La verità, vi prego, sull’Università (Il Sole 24 Ore)
Dario Braga. In questi giorni le Università stanno raccogliendo le opinioni degli studenti sulle attività didattiche. A chi presenzia alle lezioni viene chiesto di rispondere a una serie di domande sulla qualità degli insegnamenti, sulla chiarezza espositiva del docente, sull’interesse verso la materia e sulle strutture a disposizione. È un rituale di valutazione che si ripete a ogni semestre. Prescindendo dal giudizio che si dà a un sistema di valutazione basato su una “istantanea” di un corpo studentesco che frequenta a piacere e che raramente studia durante il periodo di lezioni (si veda Il Sole 24 Ore del 27 dicembre 2016) si tratta di domande importanti. Importanti sono le conseguenze delle risposte, visto che sempre più spesso i risultati dei questionari sono utilizzati dalle “governance” degli atenei per assegnare risorse e/o riorganizzare corsi di studio e/o per le progressioni di carriera.
Ma cosa sanno veramente gli studenti dei loro professori e della loro università? Poco si direbbe. Non deve sorprendere. Il Paese intero non conosce la sua università. Lo si capisce dai commenti, dai social network, e anche dalle dichiarazioni di molti politici e dagli articoli di tanti giornalisti. Non ne conosce la struttura – si parla ancora di istituti e di facoltà e persino di assistenti universitari che non esistono più da quarant’anni – né la organizzazione – si parla di ricercatori e in quello intendendo tutto, dal dottorando, all’assegnista, al postdoc internazionale, al ricercatore di “tipo A” o di “tipo B”, ecc. La confusione è tanta e il rincorrersi e accavallarsi delle norme sugli accessi e sulla docenza non aiutano.
Circolano idee confuse sulla didattica, e sulla stessa struttura dell’insegnamento, e quindi anche sui diritti e sui doveri degli studenti e dei docenti. Poco o nulla si sa della amministrazione e della organizzazione del lavoro del personale tecnico e amministrativo. Le notizie sugli stipendi dei professori e dei ricercatori e sulla struttura del lavoro universitario dal reclutamento alla pensione sono contraddittorie. Pagati poco, pagati troppo, poche tutele, troppi privilegi. Molti luoghi comuni alimentati a volte dall’ignoranza, a volte dai preconcetti, a volte dalla malizia.
E infatti sarebbe utile, prima ancora di chiedere agli studenti una opinione sui corsi, spiegare loro come è organizzata l’università. Non solo che cosa sono il 3+2, gli esami, o la laurea – queste cose le sanno – ma proprio come funziona l’università.
Diciamo agli studenti quante ore insegniamo e in quanti corsi, quante ore servono per il loro ricevimento e per la loro valutazione (esami, tesi, ecc.) e quante per preparare le lezioni e quanto tempo va nella ordinaria burocrazia, perché serve un Consiglio di dipartimento per certe decisioni, e un Consiglio di corso di studio o un Collegio di dottorato per altre. Che cosa fanno rettore, Senato accademico e Consiglio di amministrazione.
Mostriamo agli studenti le forchette degli stipendi del personale, dal dipendente di categoria C al professore ordinario a fine carriera (non “lordo ente”, “lordo percipiente” ma il netto mensile, quello che finisce nel conto corrente, ecc.). Lasciamo che siano le studentesse e gli studenti a giudicare con la loro testa se sono stipendi alti o bassi. Lasciamo che li confrontino con quelli dei loro genitori. Spieghiamo la differenza tra un dottorando e un assegnista di ricerca e qual è l’importo delle borse e cosa è garantito e cosa no e come ci si procura i finanziamenti per fare ricerca.
Spieghiamo loro – con l’invito a raccontarlo a casa ai propri genitori – che le tasse che loro pagano contribuiscono per circa il 20 per cento del costo globale della università e che il resto è finanziato dai “tax payer” anche da quelli che non mandano figli all’università, anche da quelli che guadagnano poco. Chi paga le tasse garantisce, suo malgrado, l’università anche ai figli di chi le tasse le evade.
Raccontiamo loro come si “entra all’università” – e quanto tempo e quanta passione e quanta determinazione è richiesta. Spieghiamo come si passa da un gradino all’altro della carriera (concorsi e abilitazioni) al di là delle cronache dei giornali. Nel fare questo ricordiamo loro che l’Università non è solo malversazione e mal costume come può sembrare dai quotidiani e dai social. L’università dei capaci e meritevoli non va sui giornali, ma è in aula e nei laboratori tutti i giorni.
Se qualcuno sta pensando «tempo sprecato, tanto non gliene importa nulla», si sbaglia. Chi ha provato a farlo è rimasto sorpreso. Gli studenti sono curiosi. Provare per credere. La proposta è anche una provocazione. Tra le tante lezioni, perché non dedicare un’ora, anche una ora sola, per parlare di università con gli studenti ?
Cominciamo noi docenti a trattare gli studenti come componenti della comunità accademica e non come clienti. Avremo allargato l’area di conoscenza del “pianeta università” e li avremo anche messi nella condizione di comprendere meglio il lavoro dei loro docenti.
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Leggo sul sito ROARS questo documento congiunto dell’Accademia delle scienze francese, la Royal Society Britannica e la tedesca accademia Leopoldina:
«La valutazione [dei docenti] deve esser basata sulla revisione dei pari messa in atto da esperti che lavorino secondo i più elevati standard etici e deve focalizzarsi sui meriti intellettuali e sui risultati scientifici. I dati bibliometrici non devono essere usati come sostituti della valutazione degli esperti. È essenziale che i giudizi siano ben fondati. L’enfasi eccessiva sui parametri quantitativi può danneggiare seriamente la creatività scientifica e l’originalità. Gli esperti devono essere considerati una risorsa preziosa».
Che dire del delirio burocratico-numerologico che viceversa ha di recente pervaso le valutazioni dei docenti alla ricerca di una non di rado truffaldina “oggettività”?
Notizia di oggi:
«Sono quattro i dipartimenti di eccellenza dell’Università di Siena entrati nella lista dei 180 dipartimenti che otterranno fondi straordinari dal Miur nel quinquennio 2018-2022, ripartendosi 271 milioni di euro complessivi previsti annualmente, secondo quanto stabilito dalla legge di bilancio 2017. Gli esiti della selezione, molto attesi, sono stati resi noti questa sera dal Ministero. I dipartimenti premiati sono Biotecnologie, chimica e farmacia, Biotecnologie mediche, Filologia e critica delle letterature antiche e moderne, Scienze sociali, politiche e cognitive, sulla base di progetti di alto valore scientifico elaborati e presentati nei mesi scorsi, e successivamente valutati da una commissione di sette esperti individuati dal ministero in collaborazione con ANVUR.» (il Cittadino online)
Complimenti senza dubbio ai vincitori dei “ludi dipartimentali”, ultima gara dei ludi cartacei che hanno occupato gli atenei a tempo pieno in questi anni. Rimane il dubbio di fondo sul fatto che un medico non dovrebbe “giudicare” il paziente, premiandolo se è sano. Così la politica universitaria dovrebbe considerare le aree scientifiche in pesante sofferenza e valutare se culturalmente e strategicamente è il caso di curarle, piuttosto che limitarsi a giudicarle negativamente. Insomma, dovrebbe avere una visione. Molte aree scientifiche sono prossime alla scomparsa: mi chiedo se la politica universitaria, abdicando al suo ruolo, debba intervenire solo post mortem e limitarsi al ruolo di becchino, affiggendo manifesti funebri alla memoria del “caro estinto”, una volta constatato il decesso.
Fermo restando che dopo lo scioglimento delle Facoltà, dai nomi di molti nuovi dipartimenti non si capisce nemmeno quale ne sia il contenuto effettivo (e mi metto nei panni di un referee neozelandese di una rivista, che in calce ad un articolo legga l’affiliazione dell’autore), nelle condizioni in cui sono ridotti, molti settori che fanno parte di questi contenitori non sono più in grado di competere con le corazzate di grandi atenei. Si intravede per essi solo una lenta agonia ed una sopravvivenza grama in una posizione ancillare. Mi domando se non sarebbe meglio chiuderli definitivamente e dislocare altrove chi vi lavora, e qui tornano utili le considerazioni fatte in precedenti messaggi intorno alla necessità di una “massa critica” per produrre qualità. Ma il punto è che che il giudizio pare irreversibile in aeternum: un meccanismo che si autoalimenta, per cui ai “ludi” prossimi venturi vinceranno sempre i soliti. Questa continua accentuazione dei divari esistenti, finanziando alcuni dipartimenti a danno degli altri (ulteriormente indeboliti dunque in modo deliberato), finisce difatti per chiamare inevitabilmente in causa il destino dell’intero sistema degli atenei, questione che non può più essere elusa. Dice giustamente Viesti:
«un gruppo di tecnocrati “illuminati”… in base alla conoscenza che solo essi hanno del Bene e del Male, perseguono un disegno politico-ideologico (assai simile nelle sue linee ispiratrici a quello del partito conservatore britannico) volto ad un radicale ridisegno del sistema dell’istruzione superiore, che concentra risorse su poche sedi da essi prescelte, e destina misure compassionevoli alle altre, caratterizzate “da disabilità”, secondo l’espressione coniata da (due membri del) direttivo ANVUR.» https://www.roars.it/online/a-proposito-dei-dipartimenti-di-eccellenza-e-di-quelli-disabili/
Intervengo in ritardo ma mi sembra importante: una mia collega che non ha mai mancato una lezione, si ritrova scritto sui questionari che ‘talvolta non si è presentata a lezione’. Molto seccata, indaga tra gli studenti e viene fuori che alcuni non frequentanti, non sapendo cosa rispondere al questionario dal momento che non erano in classe, hanno barrato delle caselle NO al posto di NON SO.
Ora, come facciamo a tutelarci da questi falsi che addirittura danneggiano la reputazione del docente?
Qualcuno dei soloni ci ha pensato?
Sarebbero casi da denuncia.
cara Mary,
leggo su ROARS che questo è il linguaggio in cui si esprime il MIUR:
“Personal model canvas, giochi di ruolo, quiz individuali”; il “Silent coaching per stimolare l’autoconsapevolezza”, oltre a (più banali) “visite guidate in impresa”. Nel secondo, l’allievo deve “comprendere i principali trend tecnologici”, “analizzare il contesto e coinvolgere gli stakeholder di riferimento” attorno alla sua idea. Attività didattiche: “Case histories”, “schede SWOT di valutazione di idee imprenditoriali”, “Innovation e Creativity Camp o Startup bootcamps”, “Hackaton” “incontri di co-creazione anche su format di matchmaking”; “Personas”. … “team building”, la “leadership”, il “design thinking” il “Business model plan e canvas”, la “lean startup”, da sviluppare con attività didattiche come il “Brainstorming, “simulazioni di selezione del personale”…. ”fundraising”, “budget”, “marketing e growth hacking”, “strumenti di comunicazione”, “internazionalizzazione”, contabilità, prezzi e potere d’acquisto, monete e criptovalute; finanza e fintech, gestione del budget. Attività didattiche: “simulazioni di crowfunding”, “esercizi di digital marketing”, di “promozione del Made in Italy”, “Theory of change”, “edugames, interviste”.
Fa ridere, ma che c’entra con la scienza e con l’inglese scientifico? Il parlare a vanvera, del resto, mi pare tratto distintivo costante delle tecnoburocrazie che hanno in mano i fili dei nostri destini. Scrive Asor Rosa su Repubblica: ” Per la prima volta in Italia le domande per accedere ai fondi di ricerca vanno redatte nella lingua di Shakespeare. Poi, se si vuole, si può fornire anche una traduzione italiana”. Forse è un eccesso di burocratese, e questo, come sottolinea anche Aurigi, è vieppiù ridicolo e provinciale; ma dipende da quali progetti intende il professore: se sono progetti internazionali è probabile che non debbano essere redatti in ciociaro. Se i progetti mettono capo a delle pubblicazioni scientifiche su riviste internazionali peer review ecc., sospetto che queste non debbano essere scritte in bulgaro: cosa possiamo farci? Uscire dal mondo? Ma non è un leitmotiv delle prefiche in servizio permanente, quello secondo cui l’università italiana è un mondo chiuso?
Però non mi pare che qualcuno abbia proposto corsi di laurea in inglese in letteratura italiana: mi preoccupano di più i teorici del Bignami che vanno dicendo che la cultura, considerata inutile, deve essere somministrata solo ai livelli più infimi, ancorché in italiano. I corsi in inglese sono nelle aree scientifiche, tecnologiche ed economiche. E sono corsi MAGISTRALI, onde per cui non esiste un quinquennio interamente in inglese. Soggiungo che i corsi magistrali in inglese ci sono già, sono già in essere da qualche anno, anche a Siena, e sono l’origine dell’incremento del numero di studenti: se ci fa schifo, possiamo anche rimandarli a casa, rimediando una figura di cacca galattica e verosimilmente dovendo fronteggiare non poche controversie legali: tanto di studenti ne abbiamo persi SOLTANTO 5.000 http://anagrafe.miur.it/php5/home.php. In sedi come Milano, i corsi in inglese sono la causa principale della scalata repentina delle classifiche internazionali (è l’unico evento rilevante occorso negli ultimi due anni). Queste assegnano infatti un punteggio elevato agli atenei internazionalizzati. Smantellarli vuol dire regredire, e cacciare via migliaia di studenti stranieri, pascendoci del nostro beato e provinciale isolamento dimenticando ARWU, Times Education, QS ecc. : queste sono le regole del gioco; se non ci piacciono, nessuno ci obbliga a giocare.
Trovo altresì sconcertante che con tutto quello che è successo all’università (vedi miei precedenti messaggi), nel silenzio quasi totale di tutta l’opinione pubblica e dell'”intellighenzia”, la gente si accalori soltanto per questa polemica, dimenticando che la vera obiezione è un’altra: stiamo facendo le nozze coi fichi secchi. Paradossalmente viene infatti eluso il problema fondamentale, ossia che l’internazionalizzazione, con la necessità di parlare a vaste platee per niente omogenee di studenti e al contempo la competizione con altri atenei in giro per il mondo, avrebbe bisogno di più corsi: propedeutici, integrativi, da un lato, e maggiormente specializzati dall’altro. Insomma, di maggior didattica, proprio mentre la didattica viene pesantemente svalutata dall’ANVUR, ridotta a spezzatino, fra conta dei cfu, accorpamenti, modularizzazioni, in una università che opera sempre più a ranghi ridotti. Le nozze coi fichi secchi, mentre ancora non è chiaro verso quale modello di università ci stiamo avviando e quale ruolo verrà assegnato agli atenei di piccola e media stazza, che rischiano, viceversa, di essere COSTRETTI a tenere solo corsi in italiano, di tipo professionalizzante per il pollaio domestico.
p.s. Mentre ci accapigliamo sui corsi in inglese, leggo ancora su ROARS la presa di posizione di alcuni docenti di ingegneria civile riguardo al riordino in corso della classi di laurea e dei SSD (settori disciplinari). Un riordino da molti auspicato, ma estremamente delicato, per le pesanti possibili ricadute, che avviene in una situazione di vuoto di potere, alla stregua di un aggiustamento meramente burocratico, mentre i riflettori sono puntati altrove:
“il Modello elaborato dal CUN sembra essere un deciso passo avanti verso una deprecabile licealizzazione dell’Università poiché i docenti appartenenti a un medesimo Raggruppamento, salvo casi virtuosi, potranno indistintamente essere chiamati a insegnare discipline nelle quali non hanno alcuna competenza scientifica. ”
Una prospettiva inquietante. Bisognerebbe conoscere meglio i dettagli. Il gran troiaio dello scioglimento delle Facoltà ha fatto venir meno i naturali presìdi, rimpiazzati da strutture eterogenee, con denominazioni che non vogliono dire un bel niente. Per quanto in certe aree fossero antiquati ed insostenibili, i SSD fissavano comunque dei paletti: come si eviteranno usurpazioni senza questi paletti? Di sapidi esempi di corsi in cui tra denominazione e contenuto non vi era alcun nesso, certo, ve ne sono stati anche con il sistema vigente, ma al peggio–come si suol dire–non c’è mai limite. Tempo fa in un messaggio, per una sorta di premonizione, ho citato un passo di Twain (Le avventure di Huckleberry Finn):
“Di mestiere sono tipografo; però commercio nel campo dei
medicinali; e sono pure attore – attore tragico, capisci -; quando ci ho l’occasione faccio sedute di ipnotismo e frenologia; qualche volta, giusto per cambiare, insegno geografia cantabile; ogni tanto faccio delle conferenze… Oh, faccio un sacco di cose… quello che capita, basta che non sia lavoro.”
Non so se la critica dei suddetti professori di ingegneria civile sia fondata o sia estendibile ad aree diverse, ma mentre si sbandiera “l’eccellenza” e ci si accapiglia sui corsi in inglese, la sostanza stessa dell’insegnamento universitari sta cambiando (in bene? In male?) senza che su ciò si spenda una parola, fuori da ristrettissimi circoli esoterici. Ma c’è una visione generale ed organica dell’organizzazione del sapere? Boh? Mi pare che trionfi il motto “Mors tua, vita mea”.
P.S. ULTIM’ORA:
Verso l’Università della Toscana?
I tre rettori e il modello California
https://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/cronaca/18_maggio_25/verso-l-universita-toscana-tre-rettori-modello-california-edde54a6-5fe9-11e8-b5e6-7921354adb77.shtml
L’idea di un Ateneo unico. Dei: non è una battuta, da un po’ ci presentiamo sempre insieme… Il rettore di Siena: «E’ un percorso che va fatto a piccoli passi, dal basso, lasciateci lavorare»
«Da un po’ di tempo ci presentiamo sempre insieme, come sistema universitario toscano: eravamo insieme poco tempo fa a Bruxelles, siamo insieme ora, saremo insieme l’estate prossima per i bandi di dottorato. Non sarebbe una cattiva idea arrivare, un giorno, a prendere a modello l’Università della California e diventare anche noi un solo Ateneo, l’Università della Toscana». Il rettore di Firenze, Luigi Dei, è in Senato accademico di piazza San Marco accanto ai colleghi di Pisa e Siena, Paolo Maria Mancarella e Francesco Frati. Sono assieme per presentare il progetto di riforma del corso di laurea in medicina e delle successive specializzazioni.
«La mia non è una battuta», precisa Dei, che spiega il ruolo cruciale della Regione nel «coordinare» il lavoro comune delle tre realtà accademiche toscane. Al tavolo c’è anche la vice presidente della Regione, Monica Barni, che sussurra: «In realtà è una questione di nome, perché l’Università unica la stiamo già facendo senza dirlo». Mancarella e Frati non sono altrettanto espliciti, ma fanno capire che con Dei c’è unità di intenti: «Siamo una squadra comune, dove le forze del singolo non bastano avviamo percorsi comuni», dice il rettore di Pisa. Mentre il collega senese, pur mettendo le mani avanti, finisce per confermare: «Lasciateci lavorare, con la collaborazione della Regione, senza forzature controproducenti. È un percorso che va fatto a piccoli passi, dal basso».
25 maggio 2018 | 09:09
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…divieni ciò che sei. Però cosa fa un vaso di coccio fra due vasi di ferro? Non ho dimenticato l’intervista a quel professore fiorentino secondo il quale Siena dovrà occuparsi solo di didattica. Cosa si intende per “collaborazione”? Come nel caso della fusione di dipartimenti c’è chi la intende semplicemente come Anschluss. Consideriamo che, purtroppo, della “passata grandezza” dell’università, cui fa riferimento un recente intervento del prof. Ascheri http://www.ilcittadinoonline.it/lettere/cultura-problema-pubblico-amministrativo/, c’è rimasto poco: la perdita a casaccio di oltre il 30% del corpo docente, leva principale, se non unica, del risanamento dei conti, è stata salutata da alcuni alla stregua di una “sana” riduzione del personale, come se si trattasse di generica manovalanza di basso livello, o se tutti i SSD fossero pieni strabocchevoli di personale. Al contrario, molte aree scientifiche sono entrate in crisi irreversibile: tolto l’ossigeno, isolati i pochi sopravvissuti, cancellato il lavoro di anni, d’ufficio, qualcuno, che come usa adesso meno ne sa e più straparla, ha dichiarato la loro “inutilità”.
Il blocco, a Siena, è stato totale ed ha comportato la perdita di circa 400 posti su circa 1000 che furono ai tempi d’oro (il barometro segna oggi 662 docenti di ruolo confermati http://cercauniversita.cineca.it/php5/docenti/vis_docenti.php, considerando che negli ultimi due anni c’è stata qualche assunzione). Firenze e Pisa hanno dimensioni triple. Con languore rammento chi esultava, sostenendo che così sarebbero entrati 400 giovani, e non – com’è stato – soppressi 400 posti; con irritazione ripenso a chi sosteneva che si trattasse di una giusta “razionalizzazione”, senza che sia chiaro dov’è la ratio nello sparare a casaccio sulla folla. Per molti ricercatori formatisi qui, più ancora che in altre università, quello verso altre sedi straniere è perciò diventato, nel corso di questi anni, un biglietto di sola andata.
Una deriva, un rischio di declassamento passati inosservati, o peggio, giustificati, talvolta non senza disinformata strafottenza paternalistica, dalla classe politica (rex illitteratus, quasi asinus coronatus), che preferisce sparucchiare nel mucchio, senza mai soffermarsi sui seri problemi strutturali. Ci sono stati dieci anni di blocco del reclutamento e delle carriere–a livello nazionale, tra i 10.000 e i 15.000 posti perduti https://ilfoglietto.it/il-foglietto/5873-il-tramonto-dell-universita-in-un-silenzio-assordante– cioè la distruzione di una generazione, come a causa di una guerra.
Dunque se vogliono fare “l’Università toscana”, da un lato che sia alla luce del sole, dall’altro che la facciano subito, prima che sia troppo tardi: infatti, molti settori sono piuttosto male in ponto in tutti e tre gli atenei, e quando muore un’area scientifica, non è che ci vuole solo un mese per rimetterla in piedi. In passate discussioni si è parlato inoltre di “massa critica” necessaria per parlare di qualità, eccellenza, competizione ecc. Se è questo che intendono, siano più espliciti, visto che oramai è da troppo tempo che si giocherella con il destino delle persone.
Se tre atenei generalisti (più sedi distaccate) che fanno le stesse cose non sono più sostenibili, si sappia dove si fa che cosa e dove uno potrà essere dirottato (particolarismi permettendo: già odo il clangore della battaglia). Non ha senso pensare di utilizzare i sopravvissuti delle aree entrate in crisi in una o più sedi come garzoni da mandare in qua e in là come il “Pronto Casa”, ad insegnare di tutto un po’, come non ha senso che ad insegnare una materia sia una persona che fa un altro mestiere.