Rabbi Jaqov Jizchak. In questi anni si è determinata una frattura insanabile: fra territori, fra generazioni, fra atenei, che come ho già detto si risolverà fra una ventina d’anni, una volta spianati gli atenei di provincia e ridotti a scuole professionali a favore di “grossi hub” della ricerca, sepolte due generazioni in fosse comuni e riedificato il tutto su altre basi. L’età media degli ordinari è attualmente di 60 anni; l’età media dei ricercatori è 46 anni. A Siena credo che siamo un po’ più vecchi di qualche anno, rispetto alla media nazionale. In Italia sono già andati via 10.000 docenti in pochi anni, il 17%, mi sembra, a Siena ci avviamo a perderne il 43% e il sistema è stato dissanguato, ma al bar dello sport ripetono ancora che “eh so’ troppiiiii!”. Il popolino giubila se sputano sul culturame, perché questa è la mentalità inculcatagli dai mass media. Di certo in dieci anni di blocco totale delle carriere e del reclutamento, non è che i ricercatori siano ringiovaniti: sicché adesso si attribuisce loro persino la colpa di essere invecchiati, un po’ come nel Cyrano lo stomaco del re fu accusato di lesa maestà, quando questi fu colto da mal di pancia. In buona sostanza, moltissimi di coloro che sono capitati nell’università negli anni bui a cavallo del secolo, hanno pagato il conto dei bagordi delle generazioni precedenti e dell’inconcludenza della politica, incapace di risolversi in una direzione o nell’altra e di essere conseguente rispetto ai principî che afferma, limitandosi a contemplare la putrefazione.
Oisive jeunesse
À tout asservie,
Par délicatesse
J’ai perdu ma vie.
Ah ! Que le temps vienne
Où les coeurs s’éprennent.
(Arthur Rimbaud)
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Sono d’accordo su molti punti da te sollevati, ma il popolo non sputa sul culturame, lo disprezza! Un gruppo di novelli pensionati una ventina di giorni fa mi ha sottolineato che l’università “è sempre stata il luogo dove si sono annidati i più grossi fannulloni d’Italia” (seguito da una serie di insulti, risate e applauso dei presenti… sì, proprio applauso di quasi tutto il ristorante!)
Cambiando argomento, è vero che il territorio italiano oramai viaggia su differenti binari, ergo considero i nascenti Hub limitati a quelli più “dinamici”. Alcuni atenei spariranno nei prossimi anni, invece i più fortunati verranno accorpati a quelli più grossi. Sarà migliore? Dubito.
Concordo con la tua previsione: probabilmente qualche ateneo sparirà, altri si trasformeranno in scuole professionali (tipo Fachhochschule), o diventeranno sedi distaccate di atenei regionali più grossi. O più verosimilmente un misto di queste ultime due cose: sedi distaccate dedicate al rilascio di diplomi triennali, taluni di tipo “professionalizzante” che non prevedano una prosecuzione. Sarà giusto? Ai posteri l’ardua sentenza. Dico solo che, da un lato, almeno un terzo degli sparuti docenti che rimarranno in capo a un paio d’anni difficilmente può essere riconvertito – umiliandolo – a questa prospettiva e che soldi per reclutarne un congruo numero più funzionale ad essa, non ce li hai. Dall’altro lato, anche ammettendone la plausibilità, per operare questa trasformazione non basta dirlo, ma occorrerebbe preliminarmente scardinare il sistema degli atenei-monadi che non comunicano onde creare poli disciplinari territoriali dotati di massa critica ed attrattività. Chi dovrebbe farlo? Forse io e te? A me pare difatti che non vi sia alcun progetto razionale, alcuna volontà che vada in questa direzione, ma solo un dissimulato affidarsi alla legge del caso e della giungla, che equivale ad un lavarsene le mani. Una volta ho portato la macchina dal meccanico. Questi, per sottolineare con ironia la gravità del guasto e la sua impotenza dinnanzi ad esso mi disse: “cavolo, qui ci vorrebbe un meccanico!”.
Ah… anch’io mi imbatto di frequente al bar in un omino, di quelli sempre indignati, che è solito tenere simili pubblici comizi: “insegnano du’ ore alla settimana per sei mesi e poi un fanno una sega il resto dell’anno!”. Perché insegnare porta via notoriamente solo “du’ ore alla settimana” e la ricerca equivale a non fare nulla. L’anatema naturalmente investe tutti: tecnici, ricercatori, associati, ordinari, precari di tipo A, di tipo B e d’ogni altri tipo, quelli che sono arrivati prima del diluvio e quelli arrivati dopo (interminabile precariato, carriere bloccate, niente scatti e pensioni improbabili). Ovviamente tutti egualmente ricchi sfondati e tutti inequivocabilmente corrotti ed oziosi. Conclude, l’omino della strada, con l’immancabile: “eh so’ troppiiiii!”. Ite missa est. Il medesimo signore fantastica di stipendi faraonici, pari a dieci volte quello reale di un associato. Quali sforzi abbia fatto costui nella vita per meritarsi quel qualcosa che lamenta gli sia stato tolto, o meglio rubato da questi fannulloni che sprecano il loro tempo in modo sì deplorevole, non è noto.
Può sorprendere il dilagare di questo scelbiano disprezzo per “il culturame”, che specie in una città come Siena equivale a sputare nel piatto dove si mangia da secoli, ma va detto che esso è sostenuto da una vasta pubblicistica faziosa, pavida, nel non operare alcun distinguo. Viceversa non sorprende che con questa mentalità, qui manchi una vera e propria classe dirigente all’altezza dei compiti, cosicché il primo bandito di passaggio abbia potuto facilmente svaligiare la più antica banca del mondo e ridurla sul lastrico. Sottolineo ancora che allo scoppio del “buho” senese, all’unisono forze politiche vecchie e nuove incitavano a bastonare il corpo docente, e di fatto così è stato, mandandone via il 43% e bloccando buona parte dei rimanenti sul bagnasciuga (è solo così, che si sono “rimessi a posto” i conti). Ora che l’hanno dimezzato, fanno finta di non vedere che se ammazzi l’asino, poi non hai chi ti tira il carretto. Purtroppo mi sto persuadendo che dietro la recente ondata di indignazione generalizzata che sparge letame su tutto e tutti si celi tanta, ma tanta ipocrisia.
P.S. Leggo, by the way, che nella parallela della recentemente ribattezzata “Via dei Ricercatori”, ai “Due Ponti”, avevano aperto un bordello dove certe comari guadagnavano in tre ore quello che un inutile ricercatore guadagna in un mese. Una proficua start up?
No, non è giusto. I posteri potrebbero chiedersi: come mai hanno bloccato il reclutamento? Che ci voleva ad assumere mille ricercatori? Perché con un discreto tenore di vita e una bassa natalità la gente studia di meno? Perché spendono per l’ANVUR e non per la ricerca? Perché mandano al macero le loro tradizioni?
Controsensi, assurdità, pagliacci al potere. Forse un popolo di lemming che a un certo punto si butta dalla scogliera e fa cadere anche chi non vuole.
Cara Mary,
l’orizzonte di vita di ciascuno di noi è limitato e il tempo passa implacabile; stamattina mi hanno parlato di un uomo in perfetta salute che si è seduto all’ombra di un bastione in un ridente borgo della nostra provincia e non si è più rialzato. Il tempo scorre, per noi mortali, e non possiamo, come Dorian Gray, far invecchiare il nostro ritratto al posto nostro. Più breve ancora è l’arco temporale in cui uno può compiere certe scelte, orientarsi verso un certo indirizzo, acquisire le necessarie competenze ed essere produttivo e creativo. Non si possono impartire ordini e contrordini in continuazione, distogliere sistematicamente le persone dai loro compiti, basando poi per la cosiddetta “selezione” sull’effetto di logorazione devastante indotto dalla demotivazione. Una cosa è combattere ed eventualmente soccombere, un’altra è consumare inutilmente la vita scrutando l’orizzonte deserto dalla Fortezza Bastiani sperando di veder comparire almeno un tartaro.
Tra crisi, indecisioni sull’avvenire, rassegnazione o menefreghismo, proclami seguiti da un nulla di fatto, riforme abortite, blocchi decennali del turnover e delle carriere (dunque della vita della gente), il tempo per molti è scaduto, dopo aver ascoltato per anni pastrocchiati discorsi pseudoculturali, ed essendosi agitati freneticamente per ottemperare a disposizioni contraddittorie in un interminabile “facimm’e ammuina”. Basta, se ne hanno le palle piene! Quello che dunque mi pare più urgente, pur registrando la sconfitta ed il carattere oramai minoritario dei nostri punti di vista davanti ad una opinione pubblica sorda (chissà, forse abbiamo veramente torto), è che almeno si decida: si dia corpo a quei programmi ventilati, annunciati, minacciati, ma mai deliberati con risolutezza.
Leggo una specie di entusiastico commento al buon piazzamento nelle classifiche del CENSIS per gli atenei medio-piccoli, che Siena “si colloca da anni ai primi posti di molte classifiche e ranking internazionali”https://www.forexinfo.it/Migliori-universita-italiane-statali-classifica-2016-2017, anche se, ohibò, la classifica del CENSIS non è affatto una classifica internazionale. Viceversa in quella famosa ARWU di Shanghai non compare nemmeno fra le prime 500 http://www.shanghairanking.com/World-University-Rankings-2016/Italy.html. Leggo piuttosto che Torino, università che viaggia fra le prime 300 al mondo http://www.lastampa.it/2016/08/30/cronaca/nelle-classifiche-luniversit-di-torino-perde-posizioni-nFTrAyuNF0JlYTC3Ig8TGK/pagina.html è considerata dalla rivista Nature “stella nascente della ricerca”. Secondo la classifica di Shanghai nella categoria 151-200 è preceduta da Roma e Padova, e si colloca nella fascia 201-300, dove ci sono anche il Politecnico di Milano, Bologna, Firenze, l’Università di Milano e quella di Pisa. Se sono queste (e non il CENSIS) le classifiche che decretano il successo internazionale, e quindi i finanziamenti che arrivano, credo che il dado sia tratto: sono questi “gli hub della ricerca”. A ognuno il suo. Ad altri tocca accontentarsi di competere tra gli atenei medio-piccoli delle classifiche interregionali del CENSIS. Ecco delineata la divisione fra “teaching university” e “research university”. Un sacco di anime belle insorgeranno dicendo che non è così: e allora com’è?
Non c’è cosa più insopportabile delle blandizie, le lusinghe interessate. Dunque la smettano di prendere per il didietro citando di continuo le classifiche del CENSIS per i piccoli atenei di provincia come se fossero le classifiche della serie A: non servono a niente, non riflettono la situazione sul terreno, non colgono il senso del tempo che viviamo. L’omino degli orti che esclama “eh so’ troppi e un fanno una sega!” non riflette sul fatto che la perdita di metà del corpo docente e anche la perdità di metà di coloro che pubblicavano quei lavori di ricerca sui quali si basano le valutazioni, ministeriali ed internazionali, e che quegli atenei italiani succitati coi quali vorresti competere dispongono ciascuno almeno di 1000 ricercatori più di te e sono in piena espansione. Prendere una decisione non è la cosa più semplice di questo mondo: Si tratta di valutare i pro e i contro e di risolvere molti problemi che sorgono quando la questione è complessa.
Che ognuno si assuma dunque le proprie responsabilità, cessando di tirare sassi in piccionaia per poi nascondere la mano.
“Prince, n’enquerez de sepmaine
Où elles sont, ne de cest an,
Qu’à ce refrain ne vous remaine:
Mais où sont les neiges d’antan!”
(François Villon, Ballade des dames du temps jadis)
«Perché mandano al macero le loro tradizioni?» (Mary)
La riesumazione del dibattito fra “le due culture” mi fa pensare ai capponi di Renzo, che s’ingegnavano a beccarsi l’uno con l’altro “come accade troppo sovente tra compagni di sventura”. L’altro ieri mattina a “Prima Pagina” un geologo, commentando il triste episodio di cronaca della ragazza padovana morta per aver rinunciato alla chemioterapia, ha dato la colpa, ohibò, alla “cultura umanistica”: se la gente sapesse più matematica, invece di studiare Dante, ha detto più o meno, forse non crederebbe alla magia e alla stregoneria.
Ora, a parte che capisco sempre meno cosa una certa vulgata che osteggia gli “umanisti” intenda per “cultura umanistica”, non si vede perché mai un archeologo sumerico debba ritenere che la terra sia piatta e la luna sia fatta di panna. Comunque concordo col geologo sul fatto che in Italia siamo ancora oppressi dai cascami di una sottocultura che considera poco “culturale” ogni ramo della scienza, al punto di concepire il diritto di fregarsene. Ma chi ragiona così è probabile che abbia maggior confidenza con la Gazzetta dello Sport, che con le terzine dantesche.
Che il rinascere di una polemica provincialoide fra “le due culture” sia una sorta di zuffa tra i capponi di Renzo (col rischio che sia preludio a qualcos’altro: ad un paese scientificamente a rimorchio, senza ricerca di base, senza identità e culturalmente colonizzato) lo si evince anche da questi dati, che pesco nel sito ROARS:
“Dal 2009, in cui si raggiunge il suo massimo storico di oltre 62.000 docenti, il sistema universitario italiano ha conosciuto un decremento del 20.0% del proprio organico, pari a circa 12.500 unità di personale strutturato. Si osserva una tendenza che penalizza le aree relative alla ex facoltà di Scienze Matematiche Fisiche a Naturali e quelle delle ex facoltà umanistiche” http://www.roars.it/online/la-diseguale-decimazione-dei-ricercatori/
Come direbbe Arbasino, siamo “un paese senza”, che si bamboleggia con diatribe da teologi bizantini sul sesso degli angeli, mentre sta affondando.
[…] Chi è capitato nell’università negli anni bui ha pagato il conto dei bagordi delle generazioni p… […]
In certi momenti credo anche io che non esita un disegno per l’intero sistema universitario, ma vedo molte contraddizioni nel sostenere questa tesi. Infatti:
http://www.regione.piemonte.it/pinforma/innovazione/369-come-si-fara-ricerca-nel-parco-della-salute-di-torino.html
Aggiungiamo lo Human Technopole di Milano e l’ITT Genova (nonostante le critiche), erigende città della salute ecc ecc, e il vecchio triangolo industriale diventa una concentrazione formidabile di strutture votate alla ricerca in sordina.
Guarda caso:
http://www.zipnews.it/2015/11/giannini-il-politecnico-di-torino-al-centro-di-una-knowledge-valley/
Senza parlare dell’asse Bologna, Padova, Trento e Trieste…
Domanda: cosa ne facciamo del resto, da Firenze in giù ad eccezione di Roma e Napoli?
«Domanda: cosa ne facciamo del resto, da Firenze in giù ad eccezione di Roma e Napoli?» Andrea
Yes, that is the question… con qualche approssimazione si può dire che i 19 atenei italiani che si trovano nei primi 300 posti della classifica di Shanghai (o classifiche internazionali simili, non ci sono grandissime differenze) costituiranno le “research universities”, o ne costituiranno il fulcro, mentre la classifica del CENSIS degli atenei italiani medio-piccoli è la lista di quelli che sono destinati a diventare “teaching universities”, Fachhochschulen istituti professionali, sedi distaccate ecc. Sarà giusto? Ingiusto? Qui sas! Fatto sta che è uno stravolgimento del sistema. Il dado è tratto, ma anche per attuare questo progetto non basta contemplare la putrefazione di tre quarti degli atenei. Occorrono politiche attive. Per esempio mi pare incompatibile con il particolarismo, la totale assenza di mobilità e con “l’autonomia universitaria”, intesa come cacofonia (più che armonia) prestabilita di monadi incomunicanti. Nel Nord, come giustamente sottolinei, si muovono attivamente in questa direzione, checché se ne pensi, creando grossi agglomerati dotati di notevole massa critica. Qui ci si contenta delle scaramucce con Monte Cassino reclamando un posto in serie A, mentre assistiamo alla lenta asfissia di molte aree scientifiche di base: che ne sarà di chi ci lavora e di chi ci studia? Cosa dobbiamo dire ai giovani ricercatori di quelle aree, di andarsene da Siena per mai più ritornar? Come diceva mia nonna, anche per ammazzarsi è bene ricorrere al boia.
Credo, anzi sostengo che a livello locale ci sia in alcuni casi una notevole lungimiranza strategica. Ma il sistema universitario non può essere interamente basato su impulsi localistici, anche se molto importanti. Il nord avendo risorse disponibili si programma e fa bene, ma l’ altro 90% del sistema che fa? Stiamo a guardare quanto diventano belli e competitivi mentre noi sprofondiamo nelle tenebre del tartaro? Ribadisco, se la strategia è ratificare cosa nasce a livello locale, si fa prima a chiudere tutto il resto ed evitare ipocrisie sciorinate nel tempo.
P.S. «Massa critica indica in generale una soglia quantitativa minima oltre la quale si ottiene un mutamento qualitativo.» (Wikipedia)
Un tizio, parlando di coloro che negli ultimi cinque anni sono ostili alle vaccinazioni (tipo Red Ronnie) ha dato la colpa a Croce, a Gentile e alla Chiesa cattolica! Mi sa che ormai la gente non ragiona più: sono dischi rotti che ripetono slogan coniati qualche decennio prima di loro. Dante era un grande scienziato. Mi sembra che le correnti ostili alla chemioterapia provengano da un tedesco, tale Hamer, vivente nella nostra modernissima epoca.
Un conoscente americano che abita non lontano da me ha il suo undergraduate degree con un double major in fisica e filosofia.
Tanto per fare un esempio banale.