E nelle università esiste il marketing?

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All’inaugurazione dell’Anno Accademico 2005/’06 dell’Università di Siena, lo studente Turriziani dichiarò: «”Meno marketing e più servizi agli studenti” non dovrà essere uno slogan ma un imperativo. Non si può tollerare la situazione di sofferenza delle segreterie studenti mentre si assumono con procedure discutibili giornalisti e veline». Si riferiva alla gigantesca Area “Centro Comunicazione e Marketing” dell’ateneo – con i suoi 14 uffici, 48 unità di personale, capacità di spesa illimitata e la prassi consolidata di tenere all’oscuro di tutto il CdA – che ha contribuito non poco a generare la voragine nei conti. Ormai, il “sapere” e il titolo di studio sono diventati prodotti da consumare, merce da vendere, confermando così la recente riflessione amara di Gianluca Vago «sul ruolo della formazione – sia superiore che universitaria – che rischia di prendere una “deriva commerciale e quantitativa”, dove si studia per avere i crediti formativi e non per la conoscenza.»

Il mio fruttivendolo, ovvero: il marketing non esiste esiste il mercato (Da: Simplicissimus, 1/2/2017)

Antonio Tombolini. Il fruttivendolo ambulante qui da me, a Loreto, viene tutti i venerdì, quando c’è il mercato. Da una vita. Non fa mailing preventivo per stimolare la domanda. Non targettizza il suo mercato secondo criteri psico-socio-demografici. Non si rivolge a me dicendomi ‘Gentile Cliente’, o ‘Cara Amica, caro Amico’. Naturalmente si guarda bene dal fare spot alla televisione, o dall’insozzare tutti i muri della città con manifesti. O dall’appiccicarli su appositi pannelli tirati su davanti ai più bei palazzi della mia città. Non mi manda sms a tradimento. Né tenta di ‘fidelizzarmi’. Non mi vende uno ‘stile di vita’ con le sue cipolle. Se le mele che ho comprato la settimana prima non erano buone come al solito (o anche soltanto se secondo me non erano buone come al solito) mi ridà i soldi, o altra frutta in cambio. Se però capisce che io sono uno stronzo che ci marcia, non mi dà ragione solo perché sono un cliente, ma mi manda affanculo che tutti sentano, dicendomi di non farmi vedere più. Il mio fruttivendolo non mi fa rispondere a sondaggi idioti. Non fa ricerche di mercato. La sua vita è una ricerca, di sul e col mercato. Non ha una ‘mission’. Non gli interessa niente del posizionamento strategico.

Mi vende cipolle da una vita, e non mi ha mai chiesto che mestiere faccio. Non mi ha mai chiesto quanti anni ho. Non mi ha mai chiesto il mio titolo di studio. Non mi ha mai chiesto se sono sposato. Non mi ha mai chiesto se ho figli. Non mi ha mai chiesto quanto cazzo guadagno. Non mi ha mai chiesto che macchina ho. Non mi ha mai chiesto se viaggio o non viaggio. Non mi ha mai chiesto il permesso per usare i miei dati ai sensi della legge sulla praivasi.

A me il marketing non piace, penso che sia sbagliato. A me piace di più il mercante appassionato di qualcosa che va a cercare, che compra, e che poi porta in piazza raccontando a tutti le meraviglie di ciò che ha trovato. Il marketing corrisponde alla struttura ‘intrinsecamente invasiva’ della società di massa: produzione di massa, comunicazione di massa, consumi di massa. E come ogni realtà invasiva, tendenzialmente violenta. Il linguaggio è sempre un buon rivelatore. A me non piace il linguaggio del marketing. Mi piace invece il linguaggio diretto e autentico, che va al cuore delle cose. Mi piace la parola ‘venditore’, mi piace la parola ‘compratore’, mi piace la parola ‘commerciante’, mi piace la parola ‘bottega’, mi piace la parola ‘bottegaio’, mi piace la parola ‘bancarella’, mi piace la parola ‘mercato’, mi piace la parola ‘soldi’, mi piace la parola ‘sconto’ quando sono compratore, non mi piace quando sono venditore. Mi piace la parola ‘prezzo’, mi piace la parola ‘grazie!’. Il mio fruttivendolo ambulante non sa neanche cosa sia la concorrenza. Gli ambulanti che hanno la bancarella attaccata alla sua e vendono le sue stesse cose sono i suoi migliori amici.

Che strano il mercato, eh?

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