Il commento di Rabbi (1 marzo 2012) sull’attuale condizione dell’Università di Siena, dove si vive alla giornata e con espedienti, senza alcun intervento sul sistema che ha generato il dissesto.
Rabbi Jaqov Jizchaq. Ho sentito tempo fa nel corso di un servizio su “La 7” dedicato alle disgrazie senesi, enumerare tra i problemi che attanagliano l’ateneo, quello di un esubero di personale docente: ma c’è qualche incongruenza nel ripetere che a Siena ci sono troppi docenti e, nel contempo, chiudere molti insegnamenti e corsi di laurea di base (non le famigerate “scienze del bue muschiato”) per mancanza di docenti, non credete? Dalla ventina di professori di ruolo in un unico settore, alle decine di contratti, appannaggio di altri ben ammanicati profesurun: mica qualcuno penserà che per tutti, negli anni dello scialo, sia stato un tale bengodi? Bisognerebbe almeno soggiungere che i “troppi docenti” non sono stati ovunque, ma in alcuni settori, non necessariamente i settori più importanti (anzi…), come non necessariamente “inutili” sono quelli che man mano vengono cassati con un indifferente e cinico tratto di penna; ma anche qui, se il giudizio è lasciato ai diretti interessati, essi vi diranno che i docenti del vicino sono sempre “troppi” rispetto ai propri. La politica dei “tagli lineari” indotta dal mero meccanismo anagrafico delle uscite di ruolo, unita all’impossibilità di reclutare, ha messo in ginocchio proprio chi di personale non ne aveva reclutato in abbondanza, forse perché morigerato, forse perché fesso: per quanto indiretta e travestita da meccanismo aleatorio tipo tombola, una scelta – ossia quella di colpire proprio costoro – la si è dunque operata, ed è parecchio opinabile che una tale opzione risponda a criteri principalmente qualitativi. Pietà l’è morta, ma una volta compiuta una tale scelta, come persone coscienziose, si dovrebbe essere conseguenti e ci si dovrebbe rendere conto che si sono creati diversi orfani, cui sarebbe doveroso offrire almeno una via di fuga, visto che altrimenti il piano di risanamento, come letterariamente lo si definisce – quasi narrassimo le vicende dell’ingegner Hans Castorp alle prese con la tubercolosi – assomiglia più che altro ad un golpe.
La sicurezza di andarsene con cospicua buonuscita entro un breve lasso di tempo, ha accentuato la scelleratezza di alcuni e l’assenteismo di altri, favorendo soluzioni raffazzonate di cortissimo respiro, tese solo a posticipare di poco la catastrofe e a garantire un congedo definitivo privo di traumi a gente con le chiappe al caldo. Paradossalmente in alcuni corsi di laurea i prepensionati riassunti a contratto costituiscono pressoché gli unici simulacri di “professore ordinario” rimasti, immobili e silenti come i busti marmorei dei “patrioti” al Gianicolo o i manichini di un museo delle cere di Madame Tussauds: pensione cospicua, lauto contratto, magari altre collaborazioni esterne, nessuna responsabilità; da parte di molti scarsissimo impegno, a fronte di gente alle prese col salario accessorio o che nei ranghi della didattica e della ricerca riempie i vuoti lasciati da costoro, praticamente in incognito. Gente che dura fatica a mettere assieme il pranzo con la cena, una generazione di “giovani” decimata, che la pensione non l’avrà, e alla “carriera”, coloro che fortunosamente saranno sopravvissuti assieme alla propria disciplina e ai corsi di laurea sui quali è incardinata, dovranno incominciare a pensarci… a partire dal 2018, cioè mai. A tutti si consiglia intanto, amorevolmente, di pensare per così dire a una “polizza”, ossia a scegliersi una rupe abbastanza alta per buttarvisi a tempo debito, anche senza riscattare la laurea. Tutto ciò non ha senso: se una parte del corpo docente è stata civilmente seppellita, pensionandola, altri mostrano ancora le loro membra scomposte ai rapaci, cadaveri rimasti a puzzare insepolti senza la pietà di nessuna Antigone: siccome non si comprende quale colpa dovrebbero espiare, chi è il giudice e quale sentenza possa emettere chi a sua volta è attenzionato e oggetto di indagine, vogliamo per decenza e per il residuo onore dell’istituzione accademica offrire loro una via di scampo, semplicemente trasferendoli altrove? Altrimenti, cosa volete farne? Contentarvi di constatare che il suicidio di un po’ di persone è tutto sommato un costo sociale accettabile, se come contropartita produce una razionalizzazione dell’offerta didattica che consenta la sopravvivenza delle mirabili “scienze del bue muschiato”? In fondo Siena è ancora università statale e la porcherrima autonomia universitaria non può precludere soluzioni che altrove sarebbero considerate addirittura ovvie.
L’uscita di ruolo, naturale o anticipata di un numero considerevole di professori, avendo messo in crisi interi comparti, ha creato profughi e gruppi di sbandati i cui reggimenti si sono dissolti, come un esercito in rotta, ma curiosamente questo pare non essere un tema all’ordine del giorno: se ti viene un canchero, dal punto di vista contabile, lassù stappano lo Champagne, e non so se si possa considerare un ambiente sano, quello in cui si è costretti a difendersi dall’amministrazione la quale (costantentemente sperando che ti pigli un accidente o ti investa un tram) ti guarda solo come peso sul FFO o un nemico da abbattere, in un contesto ove pare oramai che anche la notizia di un colpo apoplettico venga accolta con gioia, essendo cagione del risparmio di uno stipendio.
Dopo l’alea della chiusura a capocchia di corsi di laurea o cattedre senza considerazione alcuna della loro importanza, tenendo in piedi magari la fuffa per il solo fatto che vi sono cinquanta professori di fuffologia, reclutati dal potentissimo capo dei fuffologi per non fare un cazzo, è accaduto che tra coloro che andranno in pensione, non domani, ma fra quindici o vent’anni, vi siano oramai sparuti gruppi che non hanno o a breve non avranno più un insegnamento, un corso di laurea di riferimento, dunque alcuna possibilità di operare nella ricerca, come nella didattica, e non credo che si possa, con la rozzezza che caratterizza oramai il “dibattito culturale”, ripetere la cretinata che si ode sulla bocca di grevi personaggi: “icché vòi che sia? Si metteranno a fare qualche altra cosa, che tanto è uguale”.
Essendo la sicumera un sottoprodotto dell’ignoranza, non mi sorprende la smagliante e serena grettitudine con cui in questa fase molti parlano senza discernimento di cose che non sanno, ordiscono strane trame leggiadramente sorvolando sulla struttura delle scienze contemporanee e la difficoltà delle singole specializzazioni ad essere irreggimentate dentro lo schema degli “accorpamenti” cinobalanici e della didattica “just in time”, strano mascheramento di una ottusa e grigia burocrazia sovietica bulgakoviana, da toyotismo “de noartri”, che continua a spacciare il declassamento e la caduta di livello degli studi universitari per “efficienza”. “La burocrazia – diceva Balzac – è un gigantesco meccanismo mosso da pigmei”.
Adesso tutti sono alle prese col VQR e da anni si parla assai ipocritamente di come meglio cucinare “i giovani” (latu sensu), senza che peraltro nessuno si sia incaricato in questa fase di andare a vedere, non solo cosa fanno “i vecchi” (circa l’UGOV queste mie povere orecchie hanno udito diversi di costoro commentare beatamente: “io me ne strafotto!”), ma anche individualmente chi sono, come operano e in che condizioni attualmente lavorano questi “giovani”: ebbene, siccome il pesce puzza dalla testa, sarebbe utile riflettere sul fatto che la credibilità dei progetti di ricerca, la possibilità di approdare a pubblicazione su rivista internazionale, peer review etc., non vengono da sé e non sono appannaggio dell’ultimo sfigato imbelle assegnista di ricerca che si ritrovi a lavorare nel deserto, bensì presuppongono l’organizzazione della ricerca, dunque che chi guadagna il quintuplo di lui faccia quello che sarebbe incaricato di fare: ciò è chiaramente incompatibile col livello di latitanza, o di omertosa complicità nella latitanza che caratterizzano una parte (dico una parte, benché significativa) del corpo docente di questo ateneo, ove troppi personaggi catafottutivisi a svolgere un mestiere “che non era il loro” (vo’ mi capite) hanno sicuramente candidato Siena a capitale europea della dabbenaggine.
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