazione degli addetti, cosa che in altri paesi europei è normale, ma che qui cozza contro l’inerzia naturale del sistema. Si prendano i docenti delle specialità numericamente in sofferenza e li si concentri in una o due di queste tre università, perché è inutile disseminarli come sbandati di un esercito in rotta di qua e di là a presidiare fortilizi che non si è più in grado di difendere per la pompa dei baroni e la bramosia di certi loro malandati scudieri, di feudi oramai del tutto immaginari come il governatorato dell’isola di Barattaria di Sancio.

  3. …a Report gli studenti si sono limitati a dichiarare che “ci sono troppi docenti”, e questo proprio mentre lamentano che hanno chiuso o sono in procinto di chiudere, non già le famigerate “scienze del gatto”, ma diversi corsi di base, di quelli che normalmente si trovano ovunque vi sia una parvenza di università. Allora perché doversi ancora ripetere?

    1. Come constatabile dalle tabelle pubblicate da questo forum, i docenti sono (o meglio, erano) percentualmente più della media nazionale, rispetto al numero di studenti, ma non razionalmente distribuiti: a settori disciplinari con venti docenti di ruolo, fanno riscontro altri settori non meno importanti e che servono un numero non inferiore di studenti con uno oppure oramai nessun docente di ruolo. Come sia andata, in questo armonioso groviglio omoclinico, credo non ci sia bisogno di ripeterlo. In ogni caso avrei preferito cinquanta ricercatori stabilizzati, che non cinquanta esperti di comunicazione per l’ufficio della propaganda.

    2. Si è chiuso non si è chiuso esclusivamente sulla base dei famigerati requisiti minimi di docenza, cioè le leggi mussiano-gelminiane che impongono un determinato numero di docenti e un loro preciso intruglio. Ma certe palesi patologie, come i doppioni, sono ancora in piedi, in ossequio alle Loro Maestà. Quello che si vede è in realtà un’offerta didattica sempre più dequalificata, apparenza senza sostanza, con una graduale scomparsa dei livelli specialistici delle lauree magistrali e dei dottorati di ricerca.

    3. Ammesso e non concesso che sia sensato bombardare le “scienze …avanzate”, non si è chiarito cosa farne delle decine di docenti non prossimi alla pensione che lavorano nelle aree destinate alla soppressione, né realmente quale sia la prospettiva di questo ateneo da un punto di vista scientifico.

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