Tra inefficienza e approssimazione, l’università italiana sull’orlo del baratro

VercelloneFedericoUniversità, come rimediare al disastro (La Stampa 15 gennaio 2013)

Federico Vercellone. La ricerca e dunque l’università languono in Italia in una situazione angosciosa. I maggiori Paesi europei e gli Stati Uniti non hanno diminuito in modo significativo, per via della crisi, i finanziamenti per la ricerca, ritenendola funzionale allo sviluppo e alla ripresa. Al contrario il governo italiano, preoccupato esclusivamente dal debito pubblico, ha tagliato drasticamente le risorse per università e ricerca come se si trattasse di optional che possono essere trascurati senza eccessivo danno nei tempi bui. E nessun leader politico, eccezion fatta per il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, né di sinistra né di centro né di destra, ha auspicato che le cose andassero diversamente. L’indifferenza della classe politica è, quantomeno in proposito, quasi unanime. In questo contesto, la Riforma Gelmini dell’Università è rimasto l’unico dei disastri del precedente governo a non venir riconosciuto come tale dal Governo Monti.

Ora l’università andava indubbiamente riformata. Ma si poteva farlo in modo molto più razionale intervenendo incisivamente su singoli punti come il reclutamento e la valutazione della produzione scientifica. Si è proceduto invece cambiando tutto in un clima caotico e affannoso, dai concorsi alla governance universitaria e a tutte le strutture portanti degli atenei italiani. Come tutte le operazioni pletoriche anche questa è fallita. In assenza di un chiaro orientamento relativo al peso e al significato dell’istruzione universitaria nel nostro Paese, si sta così giungendo all’implosione delle strutture. L’impressione complessiva è che in realtà si volesse ottenere una cosa sola: tagliare i costi.

Inefficienza e approssimazione dominano il campo. Mi limito a un esempio sotto gli occhi di tutti: le abilitazioni nazionali per i docenti di prima e seconda fascia. Il ministero dell’Università e della Ricerca, guidato da un universitario, non è in grado a distanza di mesi di concludere la procedura per l’estrazione delle commissioni che dovrebbe essere effettuata sulla base sostanzialmente automatica di un algoritmo. Per non parlare dei criteri di accesso. I commissari avrebbero dovuto originariamente essere valutati sulla base di tre indicatori, fra l’altro sin da subito molto criticati e certamente dubbi se commisurati ai parametri internazionali. In ogni caso i tre indicatori avrebbero dovuto, quantomeno inizialmente, funzionare in maniera sinergica. In realtà ora basta averne superato uno soltanto su tre per accedere alla soglia del giudizio per i candidati-abilitandi, e così pure per i candidati-commissari. Questo significa un accesso generalizzato alle valutazioni che cancella ogni possibilità di discrimine, per quanto rozzo possa essere il filtro, tra coloro che hanno lavorato, e coloro che invece non lo hanno fatto. Le commissioni insediate con questa scriteriata procedura si troveranno a valutare ciascuna centinaia e centinaia di candidati, senza aver la minima possibilità e il tempo necessario per fornire un giudizio adeguato sui titoli di un candidato.

Siamo sull’orlo del baratro. Tuttavia non bisogna abbandonarsi a un narcisismo catastrofista. Nell’immediato, senza voler ritessere tutta la tela, si potrebbero inseguire pochi chiari obiettivi che prefigurino una più generale inversione di tendenza:

a) il finanziamento adeguato della ricerca fondato su una chiara valutazione di quali siano i settori trainanti che devono essere messi nella condizione di reggere la concorrenza internazionale (senza cadere preda delle sirene tecnocratiche secondo le quali i settori naturalmente finanziati dall’industria e dall’economia reale sono quelli che vanno incrementati in modo unilaterale);

b) un finanziamento altrettanto adeguato della valutazione che orienti il processo di cui sopra (evitando tuttavia che quella dei valutatori possa divenire, prescindendo dalla buona fede dei singoli, la nuova casta dominante che ricava vantaggi secondari dalla quasi gratuità dei compiti che le vengono attribuiti);

c) la determinazione di criteri molto selettivi per il reclutamento che privilegino i settori di eccellenza con l’intento di limitare così anche la «fuga dei cervelli»;

f) nella consapevolezza che è necessario formare un nuovo management in grado di promuovere lo sviluppo nell’ambito di una cultura della «complessità», di una cultura cioè che non è (fortunatamente) più in grado di riconoscersi da tempo nell’alternativa rigida e un po’ vecchiotta tra sapere scientifico e umanistico.

Una Risposta

  1. «Il nostro Ateneo ha terminato una delicata prima fase di risanamento, che ha portato l’Università di Siena ad avere situazione finanziaria simile a quella di altri atenei. Ora inizia una nuova fase nella quale tutte le Università pubbliche saranno messe in grave difficoltà dalle criticità della finanza pubblica.» il Magnifico

    …Insomma, è stata dura, ma si può ben dire che il meglio è alle nostre spalle: eravamo sull’orlo del burrone, ma poi abbiamo ricevuto una valida spinta. Soggiungerei che se qualcosa potrà andar peggio, senz’altro lo farà. Visto che la “criticità” della finanza pubblica e la progressiva deindustrializzazione del paese (che è ben più di un dato recessivo meramente congiunturale) non lasciano sperare in un radioso avvenire in cui ricomincia a piovere la manna dal cielo, da parte dello stato o fors’anco dell’impresa, diviene sempre più pressante la richiesta di un serio piano di risanamento che partendo proprio da questa constatazione, non rimuova psicoanaliticamente i problemi di cui al mio precedente post.

    «Come tutte le operazioni pletoriche anche questa è fallita. In assenza di un chiaro orientamento relativo al peso e al significato dell’istruzione universitaria nel nostro Paese, si sta così giungendo all’implosione delle strutture. L’impressione complessiva è che in realtà si volesse ottenere una cosa sola: tagliare i costi.» Vercellone

    Bisognerebbe avere il coraggio di parlare italiano e dire ciò che relmente si pensa, ovvero: “scordatevi per sempre l’ateneo “generalista”: fine dell’utopia sessantottesca”, essendo questo, a forza di spremere le leggi, il contenuto delle sedicenti riforme degli ultimi anni; ma ciò non esime le competenti autorità dal pensare in chiave strategica ad un diverso assetto del diritto allo studio e della ricerca, alla salvaguardia di competenze scientifiche e tecnologiche, alla presenza sul territorio di robusti presidi in ordine alla ricerca scientifica, pura ed applicata (non amo neanch’io la classificazione “umanistico” vs. “scientifico”), ascendendo ad una visione che magari oltrepassi le colonne d’Ercole di Poggibonsi e i dogmi del neofeudalesimo incarnato dalla cosiddetta “autonomia universitaria”.

    «la determinazione di criteri molto selettivi per il reclutamento che privilegino i settori di eccellenza con l’intento di limitare così anche la «fuga dei cervelli» la determinazione di criteri molto selettivi per il reclutamento che privilegino i settori di eccellenza con l’intento di limitare così anche la «fuga dei cervelli». (Vercellone)

    A parte che parlare di “reclutamento” qui è come parlare di corda in casa dell’impiccato, giacché, nonostante le massicce uscite di ruolo, di assunzioni non ve ne sono, alle viste, se non in numero infinitesimo. Si è parlato improvvidamente di “rivoluzione” a proposito delle recenti riforme; ma le rivoluzioni vere, com’è noto, non sono un pranzo di gala: il facimmo ammuina del frenetico spostare cose da qui a lì e poi di nuovo da lì a qui, non ha molto di rivoluzionario. La tendenza degli ultimi anni, indotta dalle leggi nazionali come dai comportamenti locali poco virtuosi, salvo meritorie eccezioni, lungi dal perseguire l’eccellenza, sembra che semmai sia stata quella di favorire lo sputtanamento totale, perpetrato con palpabile disprezzo: livelli specialistici aboliti, dottorati cancellati o esistenti solo nominalmente, accorpamenti voluttuosi con conseguente profilo bassissimo dei corsi di laurea, a causa di piani di studio inevitabilmente aggrovigliati e dell’impossibilità di “verticalizzare”: cosa volete “rivoluzionare”? L’autonomia universitaria sta al dissesto finanziario dell’università, come le regioni stanno al dissesto finanziario dello stato, ma qui non siamo bòni nemmeno ad abolire le province e quanto all’università, stiamo a cincischiare di frivolezze, come certi damerini della corte di Luigi XVI, ignari che per i loro colli già si affilava la lama del “rasoio nazionale”. Di quale “meritocrazia” andate cianciando, se qui il problema al centro del dibattito politico è “l’esubero dei docenti”, per quanto latiti la consapevolezza che la fuoriuscita di decine e decine di professori rende la situazione di molti comparti ben poco “esuberante”? Disfatti i corsi di laurea, soppressi vari settori disciplinari, il problema sarà, non già come favorire la meritocrazia, bensì come disfarsi dei ricercatori. Un piano di risanamento reale temo che debba prendere in considerazione i problemi, realmente “di carattere strutturale”, coi quali molto umilmente vi ho tediato, proponendo soluzioni eventualmente migliori delle mie, se ve ne sono, ma senza nascondere la testa sotto la sabbia: lusso che può consentirsi solo chi ha le natiche al caldo, la pensione certa e magari imminente.

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