Dal “Corriere della Sera” (12 dicembre 2012)
Andrea Ichino e Daniele Terlizzese. La campagna elettorale è di fatto aperta. La nostra speranza è che l’università sia al centro del dibattito, per le sue implicazioni riguardanti la crescita e l’equità sociale. Il confronto non dovrebbe però essere contaminato da controversie su questioni non controvertibili, perché riguardanti dati di fatto. Una di queste è se sia vero o no che in Italia i poveri pagano l’università ai ricchi. Nei giorni scorsi, Francesco Giavazzi l’ha affermato; Marco Meloni (responsabile Pd per l’università) l’ha messo in dubbio (vedi www.lavoce.it). Che cosa dicono i dati? Che il finanziamento universitario opera ogni anno un trasferimento ingente, circa 2,5 mld di euro, dalle famiglie con reddito inferiore ai 40.000 euro lordi annui a quelle con reddito superiore. Non si può discutere di diritto allo studio e di finanziamento dell’università se prima non si riconosce questa macroscopica e odiosa ingiustizia.
Le famiglie con un reddito fino a 40.000 euro sono il 93% del totale dei contribuenti e pagano solo il 54% del gettito Irpef, dato che questa è una tassa progressiva (Dipartimento delle finanze). Quindi queste famiglie finanziano attraverso l’Irpef il 54% di quanto lo Stato dà all’università, con un contributo di 4,9 mld di euro. Tuttavia da esse proviene solo un quarto degli studenti universitari italiani, mentre dal 7% di famiglie più ricche vengono i restanti tre quarti (Banca d’Italia). Le famiglie più povere ricevono perciò, sotto forma di istruzione, un quarto di quanto lo Stato spende per gli atenei: circa 2,2 miliardi. La differenza tra quanto pagano e quanto ricevono (2,7 mld) è un regalo alle famiglie più abbienti. È vero quindi che, in proporzione al loro reddito, i più ricchi pagano più Irpef, ma non in misura tale da compensare l’uso maggiore che essi fanno dell’università. Tenendo conto delle altre imposte, che sono sicuramente meno progressive dell’Irpef, l’entità del regalo aumenta.
Cambiano le conclusioni considerando le rette universitarie? No. La loro somma, per legge, non può superare il 20% dei bilanci degli atenei. Inoltre la loro struttura è marcatamente regressiva: da un rapporto di Federconsumatori si desume che, in proporzione al reddito, le rette incidono per il 15,6% sui redditi più bassi, ma solo per il 4,3% su quelli di 40.000 euro, fino a quasi annullarsi a livelli ancora più alti. I ricchi pagano di più, ma non molto; tenendo conto delle rette di iscrizione, il regalo che ricevono dai poveri resta comunque di 2,4 mld. E sarebbe di 2,2 mld anche se le tasse universitarie, rimanendo ai bassi livelli attuali, fossero interamente pagate dai più ricchi.
È un trasferimento inaccettabile, che si perpetua solo perché i più ignorano come stanno realmente le cose. Che possa essere maggiore in Paesi dove l’università è del tutto gratuita non lo rende meno odioso e paradossale. Una volta che questi fatti siano riconosciuti da tutti, possiamo discutere di come venirne fuori. E qui le prospettive, legittimamente, possono essere diverse. Una, a cui forse aspira Meloni, potrebbe essere che tutti i giovani frequentino l’università, così come già frequentano la scuola dell’obbligo. In questo modo tutti ne fruirebbero in modo uguale ma i ricchi pagherebbero di più per via del prelievo fiscale progressivo, e il paradosso scomparirebbe.
Ma si tratta di una prospettiva realistica, o desiderabile? Certamente vanno rimossi tutti gli ostacoli che scoraggiano i ragazzi poveri e di talento dall’acquisire un’istruzione superiore. La qualificazione «di talento» non è però un inciso retorico, va presa sul serio. Il sistema universitario è la modalità con cui la società trasmette la frontiera più avanzata della conoscenza a chi è meglio in grado di riceverla ed estenderla. È un sistema intrinsecamente elitario, perché si fonda su un’ineliminabile disuguaglianza nelle capacità delle persone. È una disuguaglianza che non deve dipendere dalla ricchezza della famiglia d’origine, e bisogna fare ogni sforzo per rompere questo legame; ma così come non è possibile che tutti vadano alle Olimpiadi, è inevitabile che alcuni siano più di altri in grado di prendere il testimone della conoscenza. Ciò non è in contrasto con la nostra Costituzione (art. 34), dove stabilisce il diritto di «raggiungere i gradi più alti degli studi» per i «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi». Anche questa è una qualificazione importante e spesso trascurata: non per tutti, solo per i capaci e meritevoli. La scuola è e deve essere per tutti: è lì che si devono davvero creare le pari opportunità. L’università è altra cosa. Chiunque vinca dovrà ripensare al suo finanziamento.
Filed under: La voce degli studenti, Per riflettere, Quelli dell'uva puttanella | Tagged: Andrea Ichino, Corriere della Sera, Daniele Terlizzese, Francesco Giavazzi, Marco Meloni, Tasse universitarie |
E se la soluzione ‘ a la meloni’ e’ irrealistica cosa resta? La soluzione a la “ichino” ? Ovvero indebitare i piu’ poveri in modo che il 2.4 mld non vadano ai ricchi, ma direttamente allo stato (e alle banche)?
Perche’ in Germania non ci sono, praticamente, tasse universitarie?
Ah gia’, loro i soldi ce l’hanno.
A noi, non resta che incartare la cioccolata:
…come diceva Golene, la proposta che ho sommessamente avanzato per evitare che scompaiano dalla Toscana interi settori disciplinari e corsi di laurea di base, non è né originale, né utopistica. Altri infatti già stanno operando in questo senso e non capisco veramente cosa si aspetta a farlo anche qui. Digitando su Google “corsi interateneo”, estraggo i primi che capitano:
“Le Università di Parma, Ferrara, Modena e Reggio sono pronte a creare la federazione delle ingegnerie.
Una «superfacoltà» che unisca corsi e docenti, per competere con politecnici e atenei internazionali.”
“L’Università degli Studi di Trieste e l’Università degli Studi di Udine, impegnate in un patto federativo, collaborano all’istituzione e alla programmazione di quattro corsi interateneo di Laurea Magistrale:
Italianistica (LM-14)
Scienze dell’Antichità: Archeologia, Storia, Letterature (LM-2 e LM-15)
Filosofia (LM-78)
Studi storici dal Medioevo all’età contemporanea (LM-84)”
“il Corso di Laurea Specialistico Interateneo (Torino, Milano, Palermo, Sassari, Foggia) in Scienze Viticole ed Enologiche rappresenta l’evoluzione tecnico-culturale della Laurea di primo livello in Viticoltura ed Enologia, nonché delle lauree di primo livello in Tecnologie Alimentari e Tecnologie Alimentari per la Ristorazione. Rappresenta inoltre la naturale trasformazione della Scuola di Specializzazione in Scienze Viticole ed Enologiche dell’Università di Torino. Il Corso di Laurea Specialistica in Scienze Viticole ed Enologiche si pone l’obiettivo di formare una nuova figura professionale in grado di affrontare, in virtù di una solida preparazione di base, le sfide di un mercato del vino ormai globalizzato.”
“Agraria. Corso di Laurea Magistrale interateneo, tra le Università di Torino,. Milano .”
“Siamo lieti di poter comunicare è stato istituito per il prossimo anno accademico il Corso di Laurea Magistrale Interateneo in Filosofia.
Le sezioni di filosofia delle Università di Parma, Ferrara e Modena/Reggio Emilia si sono unite per attivare un Corso Magistrale Interateneo in “Filosofia”.”
ecc. ecc. ecc.
Ma perché non si sonda la possibilità di procedere in questa direzione anche nella nostra regione, laddove vi sia bisogno, invece di continuare ad accorpare in modo cinobalanico? Atteso che è utopistico contare solo sulla auto-organizzazione e sulla spontanea evoluzione degli organismi, se fossi ministro, personalmente caldeggerei o addirittura imporrei scelte simili; altrimenti non si capisce a cosa serva tutto l’ambaradan dei “requisiti minimi” e le varie interdizioni somministrate a pioggia in questi anni (la pars denstruens), se poi al contempo non si indicano le vie d’uscita auspicate (la pars construens). Nel ribadire ad nauseam che a mio modestissimo avviso non c’è riorganizzazione sensata dell’università di Siena che non coinvolga anche (almeno) i maggiori atenei toscani e che l’unico modo per far sopravvivere in Toscana diversi settori disciplinari e corsi di laurea è federarsi, eventualmente concentrandoli, se necessario, in una o due sedi e rinunciando definitivamente all’idea, alla quale de facto abbiamo già rinunciato senza trarne le dovute conseguenze (perché anche quella di trarre le conseguenze pare essere una fatica eccessiva per chi di dovere, pari a quella di una levatrice), di avere tutto ovunque, magari in molteplice copia, prendo però sommessamente atto che per quelli che non corrono il rischio di estinzione, la questione di cui stiamo discutendo appare insignificante. E allora mi domando se questo “organismo” abbia una testa, oppure le sue parti procedano l’una indipendentemente dall’altra all’insegna del motto “mors tua vita mea”. Il fatto poi che l’ateneo continui a pagare per altri venti anni professori e ricercatori di cui non si sa cosa fare, anziché trasferirli ad altra sede – trattandosi di università statale – ove possano continuare ad esercitare la propria professione, rafforzare il proprio settore e giustificare lo stipendio che percepiscono dallo stato, pare essere accettato come costo sociale inevitabile. Questo è il massimo di razionalità che ci è dato vedere, ossia la contemplazione della putrefazione e l’inerzia totale. Spiace constatare che gli interrogativi sollevati in questo forum non trovino una eco, un dibattito, in quella che dovrebbe essere (e non è) la palestra di libertà per eccellenza, ossia l’università, come se i problemi non esistessero, dando per scontato che alla fine un sano darwinismo premierà i più forti, precipitando nell’oblio i deboli. Oramai naturalmente è un dialogo fra titani e queste cosucce (cosa vive, cosa muore) non contano. E poi è anche caduto il governo, figuriamoci se è il caso di mettersi a pensare.
«Spiace constatare che gli interrogativi sollevati in questo forum non trovino una eco, un dibattito, in quella che dovrebbe essere (e non è) la palestra di libertà per eccellenza, ossia l’università, come se i problemi non esistessero, dando per scontato che alla fine un sano darwinismo premierà i più forti, precipitando nell’oblio i deboli.» Rabbi Jaqov Jizchaq
Il discorso di Rabbi, per quanto mi riguarda completamente condivisibile, solleva un’altra riflessione sull’inerzia dei docenti. È possibile che abbiano paura? Effettivamente, si respira un clima di terrore! Basti pensare al carabiniere direttore amministrativo Fabbro, alle sue disposizioni amministrative, ai suoi giudizi (per fortuna, in pubblico, è abbastanza ciarliera) sulla classe docente ecc., ecc.
…a me pare che su questo fronte prevalga l’inerzia. Certo chi va in pensione fra tre anni è comprensibile che tiri i remi in barca e non si avventuri in imprese ardite: ma chi deve rimanere ancora venti anni? O quelli che lavorano da precari, avendo come unica prospettiva lo smantellamento del proprio settore disciplinare? È chiaro che la prospettiva di sopravvivenza nel territorio di certi corsi di laurea e di certa ricerca interessa di più costoro: che però, accademicamente sono quelli che contano di meno. Il paradosso è che chi ha i denti non ha il cibo e chi ha il cibo non ha i denti. Se in cima a questo organismo deforme e sfregiato che oramai è la nostra università vi fosse una testa, sarebbe compito di cotanto cervello perseguire soluzioni del tipo di quelle sopra ventilate, con una gradazione che va dai corsi interateneo, fino all’accorpamento materiale in un’unica sede degli studiosi di materie affini che sparpagliati non servono niente, sono sempre di meno a causa delle massicce uscite di ruolo e del blocco estenuante del turn over, e non bastano per tenere in piedi un corso di laurea, o basteranno per un paio d’anni appena: perché se non fosse ancora chiaro, l’obiettivo delle varie e sempre più restrittive norme intorno ai “requsiti di docenza” è quello di far chiudere, non quello di consentire strane operazioni di prestitigitazione.
La risposta all’articolo di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese è stata scritta da Francesca Coin e Francesco Sylos Labini su “il Fatto Quotidiano” (18 dicembre 2012) con il titolo: «Ma i poveri pagano l’università ai ricchi?»