36 Risposte

  1. A Pisa una stanza costa 315 euro, cioè meno che a Siena (vd. http://www.lanazione.it/economia/foto/affitti-studenti-universitari-1.2468691). Allora facciamo una breve considerazione, ripartendo dallo scabroso articolo del prof. Barucci sul destino degli atenei toscani: Pisa (un ateneo tre volte più grosso di Siena) è destinato a diventare lo “hub toscano”, il volano attorno a cui ruoterebbero gli altri atenei. È in piena espansione e molto ricco. E costa pure meno. La domanda è: su che basi dovremmo competere? Ecco servita la risposta:

    Dallai (Pd): “Biotech e scienze della vita. Da questi settori Siena può tornare a crescere”.

    Per carità, evviva le scienze della vita, e speriamo che Siena, finalmente, cresca (da ogni punto di vista), ma del resto che volete farne? In che misura pensate che la gente che lavora nella ricerca in altri settori possa essere “riconvertita”, insomma rieducata come nei laodong gaizao della rivoluzione culturale cinese? Identificare un settore rilevante non può essere un pretesto per eludere il problema di cosa farne del resto. Retoricamente si può dire che tutto ha a che fare con le scienze della vita, ma non si scalano le classifiche internazionali a forza di retorica e l’interdisciplinarietà non la si decreta a tavolino. Si è ripetuto ad nauseam che in capo a due anni Siena avrà perso quasi metà dei suoi docenti a caso, svuotando casualmente aree scientifiche con la stessa aleatorietà con cui il morbillo colpisce una popolazione. Di quelli che resteranno, una gran parte non c’entra un tubo con le scienze della vita: che volete farne? Dovranno assistere come spettatori passivi? Che guerra volete combattere con al più tre o quattrocento soldatini a fronte di eserciti cinque volte più grandi?

    • Biotech e scienze della vita sono aree che i costituendi centri a Milano e Torino si concentreranno e coopereranno

      Fai clic per accedere a La-Stampa-Torino-sanità-Torino-Milano-3-aprile-2016.pdf

      Domanda: con che risorse Siena sarà capace di competere con chi avrà finanziamenti per 150 mln l’ anno?

      http://www.wired.it/attualita/tech/2016/02/24/human-technopole-expo-cantiere-maggio/

    • Nulla dies sine linea. È uscita anche la classifica QS World University Rankings http://www.topuniversities.com/university-rankings/world-university-rankings/2016. Il Massachussett Institute of Technology MIT domina la tredicesima edizione del QS World University Rankings riconfermandosi la migliore Università al mondo per il quinto anno consecutivo. L’Università di Stanford guadagna il secondo posto, mentre Harvard scende al terzo e l’Università di Cambrige al quarto:

      “The top 400 universities are given individual ranking positions, and the rest are ranked in groups – starting from 401-410, up to 701+”

      Il Politecnico di Milano (183esimo) è primo in Italia per il secondo anno consecutivo e guadagnando quattro posizioni.

      “È un risultato in contro-tendenza rispetto alla maggior parte delle altre 26 Università italiane – che ad eccezione del Politecnico di Torino (305esimo, guadagna nove posizioni) e dell’Università di Modena e Reggio Emilia (690-700) o perdono terreno o restano nel gruppo 700+” http://www.repubblica.it/economia/2016/09/06/news/il_podio_delle_universita_e_tutto_americano_vince_il_mit-147228668/.

      Bologna 208esima, Padova 338esima, Firenze, Pisa, Napoli “Federico II” ed altri trai il 441esimo e 450esimo posto, mentre Siena veleggia oltre il 701esimo posto.

    • Il ministro dello Sviluppo economico Calenda:
      «per far crescere l’Industria 4.0 servono solo le università di eccellenza… coinvolgimento attivo di non più di 4 o 5 atenei. [Bisogna] accendere la sfida tra le Università. Non fabbrichi cambiamenti radicali se non parti dal primo anello della catena. I politecnici, gli atenei legati allo sviluppo di progetti innovativi per le aziende, saranno quelli su cui si andrà ad investire. Ci sarà una fortissima scelta sulle università di eccellenza (fatta insieme al ministro Stefania Giannini). Noi non ci possiamo permettere di dire che finanziamo tutti con bandi aperti alle università qualsiasi cosa facciano. Dobbiamo scegliere delle università all’interno della manifattura innovativa, dar loro i soldi, costruire un meccanismo mediante il quale solo queste 4 o 5 costruiscono competence center, dove le aziende possono lavorare insieme. E per entrare in questo gruppo devono scalare i rating, ma se passa questo principio non è che riceveranno finanziamenti per la distribuzione geografica degli atenei». http://www.linkiesta.it/it/article/2016/09/05/la-sfida-di-calenda-per-far-crescere-lindustria-40-servono-solo-le-uni/31674/

      …e degli altri che volete farne? Come si fa a scalare i rating se in un decennio di blocco del turnover hai perso metà del corpo docente, hai una dimensione che non ti consente di raggiungere quella massa critica necessaria per “scalare i rating” e parti dal settecentesimo posto nella classifica QS? Voglio dire, quello che traspare da questi ragionamenti, sempre più ricorrenti, è che diano oramai per spacciati oltre la metà degli atenei italiani. Ma se veramente la pensano così, si degnino almeno di seppellire il cadavere, considerando altresì che non tutti i senesi sono idioti rispetto a tutti i milanesi.

  2. Ah bene, scelgono in due. Si chiama democrazia.

    • Comunque se non vi garba l’ARWU normale c’è anche l’ARWU alternativa http://www.shanghairanking.com/Alternative_Ranking_Excluding_Award_Factor/Excluding_Award_Factor2015.html . No, non è roba per frikkettoni o per vegani; il senso è qui spiegato:

      «Il tradizionale Ranking Arwu prende in considerazione sei indicatori complessivi: i Premi Nobel e le Medaglie Fields ottenuti dagli alunni e dal corpo accademico, gli “Highly Cited Researchers”, gli articoli pubblicati in riviste scientifiche, gli articoli indicizzati nel Science Citation Index e nel Social Sciences Citation Index, il cosiddetto “rendimento pro capite” dell’istituzione. I primi due indicatori Arwu hanno spesso suscitato critiche, perché premi Nobel o medaglie Fields assegnati anche decine di anni fa (l’arco di tempo considerato sono gli ultimi 100 anni) possono far sì che un ateneo finisca in una posizione migliore di uno non “medagliato” ma con ottimi punteggi negli altri indicatori. Per questo l’Università di Shanghai ha deciso di stilare anche un “Alternative Ranking Excluding Award Factor”, cioè una classifica che non tiene conto dei Premi Nobel e delle Medaglie Fields» http://www.parmadaily.it/278272/unipr-nono-ateneo-italiano-per-lalternative-ranking-arwu/

      Tra le italiane, nell’ “Alternative Ranking Excluding Award Factor”, ci sono quattro università tra il 151° e il 200° posto (La Sapienza, Bologna, Milano e Padova), altre quattro tra il 201° e il 300° (Sant’Anna di Pisa, Normale di Pisa, Firenze, Torino, Parma), tra il 301° e il 400° (Politecnico di Milano, Federico II, Pisa, Milano Bicocca), e otto tra il 401° e il 500° (Cattolica, Ferrara, Genova, Palermo, Pavia, Perugia, Roma Tor Vergata, Trieste). Siena non si sa dove sia finita, in ogni caso fuori dalle top 500. Affoghiamo pure la delusione in una bottiglia di CENSIS, ma non tanto da perdere la lucidità e non domandarci qual è il nostro destino in un mondo così concepito.

    • P.S. Leggo questo interessante commento all’articolo succitato:

      «[L’università] sembra essere scomparsa dall’orizzonte degli interessi dell’opinione pubblica e della classe dirigente. Ormai ritenuta un corpo morto, nella quale immettere denaro equivale a buttarlo nel forno – come si sente continuamente ripetere – essa viene abbandonata a un destino di progressivo decadimento, di centro di istruzione di serie inferiore, in cui non si fa più ricerca, ma semmai si prepara alle professioni.» http://www.roars.it/online/primavera-o-autunno-delluniversita-italiana-2/

      I wasted time, and now doth time waste me
      (Shakespeare, Riccardo II)

  3. Il commento più sensato che ho letto in questi giorni è di Nicola Perrotti

    http://www.roars.it/online/sullhub-di-ricerca-nellarea-di-bagnoli/

    Credo che alla fine sarà adottato il modello francese

    http://www.rivistauniversitas.it/Articoli.aspx?IDC=2566

    • …almeno sarebbe una scelta, opinabile, ma dotata di senso: ebbene, è questo che segretamente bramano? Allora, come direbbe Totò, lo “faccino” (“quisquiglie e pinzillacchere, ma mi faccino il piacere!”), apertamente, in modo esplicito, non zitti-zitti e manzi-manzi, risolvendo tutti i problemi che una simile non lieve trasformazione solleva. Considerando, tra l’altro, che essa comporta movimenti di masse, che i film di Eisenstein è roba da ragazzi: come possono pensare di realizzare un simile progetto senza muovere niente, semplicemente lasciando morire l’esistente (e gli esistenti), per edificare un nuovo edificio sopra un cumulo di macerie? In questo paese ci si pasce di proclami, senza degnarsi di muovere le terga: vogliamo creare “l’uomo nuovo”, sì, ma dopo la pubblicità. Sarà domani, o forse dopodomani, o forse chissà. Tanto per restare in tema shakespeariano, “tomorrow, and tomorrow, and tomorrow…”

    • comunque alle volte questa gara ad entrare nelle classifiche ha dei risvolti esilaranti:

      “Università del Massachusetts, Standford e Harvard rispettivamente al primo, secondo e terzo posto nella graduatoria mondiale. Ma c’è spazio anche per la Statale di Brescia nella lista dei 3.800 atenei più competitivi a livello globale e stilata dalla Quacquarelli Symonds” http://www.quibrescia.it/cms/2016/09/07/atenei-mondiali-statale-tra-i-competitivi/

      I “primi 3800 atenei” mi pare una contradictio in adjecto”. Siamo seri: di codeste classifiche (QS, ARWU ecc.), se vogliamo prenderle in considerazione, contano al più i primi 500 posti, sebbene gli atenei veramente importanti a livello internazionale navighino entro i primi 200 o 300.

    • Notizie dal nostro fratello ciociaro:

      “Università di Cassino, ecco le lauree professionalizzanti…quel che conta è poi incanalare bene i futuri laureati nel modo del lavoro, per questo stiamo pensando di attuare le lauree professionalizzanti».
      Un anno di teoria, un anno di laboratorio e un anno on the job. Così sarà cadenzato il triennio delle future lauree professionalizzanti che saranno erogate dalle scuole universitarie professionali. Le Sup saranno create dagli stessi atenei, ma nella loro governance entreranno come partner il mondo produttivo, quello dei servizi e la Pa. «L’obiettivo è formare figure veramente necessarie alle imprese e al mondo delle professioni, questo progetto ha successo solo se garantiamo l’occupabilità» spiega il rettore Giovanni Betta.” http://www.ciociariaoggi.it/news/news/27386/universita-cassino-lauree-professionalizzanti-rettore-giovanni-betta.html

      Le lauree professionalizzanti, come le Fachhochsculen, sono oramai richieste a viva voce dappertutto. Ma alcune sedi, ho l’impressione, sono destinate a trasformarsi in toto in istituti professionali. Se letto in parallelo con le dichiarazioni di Calenda, con quelle di Renzi, con le sortite di esponenti dell’ANVUR, con i grandi movimenti in corso negli atenei del nord descritti da Andrea e con posizioni espresse dalla rettrice della Bicocca («Atenei troppo piccoli, non sanno cogliere i cambiamenti del lavoro»), si direbbe che “les jeux sont faits!” Ma come? Che ci fai con ciò che non rientra in questo progetto? Come fai a realizzare “hub” regionali con il perdurante particolarismo e la totale assenza di mobilità intrauniversitaria? E poi anche per spararti un colpo ti serve la pallottola. Ho già citato il caso del Burresi che chiede un corso di laurea professionalizzante in Agraria a Siena, ignaro del fatto che ti servirebbero (in forza delle leggi vigenti) più docenti di quelli che ti è consentito assumere per tutto l’ateneo. E non parliamo delle strutture!

  4. Penso che sia la tecnica chomskiana della rana che cuoce a poco a poco finché non ha più la forza di uscire dall’acqua bollente e muore: demolire da un giorno all’altro non è possibile in tempo di pace e poi farebbe troppo rumore. Iniziare a non sostituire i pensionati è già buono; lasciar poi morire alcuni settori favorendone altri nel reclutamento è meglio ancora (l’università assume qualcuno, ma cambia pelle), dare progressivamente peso a personale non docente, attribuire sempre più potere agli informatici. Un mattino ci si sveglia e scopriamo che la metà di quello che c’era 10 anni fa non c’è più. Allora è troppo tardi.

    • È vero ciò che dite, e pochissime università selezionate in solo alcuni dei loro settori in zone ad alta concentrazione industriale suona strana come riforma d’eccellenza.

      Alcuni rettori hanno già alzato la mano contro

      http://www.casilinanews.it/16101/attualita/industria4-0-universita-rischi-piano-calenda.html

      La Giannini disse: «Va bene risparmiare, ma è necessario anche investire dove è necessario…… Lo sforzo deve essere nazionale per metterci al passo degli standard europei e restituire competitività al Paese.»

      «Credo molto, e non solo per il sud, alle specializzazioni territoriali. ……. Non si può fare tutto, tutti, ovunque, nella stessa misura. Ci vuole il coraggio di scegliere su quali campi puntare».

      e poi questo è il perché credo che il modello francese, forse solo per il nord, potrebbe essere usato:

      «Al nord si concentrano le eccellenze, però, anche lì, aggregare, razionalizzare, accorpare ci renderebbe più competitivi in Europa».

      http://www.lastampa.it/2014/06/30/cultura/scuola/giannini-meno-burocrati-e-meno-potere-ai-baroni-per-salvare-luniversit-KzRswKPUGpRsdcRPFLzgxK/pagina.html

      Una intervista del 2014 certamente, ma questi passaggi non vi sembrano più che mai attuali? Dubito che sapevano quello che volevano fare già da allora, e zitti-zitti e manzi-manzi servono le brioches ai poveri una dopo l’altra….

    • Il piano “Industria 4.0” annunciato al Forum Ambrosetti dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, prevede che il Governo identifichi quattro o cinque università da finanziare per trasformarle in centri d’eccellenza nazionale. Il resto? Ciccia. Il CNU auspica “più sinergia tra le università” http://www.roars.it/online/documento-cnu-piu-sinergia-nel-sistema-universitario/. Insomma, degli accorpamenti tra atenei. E del resto è meglio accorpare degli atenei per ottenere la massa critica in ciascun settore, o addirittura creare centri di ricerca à la francese, totalmente separati che continuare con grandi minestroni entro un singolo ateneo per dar luogo a corsi di laurea frankensteiniani.

      La direzione di marcia è chiara: la costituzione di pochi agglomerati considerabili “Università” in senso proprio, attorniati da satelliti, che saranno un qualche cosa di simile a “teaching universities”, fornitrici di lauree brevi professionalizzanti, tipo “Community college” o “Fachhochschule” o roba del genere, con una separazione netta fra ricerca e didattica. Se il superamento del modello humboldtiano porterà all’individuazione di strutture separate per la ricerca, come in Francia, o addirittura alla netta distinzione degli atenei in “teaching” e “research university”, se pensano, al modello di specifiche grandes écoles cui affidare il compito di formare le élites, non è dato saperlo.

      Ma il come tutto ciò verrà realizzato non è indifferente. Siccome l’hanno avuta vinta i teorici di questa Endlösung del problema dell’università pubblica, vorrei solo sapere cosa intendono farne di chi per avventura si è trovato a lavorare in settori della ricerca che non saranno più coltivati fuori da pochi grandi atenei, non essendo riconvertibile, se non a concime. Il fatto che qui (a parte questo blog), mentre già si sta delineando questa inarrestabile metamorfosi si registri un silenzio assordante, rotto solamente, ogni tanto, da qualche infastidito “uffa!”, sarà forse dovuto ad una serena e consapevole accettazione stoica del Fato, ma probabilmente non ha torto Mary nell’evocare la “rana bollita” di Chomsky.

  5. Questa è la prova che i nostri ragionamenti vanno nella direzione giusta. Aggregazioni di atenei, il progetto UniVeneto per diventare uno dei Competence Center citati dal Ministro Calenda

    http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2016-09-09/universita-venete-rete-un-polo-industria-40-161610.shtml?uuid=ADFENnHB

  6. Invece, Riccaboni è convinto che uno dei “Competence Center” sarà Siena. «L’Università di Siena nel mese di settembre è protagonista di grandi iniziative che guardano al mondo e che portano Siena al centro delle relazioni e delle sfide per il futuro. “Di chi è il futuro?”». Organizzato dall’ente britannico per le relazioni culturali British Council e dall’Ambasciata Britannica in Italia.

    Angelo Riccaboni. «L’Università di Siena, proponendo in città queste grandi iniziative internazionali, conferma il suo ruolo di portatrice di innovazione, favorisce il dialogo e le connessioni. Il mondo diplomatico, gli opinion leader, i giornalisti, e soprattutto i giovani e le loro idee del futuro si incontrano e dialogano a Siena, esempio di città internazionale con un forte senso di comunità, dove già nel 1338 negli affreschi di Lorenzetti è stato rappresentato come le buone politiche possano fare la differenza per il benessere dei cittadini e della comunità.»

    • …mah! Non devi chiedere all’oste se il vino è buono, ma le chiacchiere un fan farina, e a me pare che Siena sia stata sommersa da un alluvione di chiacchiere inutili. La vida es sueño, ma qui non è chiaro chi viva nel mondo dei sogni. Oltre a richiamare i dati circa il dimezzamento dell’ateneo in questo blog abbondantemente discussi, le classifiche ARWU e simili, io cito Calenda:«Ci sarà una fortissima scelta sulle università di eccellenza (fatta insieme al ministro Stefania Giannini)… Noi non ci possiamo permettere di dire che finanziamo tutti con bandi aperti alle università qualsiasi cosa facciano. Dobbiamo scegliere delle università all’interno della manifattura innovativa, dar loro i soldi, costruire un meccanismo mediante il quale solo queste 4 o 5 costruiscono competence center, dove le aziende possono lavorare insieme. E per entrare in questo gruppo devono scalare i rating, ma se passa questo principio non è che riceveranno finanziamenti per la distribuzione geografica degli atenei». Che Siena passi avanti a Milano, Padova, Pisa, Torino ed i grossi agglomerati della ricerca scientifica e tecnologica che si vanno costituendo a Nord, sui quali ha posto l’attenzione Andrea, mi pare altamente improbabile.

      Ora, è chiaro a chi sia poco men che orbo che si sta andando in questa direzione. Può darsi che il tutto si risolva, come temo, in una fregatura, cioè in un ritorno all’università di classe appannaggio della borghesia del nord e in una mortificazione della “inutile” ricerca di base non immediatamente traducibile in progetti appetibili all’industria, nonché in una definitiva cancellazione dall’orizzonte universitario della maggior parte degli atenei statali di tutto ciò che puzzi di cultura. O può darsi di no. Ma il modo in cui questo progetto si fa strada lascia allibiti: è chiaro che se vuoi fare, ad esempio, uno “hub” toscano, come da più parti ventilato, non vuoi semplicemente chiudere Siena, o ridurla al rango di “teaching university”, come sostiene il prof. Barucci, devi innanzitutto, in sede locale, mandare a quel paese – e non assecondare – quelli che, con singolare anacronismo, ignorando le leggi dello stato e le quattro operazioni, ancora si ostinano perché vogliono il loro piccolo feudo doppione nella sede distaccata di Vattelappesca; perché non puoi coltivare l’ambizione di solcare gli oceani ed affogare in un bicchier d’acqua. Poi, naturalmente, devi abolire l’autonomia universitaria, giacché quella che prospetti è una fusione di atenei. Devi vigilare affinché il tutto non si risolva nel fatto che il pesce grosso mangia quello piccolo. Indi, devi specificare in quale sede si studiano e si coltivano certe materie e di conseguenza imporre la mobilità dei docenti. Tutto ciò – purtroppo o meno male – è di là da venire. Da parte delle autorità centrali si pensa che basti togliere i viveri agli atenei medio-piccoli, costringendo i giovani più promettenti alla fuga per mai più ritornar, mandando in pensione i vecchi e passando col rullo compressore sopra quelli di mezz’età. Da parte delle autorità locali si pensa che basti negare l’evidenza.

      Vuoi fare la ricerca? Ti servono risorse umane. È chiaro che per produrre la ricerca di un certo rilievo in chimica non ti basta un chimico, per la ricerca in campo oncologico non ti basta un medico, così come per la ricerca in fisica non ti basta un fisico e così via, anche perché le aree scientifiche hanno una loro articolazione interna ed uno specialista di algebra non è uno specialista in analisi. Insomma, se vuoi fare ricerca, in qualsiasi campo, devi creare gruppi di ricerca dotati di “massa critica” e soprattutto devi dare una qualche prospettiva ai giovani. È questo, ad esempio, il senso della separazione didattica/ricerca in certi paesi come la Francia: avere dei centri di ricerca dotati di “massa critica”. Un modello tutto diverso da quello tradizionale italiano, dove le competenze erano diffuse, ma fino a qualche decennio fa, non isolate. Se il tuo obiettivo è proiettare il tuo ateneo ai vertici di classifiche galattiche assieme alle stelle del firmamento mondiale della ricerca, non è che puoi ragionare, come si dice in musica, “a parti reali” (dove la partitura prevede venti violini, ne metti uno, come rappresentante ecc.) dicendo che il tuo ateneo coltiva la ricerca in una certa disciplina perché c’è un solo sparuto professore pensionando, che non lascerà eredi e una “scuola”, ad insegnarla.

      Ora, a parte certi casi eclatanti, peraltro non riconducibili ad esigenze della ricerca o della didattica (caso estremo, allo scoppio del buco c’erano 22 professori in un certo settore diciplinare, visitare il sito http://cercauniversita.cineca.it/php5/docenti/cerca.php per credere), a parte certe aree sulle quali si dice di voler puntare, come la “scienze della vita”, si vede facilmente che qui a Siena molte altre aree scientifiche basilari si sono svuotate e i pochi sopravvissuti non sono in grado di sostenere né la didattica (vedi capitolo dei “requisiti minimi”), né la ricerca. Ergo, vengono “accorpati”, ma secondo l’ottica dell’ “hub”, viceversa, mi par di capire, i pochi rimasti dovrebbero essere piuttosto trasferiti in altra sede toscana a rinforzare il settore, non certo tenuti in sede a dar luogo a fusioni orgiastiche e talvolta senza capo né coda. A meno che non si ritenga che nelle sedi più piccole siano tutti così cretini, da non essere associabili ad un progetto scientifico di alto livello. In tal caso l’unica soluzione è farci il sapone.

      Tuttavia, benché con insistenza si parli di costituzione di questi benedetti/maledetti hub anche la prospettiva di iniziare una collaborazione tra atenei è aborrita dai più, da un lato perché quelli più grossi, “scrafiandoli”, non si confondono con quelli più piccini, dall’altro perché quelli più piccini paventano la Anschluss da parte di quelli più grossi. Lo stato non interviene e lascia fare e i rettori tacciono: ma allora si può sapere che cacchio vogliono fare?
      Insomma, io di questo grande progetto degli “hub” al momento intravedo solo la pars destruens, cioè la lenta asfissia degli atenei che non rientrano in questo cono di luce. Accompagnata da musiche allegre colme di ottimismo come la musica da funerale jazz di New Orleans.

    • così parlò la rettrice della Bicocca:

      «Atenei troppo piccoli, non sanno cogliere i cambiamenti del lavoro. Non c’è una Harvard italiana, ma tante eccellenze sparse nelle varie università, che spesso sono anche piccole. Così nessun Ateneo o quasi riesce a emergere. Inutile dire che non riusciamo se non raramente a fare rete, ognuno va per conto suo e perora la propria causa. L’Università da noi funzionava quando era un cenacolo di pochi studiosi, di un’élite che faceva vera scienza, oggi che la domanda è diversa, che la società è cambiata e che la sfida è aprire più possibile il sapere, stiamo perdendo la partita». http://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/atenei-troppo-piccoli-non-sanno-cogliere-i-cambiamenti-del-lavoro.flc

      …mi inquieta un po’ quel “oggi la domanda è diversa”, contrapposto a “la vera scienza”, ma oramai mi pare evidente quale sia la diagnosi e quale sia la prognosi da parte dell’establishement.

  7. Bisognerebbe infatti tornare al xiv secolo. Almeno non sentiremmo questo orrido inglese, ma un dialetto magnifico.

  8. Sono riusciti a ottenere quello che volevano: meno gente che studia.

    • Mi viene in mente un racconto di mio zio: un suo collega (operaio metalmeccanico come lui) negli anni ’80 aveva il figlio che studiava ingegneria a Torino nelle stesso corso di laurea del figlio del “padrone”. Il “padrone” non si capacitava e non si dava pace sul perché alla fine i due ragazzi si trovassero nella stessa posizione sebbene appartenenti a due ceti sociali differenti. Senza mezzi termini diceva davanti al suo dipendente che presto la pacchia finiva, imprecando e alzando la voce sulla linea di montaggio “deve finire qui sta cosa, il figlio del mio operaio ingengere come il mio, ma scherziamo!!”. Temeva che i figli dei “perdaballe” (come amabilmente li definiva, anche vis à vis) messi in condizione di potersi esprimere potevano rovesciare in una generazione lo status quo ottenuto.

      Ecco, quella visione retrograda, di una società ingessata e tesa a mantenere l’ordine dato sta lentamente venendo a galla.

    • …Come dice la rettrice della Bicocca, gli atenei troppo piccoli non vanno da nessuna parte: è definitivamente sepolta l’ideologia del “piccolo è bello”. Sempre sulla stessa falsariga, leggo su un giornale di ieri (mi pare che il fatto fosse già stato segnalato da Andrea):

      Al Parco Vega il nuovo “hub” dell’innovazione tecnologica “Le università di Venezia e Padova insieme allo Iuav avviano nel polo scientifico un nuovo progetto di relazione tra imprese e ricercatori. La concorrenza è finita, finalmente gli atenei universitari di Venezia e Padova si alleano e si mettono in rete per creare al Parco tecnologico scientifico Vega di Porto Marghera «nuovi modelli di business attraverso la ricerca e la tecnologia».”

      Gli atenei medio-piccoli, specie se in una situazione di equilibrio instabile di bilancio come quello senese, potranno riprendere il turnover col contagocce, una boccata d’ossigeno che dubito possa compensare l’emorragia di pensionamenti, mentre i grandi atenei del nord si avvieranno ad una graduale normalizzazione. Questo è il trend, la tendenza, l’andazzo, dopo dieci anni di blocco del turnover e delle carriere. Assieme all’idea che nessun aspetto della cultura serva a qualche cosa, e pertanto debba trovar posto nell’università pubblica. Anche se, a mio avviso, tra l’affermazione che vi sono troppi laureati in lettere e l’affermazione che si debba far tabula rasa di ogni aspetto della cultura non immediatamente traducibile in soldoni, ce ne corre.

      In ogni caso la fregola della cultura e della scienza pura non è cosa che debba interessare i giovanotti della middle-class di provincia, che devono solo essere “dekirkegardizzati” ed immessi nella produzione (“Dekirkegardizzava farabuttelli di provincia incanalandoli a lavorare in città, detta l’Urbe, dopo avergli deterso l’anima dalle ultime perplessità” – C.E. Gadda). Ammesso che poi facciano le fabbriche o non le portino in Romania. Come ripeto, più che la separazione netta fra ricerca ed insegnamento, più che la distinzione fra università e Fachhoschule (e similia), mi spaventa il modo in cui si sta tentando di attuare questo progetto, dove la sventolata “meritocrazia”, la valorizzazione delle competenze e l’ascensore sociale paiono poco più che un racconto da favole esopico-giavazziane.

  9. Anche a me viene in mente un “ora maturo ingegnere”, figlio di un operaio e una casalinga dialettofoni: fu caldamente consigliato di fare il liceo classico (liceo statale di periferia, che ha visto passare migliaia di ragazzi diciamo ‘proletari’). Gira ora per il mondo con una ricca e avanzata impresa di costruzioni. Oggi gli consiglierebbero di fare l’alberghiero per imparare a servire i turisti stranieri. Mi sembra che qualche prestigioso economista lo abbia pure teorizzato come inevitabile destino della gioventù italiana. Bisognerebbe davvero mandarli tutti a casa perché ci stanno suicidando.

  10. Dopo il Veneto, anche in Piemonte iniziano le manovre per industria 4.0

    http://www.lospiffero.com/ls_article.php?id=29307

    • “Documento CNU: più sinergia nel sistema universitario”

      “La sfida di Calenda: per far crescere l’Industria 4.0 servono solo le università di eccellenza… coinvolgimento attivo di non più di 4 o 5 atenei. ”

      “La rettrice dell’università Bicocca di Milano, Cristina Messa: «Atenei troppo piccoli, non sanno cogliere i cambiamenti del lavoro»”

      “Al Parco Vega il nuovo “hub” dell’innovazione tecnologica. Le univestità di Venezia e Padova insieme allo Iuav avviano nel polo scientifico.”

      Ecco, anche i sordi hanno capito: non è un affare per nani, gli atenei medio-piccoli sono destinati a sparire o diventare sedi distaccate. Lenta asfissia o metamorfosi. Si sono addormentati atenei generalisti, si sono svegliati “teaching university” o istituto professionale. Si auspica la fusione, o almeno la integrazione fra università che insistono sullo stesso territorio. Altrimenti, attaccatevi al tram. Il tutto è lasciato ipocritamente all’ “autonomia” ed alla iniziativa spontanea dei singoli atenei. Quasi che l’università di cui si è più volte denunciata la struttura rigidamente gerarchica baronale, il particolarismo litigioso ed il nepotismo fosse tutto a un tratto diventata una istituzione democratica 🙂

      Molti politici locali di tutto ciò sono ignari e parlano a ruota libera. Leggo ad esempio questa notizia “Sviluppo settore agroalimentare, Burresi: L’Università attivi un corso di studi in agraria”http://www.antennaradioesse.it/sviluppo-settore-agroalimentare-burresi-luniversita-attivi-un-corso-di-studi-in-agraria/. Ma che bella idea, chi ci avrebbe mai pensato: e i docenti dove li trovi? Ma “col nostro lavoro”, naturalmente! Voglio dire, una ventina di docenti di ruolo, quelli che ti ci vogliono, è tutto ciò che L’INTERO ATENEO, se va bene, riuscirà ad avere nei prossimi cinque o sei anni, in forza dei punti-organico ricevuti. E naturalmente non ci sono solo i docenti: ci sono le strutture.

      Esilaranti questi politici ganzi che propongono l’apertura di nuovi e più utili (atteso che i presenti sono inutili) corsi di studio, mentre se ne sono chiusi e ne stiamo chiudendo decine su decine. Pare che ignorino il fatto che il turnover è fermo da dieci anni, e che a Siena riprenderà nei prossimi anni col contagocce, a fronte dell’esodo di 500 docenti dallo scoppio del “buco”, mentre solo in atenei grandi il triplo e dai più solidi bilanci la situazione si dovrebbe gradualmente normalizzare. Tutto ciò non lo decidi tu, i “punti organico” che ti toccano, i “requisiti minimi” da soddisfare per aprire un corso di studio od un dipartimento, ma il ministero, in forza di quelle leggi che quegli stessi politici hanno varato. A meno che–in cauda venenum–Burresi non dia per scontata la Anschluss di Siena a Firenze o Pisa, dove esistono dipartimenti di Agraria, università che forse accetterebbero volentieri una dependance nelle campagne senesi.

      Leggo infine che un professore senese di archeologia classica è nuovo direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene. La qual cosa mi fa un enorme piacere, come contrappasso, in considerazione del fatto che oramai a Siena tutto ciò che puzza di cultura di un certo livello è messo al bando e alla gogna come “inutile”. Ma come si conciliano le due cose? Dobbiamo intendere che in futuro non vi sarà MAI PIÙ un giovane archeologo che potrà ambire ad una simile carriera?

  11. ps. purtroppo, inconsapevolmente, forse, Burresi rivela una profonda verità: ossia che un ateneo in crisi, o lo rilanci, o lo sopprimi. Non può continuare una lenta agonia, assistendo alla chiusura, ad una ad una, delle sue specializzazioni ed aree scientifiche, con un destino certo procrastinato a forza di flebo. Ma è del tutto evidente che quella di investire soldi che non ha non è una decisione che possa prendere un singolo ateneo, né un rettore ha facoltà di assumere al di là di quei “punti organico” che gli toccano. Deve essere lo stato a dirci cosa vuol farne del sistema universitario, e se oramai è deciso l’accorpamento di atenei, allora che si proceda, cosicché anche il Burresi avrà la sede distaccata di Agraria dello “hub toscano”.

  12. Come fai a realizzare “hub” regionali con il perdurante particolarismo e la totale assenza di mobilità intrauniversitaria?

    http://www.lastampa.it/2016/07/28/edizioni/alessandria/le-universit-e-il-politecnico-potranno-scambiarsi-gli-studenti-Hwx70sFGaAXO7KwsQc71bI/pagina.html

    Il Piano Italia 4.0, come ha anticipato Il Sole 24 Ore, è il progetto che il governo Renzi intende inserire nella Legge di stabilità 2017 per favorire il trasferimento tecnologico tra atenei e mondo dell’impresa, individuando alcuni poli da finanziare sul territorio nazionale, chiamati “competence center”: Milano, Torino, Bari, Bologna e Pisa le università individuate dal governo, secondo le anticipazioni. Esclusi gli atenei veneti.

    http://www.venetoeconomia.it/2016/09/piano-italia-4-0-zuccato-unipd/

    • ARWU RANKING
      Università in crisi, gli Atenei italiani perdono posizioni nelle classifiche.

      Nell’annuale rilevazione dell’Istituto di Shanghai nessuna sorpresa e solo un’Università, la Sapienza, tra le prime 200.

      (Corriere della Sera)

      L’asino aveva quasi imparato a digiunare, ma non si sa per quale ragione d’improvviso ha cominciato a stare poco bene. Comunque tutto congiura ad un medesimo disegno: visto che soldi da buttare nel sistema peggio finanziato d’Europa (7 miliardi a fronte dei 26 miliardi della Germania) non ce ne sono, l’unica strada si ritiene essere quella di rinforzare i grandi atenei per partecipare alla grande competizione internazionale, a scapito degli atenei medio-piccoli, o più scadenti, che scenderanno di rango ed andranno a costituire sedi distaccate, specie di Fachhochschulen professionalizzanti, fornitrici di lauree brevi senza velleità di prosecuzione degli studi, per questi giovanotti gaddianamente “dekirkegardizzati”:
      “Brindisi, polo delle lauree professionalizzanti”“ http://www.brindisireport.it/politica/brindisi-polo-delle-lauree-professionalizzanti.html

      “Il futuro dell’Università dovrà andare sempre più verso simili lauree professionalizzanti” http://www.perugiatoday.it/economia/laurea-triennale-economia-turismo-2016-2017.html

      “la struttura dell’offerta formativa, che sconta la storicamente scarsa presenza di percorsi brevi e professionalizzanti atti a soddisfare le esigenze degli studenti con un profilo meno accademico”
      https://fondazionenenni.wordpress.com/2016/09/10/italia-il-paese-in-cui-la-laurea-rende-meno/

      Il Piano Italia 4.0, che il governo Renzi, ricorda Andrea, intende inserire nella Legge di stabilità 2017, mira a favorire il trasferimento tecnologico tra atenei e mondo dell’impresa, ed individua a ciò alcuni poli, assi portanti, chiamati “competence center”, che sono Milano, Torino, Bari, Bologna e Pisa. Non senza ragione si lamenta Padova, “nonostante il primato nella valutazione dell’ANVUR sulla qualità della ricerca”, e di certo non sfigurerebbe in questa scelta élite. Immagino che Roma non sarà contenta, brandendo invece l’ARWU, ma gli altri?

      Leggo che potrebbe arrivare un premio pecuniario speciale alle università che sono riuscite a distinguersi, ottenendo risultati elevati nella classifica di valutazione dell’ANVUR, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca. Immagino che tale premio sarà più alto, quanto più in su nella graduatoria uno si trova: ma se un ateneo come Pisa ha tre volte più ricercatori di uno come Siena, già si immagina chi prenderà la fetta più grossa. Comunque questo è il trend, ovvero l’andazzo: i grassi, ingrassano e i magri, dimagriscono e non è chiaro come possa risollevarsi un ateneo che ha subito pesanti batoste come questo. Voglio dire, ma che aspettano a mettere in atto questo oramai conclamato proposito di separazione tra “teaching university” e “research university”, oppure l’accorpamento di atenei, come suggeriscono altri, se veramente ci credono? Nel frattempo Human Technopole riceve 80 milioni per l’avvio del progetto.

      Ritornando a Siena, ex ateneo semigeneralista, almeno un terzo dei docenti sopravvissuti alla decimazione di quasi la metà del personale docente non sono sensatamente riconvertibili ad una prospettiva di Fachhochschule o roba del genere, né tutti hanno la fortuna di andare in pensione a breve: devono asceticamente rimanere a contemplare i vari stadi di decomposizione, dalla putrefazione sino alla sua riduzione allo stato di polvere? E anche per istituire corsi professionalizzanti, per esempio in Agronomia, come chiede il Burresi (proposta in sé, astrattamente, sensata, visto che qui aziende di altro tipo essenzialmente non ve ne sono), i mezzi e il personale, dove e come ve li procurate, stanti gli attuali rigidissimi vincoli sul bilancio, sui requisiti di docenza e sul turnover? O veramente pensate di riconvertire un latinista (Tityre, tu patulae…molto bucolico) alla suinicoltura?

      Qualcuno, anni addietro, se ben ricordo, aveva ipotizzato di costituire a Siena corsi professionalizzanti attraverso succursali telematiche, non già di Firenze o di Pisa, bensì addirittura di Milano. Del resto, si diceva, con l’aiuto della rete, la distanza non conta e non serve personale aggiuntivo, cosicché pure i requisiti di docenza, magari, sono a posto. Un’idea molto moderna, che potremmo applicare nel campo dell’agricoltura soddisfacendo al contempo l’anelito del Burresi e i draconiani vincoli del governo: una università telematica dove si impara a coltivare i campi su internet. Invece che “Vita e salute”, come il San Raffaele a Milano, questa università la potremmo chiamare “Salute e ghianda”.

  13. […] Piano Italia 4.0, che il governo Renzi intende inserire nella Legge di stabilità 2017, mira a favorire il trasferimento tecnologico tra atenei e mondo […]

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