Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo su “la Repubblica” di oggi: «È il migliore risultato nazionale nell’indicatore di sintesi della qualità della ricerca in rapporto alle dimensioni», dice il rettore Angelo Riccaboni dicendosi “orgoglioso del risultato” dell’Ateneo senese che ha ottenuto il migliore risultato nella qualità della ricerca rispetto alle dimensioni della struttura, con un differenziale positivo pari a 35,76%.»
Dunque, se Siena ottiene, o meglio, ottenne dei buoni risultati nel campo della ricerca, probabilmente qualche merito lo avrà quel 44% del corpo docente costituito dai ricercatori di ruolo e la percentuale indefinita di quelli a tempo determinato, o no? Ossia di quella gente che qui a Siena, sostanzialmente, nella quasi totalità dei casi, non ha futuro. L’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) ha presentato i risultati della Valutazione della Qualità della Ricerca italiana (VQR) per il settennio 2004-2010, cioè, sostanzialmente (tranne un paio d’anni), il periodo precedente alla crisi che ha investito l’ateneo: ne traiamo la conclusione che ai rinviati a giudizio per il “buho” spetta la medaglia al valor civile anziché la galera? Il risultato viene, infatti, brandito dalle gazzette contro le Cassandre che denunciano lo stato di perdurante crisi in cui versa l’ateneo; al contrario, c’è da chiedersi quanto sia rimasto e quanto rimarrà delle competenze che hanno contribuito alla determinazione di quel risultato, proprio a seguito della crisi: 500 docenti, cioè il 50% del totale, andranno in pensione – essenzialmente non rimpiazzati – entro i prossimi cinque anni, sono scomparsi metà dei corsi di laurea che avevamo nel 2008 (e molti altri scompariranno un po’ a casaccio) e, a partire dallo stesso, anno gli studenti sono calati del 25%.
Si aggiunga la falcidia dei dottorati e le scarsissime prospettive per i meno anziani. In sostanza, visti i cambiamenti radicali intervenuti in questi ultimi anni e le prospettive tutt’altro che rosee del futuro, si può dire al massimo che fummo “eccellenti”, ma non c’è nessuna garanzia che il futuro sarà uguale al passato. Al momento di chiudere e sopprimere, si è “valutato” se si andavano a potare anche dei rami sani, anziché quelli secchi e basta? La domanda è ovviamente retorica. Guardiamo appunto al futuro: cosa resterà da qui a qualche anno di quelle competenze, di quelle “eccellenze” che hanno prodotto questo incoraggiante risultato? Nei post precedenti abbiamo fatto due conticini che non mi pare siano stati smentiti. Se il criterio è quello meccanicistico e incurante della qualità dei “requisiti di docenza” (leggasi “tagli lineari”), se manca il coraggio di porre un argine agli “orticelli”, ai corsi di laurea cinobalanici, per la pompa di questo o quel satrapetto del menga; se non vi è una volontà riformatrice vera di intervenire sulle reali storture, se non vi è la consapevolezza che dalla polverizzazione delle strutture non nasce alcuna ricerca, se dunque si dimentica il concetto stesso di “comunità scientifica”, non resterà quasi nulla. Insomma, stiamo celebrando le glorie passate, ignorando la magra realtà dei fatti presenti e le prospettive future, e che dei passati trionfi nel volgere di pochi anni resterà ben poco.
«Pisa al vertice della ricerca in Italia.» By the way, hanno 1800 docenti, a fronte dei meno di 600 che avrà Siena nel 2020; e non c’è l’òmino della strada di una città oramai assuefatta al luogo comune che instancabilmente bercia: “e so’ troppiiiiii!”. Insomma hanno le strutture pressoché integre: come si pensa di competere con i nostri ingombranti vicini di Pisa e Firenze? D’un balzo, pare che un dato positivo relativo a un intervallo iniziato dieci anni fa e conclusosi, essenzialmente, con l’esplosione del “buho” cancelli le magagne del presente. Insomma, crogioliamoci pure nel ricordo dei fasti passati, strombazzando le statistiche buone, nascondendo sotto il tappeto quelle cattive, ma non dimentichiamoci che la realtà presente è sostanzialmente diversa da quella di due lustri fa: non vorrei che un confuso e burocratico efficientismo che a Napoli si direbbe “facimm’ ammuina” inducesse a dimenticare la sostanza delle cose e io non vedo come si possano eludere i ragionamenti svolti nei miei precedenti messaggi (anzi…): se vi sono delle eccellenze nel campo della ricerca, è sensato disperderle?
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“Siena sbaraglia tutti”, titola La Repubblica, anche se mi pare che in questi giorni di trionfi si stia facendo un certo casino fra il rapporto dell’ANVUR http://www.anvur.org/rapporto/ sulla ricerca per il periodo 2004-10 e le consuete esaltanti statistiche del CENSIS, dalle quali peraltro si evince che Siena ovviamente non è prima assoluta, come esultano le gazzette, ma è “prima” tra gli atenei con meno di 20.000 studenti, ossia esattamente avanti a Trieste, Sassari, Trento, Modena, Macerata, Udine, Marche, Brescia, Salento, Urbino, Ferrara, Venezia, Bergamo, Cassino, Foggia, Napoli (Partenope, of course).
Punto. Troppa enfasi è pura vanagloria, vanifica gli sforzi realmente compiuti per uscire dal baratro, li ridicolizza coprendoli di una coltre di sciocca superficialità, vanitas vanitatum …
Comunque le statistiche del CENSIS hanno sempre qualcosa di enigmatico e io mi baserei di più sul rapporto dell’ANVUR relativo agli standard della ricerca. In cosa secondo il CENSIS si superi per esempio un’università come Trento, non è chiaro, visto che viceversa nel VQR dell’ANVUR tra i medi atenei spiccano prorpio quelli del Trentino Alto Adige
(http://www.repubblica.it/scuola/2013/07/16/news/la_prima_classifica_della_ricerca_in_italia_tra_gli_atenei_vince_il_nord_trionfa_l_infn-63106395/), ma la sostanza del sempre benevolo CENSIS è questa.
Il rapporto ANVUR è istruttivo: nel VQR 2004-2010, by the way, che riflette la situazione “avant le déluge”, noto che a Siena ricevono una valutazione positiva anche aree sientifiche che successivamente, con gli sconvolgimenti intervenuti, sono state soppresse oppure sono oggi a rischio di sopravvivenza per tutte le ragioni abbondantemente esposte in questo blog, a riprova del fatto che non si intravede in modo nitido un nesso tra il valore intrinseco delle strutture e il criterio, basato come già detto ad nauseam su altri e più burocratici conteggi, che ne determina la vita e la morte. Perché qualora non si sia capito, Siena in questi anni sta perdendo il 50% del corpo docente, dal 2008 ha perso metà dei corsi di laurea (e ne perderà ancora nei prossimi anni) e il 25% degli studenti. Pertanto parole enfatiche come:
“L’Università di Siena è prima nella classifica Censis degli atenei italiani. La tanto bistrattata università di Siena è la migliore d’Italia”
(http://www.stefanobisi.it/?p=5110)
paiono assai fuorvianti, per non dire delle autentiche e puerili balle che non aiutano ad affrontare la realtà. Paiono un invito rivolto alle menti obnubilate a non fare niente e a lasciar correre, siccome in passato (un passato che pare oramai remoto) le cose sono andate bene: l’apologia del “pollo induttivista di Russell”. Da ciò che ho capito, secondo il VQR il miglior ateneo italiano in assoluto è quello di Padova, che si attesta al primo posto per sette aree scientifiche su quattordici. Naturalmente ognuno tira l’acqua al suo mulino; così leggo questa dichiarazione degli architetti sardi: “Censis: Architettura di Alghero prima in Italia”, oppure: “l’Università della Calabria tra le migliori d’Italia”, dalla Gazzetta del Sud, oppure (non poteva mancare) “è Siena il miglior ateneo d’Italia bene anche la sede aretina” da La Nazione di Arezzo, che prelude a chissà quali cinobalanici disegni (ma se sono quelli che ho udito, sono cinobalanici assai!) ecc. ecc.
Seguita il Venerabile articolista:
“E pensare che da quando è stato eletto rettore Angelo Riccaboni non sono mancate le critiche pesantissime, spesso offensive e anonime.”
E qui dunque, nel sollecitare energicamente il lettore ad approfondire il tema fortemente gobettiano della “Riforma mancata” (“ogni fedele prenda in mano il Vangelo e ne colga il senso con l’aiuto della grazia, senza le mediazioni ecclesiastiche e le complicate interpretazioni che si sono sovrapposte nei secoli” – Lutero), giacché si è citato Gobetti, mi riallaccio all’osservazione di De Mossi per ribadire il concetto già espresso: siccome in questo blog non mi pare si siano rivolte critiche personali gratuite ed offensive, quello che preoccupa evidentemente chi insiste con questa storia trita e ritrita dei nickname, non sono le oggettive considerazioni basate su dati ufficiali dello stesso Rettore o attinti al sito MIUR; non è il pressante richiamo alle leggi dello stato (alle leggi dello Stato, maremma in cantina, mica ai “dieci comandamenti” della ndrangheta!), nella fattispecie la riforma Gelmini e i vari susseguenti decreti; non è la preoccupazione per il futuro di chi nell’ateneo ci lavora, delle competenze e delle tradizioni che si perdono, del danno economico che si genera, bensì il fatto che chi avanza queste osservazioni non fornisca, bada un po’, le proprie generalità (“favorisca patente e libretto, prego!”), sicché possa essere denigrato ed eventualmente minacciato: questo è un modo veramente esecrabile di eludere i problemi.
Personalmente (e non mi pare di avere offeso nessuno, a meno che per qualcuno l’aritmetica non sia offensiva) ho fatto due conticini onde dedurne alcune conseguenze: fa una differenza se mi chiamo Pinco o Pallino? Attendo ancora di essere confutato.
Il fatto che quelle osservazioni, quelle deduzioni siano vere oppure false (nel senso elementare della “adaequatio rei et intellectus”), a prescindere dai quarti di nobiltà o dalla tessera di partito di chi le pronuncia, se è masculo o femmina, alto o basso, evidentemente per qualcuno è cosa secondaria: ma non sarebbe più semplice ed onesto cercare al contrario di rispondere?
Il rapporto dell’ANVUR per il periodo 2004-10, parla di risultati positivi, ottenuti in quel lasso di tempo, in vari campi della ricerca; surreale è pertanto il fatto che una persona come il sommo teorico del “Groviglio Armonioso”, la quale non mi pare abbia dato contributi notevoli, che so, nel campo dell’elettrodinamica quantistica, se la prenda con chi partecipa a questo dibattito on line, in gran parte appunto operatori del settore, gente polemica perché animata da un gramsciano “pessimismo dell’intelligenza”, che affianca l’ “ottimismo della volontà”, e che sa abbastanza bene come funzionano le cose, avendo contribuito, ognuno per la sua parte, ad ottenere appunto quei risultati di cui il suddetto signore mena vanto. Conclude l’articolo:
“Oggi Siena può dire che la sua università è Prima” (ibid.)
…sì, per i debiti. La vera “autonomia universitaria” sarebbe quella che la rendesse veramente autonoma dal teatrino della politica.