I portualli dell’università di Siena e la perdita del senso del ridicolo

EnricoVaime

Enrico Vaime. La storia che nessuno ci ha raccontato, ma che abbiamo dedotto con l’imprecisione dell’immaturità, dai fatti incomprensibili ai quali abbiamo assistito. Brandelli di storia, tratti dai ricordi di un figlio della lupa che non riuscì a diventare balilla e che oggi mi ricompare nella sua immagine più grottesca e nella sua più vistosa carenza: in quegli anni un popolo conosciuto come arguto, acuto, di vivace temperamento, perse del tutto uno dei sensi grazie ai quali un Paese può salvarsi, almeno dal punto di vista culturale: il senso del ridicolo.

Eccola la tabe più vistosa.

Accantonammo quello spirito che alcuni ci avevano forse troppo generosamente attribuito. La Storia che ci cascò addosso ci trovò (noi così portati alla indisciplina creativa, al temperamentalismo individuale quasi patologico) intruppati con gente e idee che accettammo per pigrizia mentale (e per scarsa cultura, certo).

E quando – tardivamente – cercammo di defilarci, pagammo un prezzo alto che non avevamo previsto. Eravamo – in quegli anni lontani – dei “portualli” termine che nel meridione si usa per indicare le arance. E questa storiella dell’epoca che riportiamo, ci sembra significativa.

Nel Mezzogiorno d’Italia, al tempo della raccolta delle arance (i portualli, appunto) si usava gettare questi frutti nei fiumi che, con la loro corrente, li portavano al mare dove venivano raccolti e quindi spediti ai mercati.

La storiella racconta che i portualli, mentre l’acqua del fiume li spingeva verso l’imbarco, erano soliti cantare una loro canzone-inno che diceva: «Noi siamo i portualli e andiamo verso il mare».

In mezzo alle arance (succede nei corsi d’acqua libera) capitò un reperto. Un rifiuto umano, diciamo. Che, per una ipocrita forma di educazione orale, chiameremo «cilindro fecale». L’inelegante deiezione galleggiò insieme alle arance che cantavano, «noi siamo i portualli andiamo verso il mare». E dopo un po’, coinvolto emotivamente (concediamo anche alla cacca una sua creativa sensibilità) il cilindro fecale si unì al coro. Cantava con crescente partecipazione insieme agli agrumi quella canzone così aggregante.

Finché un arancio non lo notò. Il cilindro fecale, preso dal ritmo, continuava a cantare «noi siamo i portualli andiamo verso il mare». Si era quasi convinto di essere come i suoi compagni di viaggio.

Quando il portuallo che aveva notato l’intruso-illuso non gli si avvicinò e, con tono deciso, lo inchiodò alla sua realtà diversa.

Gli disse: «Statte zitto!» E aggiunse: «Strunzo!»

Successe anche a molti di noi.

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