La convivenza studiata e misurata dell’italiano e dell’inglese nell’università è più faticosa da progettare, rispetto al dire semplicemente “tutti i corsi in inglese”, ma forse è anche più seria e responsabile

Rita Librandi

Da: Unilex, 19 marzo 2018

Rita Librandi. Prima di tutto mi colpisce sempre il fatto che l’argomento lingua, o forse dovrei dire l’argomento “italiano”, appassioni chiunque, accendendo peraltro passioni inimmaginabili. Credo che ci siano alcune ragioni che accomunano tutte le comunità linguistiche, al di là del tempo e dello spazio, e altre che caratterizzano specificamente i parlanti italiani e la loro storia. Comunque, senza divagare troppo, vorrei subito sgombrare il campo da equivoci: sono accademica della Crusca, ma ovviamente non ho alcuna avversione verso l’inglese e non ho difficoltà a riconoscere l’evidenza: l’inglese è lingua veicolare per ogni situazione comunicativa che coinvolga (in presenza o a distanza) interlocutori di diversa provenienza e non solo per la comunicazione tecnico-scientifica. Ho parlato in inglese a più di un convegno all’estero e solo tre settimane fa ho tenuto lezioni in inglese al Dipartimento di Studi italiani della NYU, per il semplice motivo che insieme ai dottorandi di italianistica ce n’erano altri di Letterature comparate che non avrebbero capito l’italiano.
Fatta questa premessa, non interverrò su ciascun punto preso in considerazione nel vostro ampio dibattito, ma mi limiterò ad alcune osservazioni che ritengo importanti.

1) È senz’altro vero che nel medioevo (e ancora fino al XVIII sec.) il latino era la lingua delle università. Il latino, tuttavia, non era lingua di alcuno specifico paese dell’Europa medievale e dell’età moderna.

2) C’è un problema specificamente linguistico che nessuno considera. Ogni lingua che voglia continuare a discutere di fatti scientifici ha necessità di adoperare un lessico tecnico, specialistico che ovviamente si rinnova insieme con il progredire degli studi e delle scoperte. Una lingua che rinunci a coniare i propri tecnicismi, affidandosi sempre a un’altra per determinati settori abdica ad alcune prerogative essenziali delle lingue e procede, sia pure in tempi lunghi verso la dialettizzazione. Tutti i dialetti della penisola italiana, per esempio, sono lingue, nessuno escluso, non solo per la loro diretta derivazione dal latino ma anche perché possiedono un proprio autonomo sistema morfologico. Continuiamo a chiamarli dialetti per una tradizione tutta italiana, ma sono tutti lingue, anche se non lo sono più né sul piano spaziale (non si può comunicare in un singolo dialetto da Milano a Palermo) né sul piano degli argomenti che trattiamo, perché il dialetto non possiede il lessico specialistico necessario a parlare o scrivere di diritto, matematica, genetica, linguistica, ecc. Quando nel Cinquecento, infatti, ci fu l’unificazione linguistica della penisola (o se vogliamo la prima unificazione linguistica), i dialetti non ebbero più modo di formare un proprio specifico vocabolario per i settori della scienza e della cultura alta, per i quali tutti si affidarono all’italiano. Oggi nei nostri dialetti possiamo trasmettere (anche in versi) straordinarie emozioni affettive ma non possiamo parlare di genetica. Si tratta di un pericolo di cui si discute nella Commissione europea delle lingue e che coinvolge tutte le altre lingue europee.

3) È vero ciò che qualcuno di voi ha detto sulle preoccupazioni della Germania e dei paesi del Nord dell’Europa. In una convegno della EFNIL, che riunisce le più rilevanti istituzioni linguistiche europee e che si è svolto a Firenze due anni fa, i rappresentanti di Danimarca, Olanda, Germania spiegavano come stessero cercando di correre ai ripari dopo anni di totale anglicizzazione degli studi universitari. Molte sedi universitarie tedesche adottano una politica assai intelligente: al primo anno offrono corsi in inglese nelle classi con studenti stranieri e contemporaneamente obbligano questi ultimi a seguire corsi di tedesco; al secondo anno offrono una parte dei corsi in inglese e una parte in tedesco e al terzo anno tutti devono essere in grado ormai di comprendere e riprodurre il solo tedesco.

4) La battaglia dunque non è contro l’inglese negli studi universitari, ma contro l’anglicizzazione indiscriminata, priva di correttivi che vanno pensati e pesati in vista del futuro.

5) E che dire della comunicazione con il pubblico? Si parla tanto di terza missione, di trasmissione delle conoscenze al pubblico: è cosa più che giusta se non vogliamo una società credulona che rifiuti i vaccini o altre amenità simili. Come pensiamo di poter trasmettere o comunque di poter divulgare in modo alto e serio le nostre conoscenze al grande pubblico? In italiano o in inglese? Con quale lessico? Italiano o inglese? Certo la convivenza studiata e misurata delle due lingue nelle aule universitarie è più faticosa da progettare, rispetto al dire semplicemente “tutti i corsi in inglese”, ma forse è anche più seria e responsabile. Vi consiglio a questo proposito il bellissimo libro di Maria Luisa Villa, “L’inglese non basta. Una lingua per la società”, Milano, Bruno Mondadori, 2013 (la Villa ha insegnato Patologia generale e dunque non è sospetta di “iper umanismo”…).

6) È vero anche che l’inglese va insegnato bene e a questo proposito mi chiedo: com’è possibile che i giovani dopo ben 13 anni di inglese a scuola lo parlino così male? Nessuno al ministero si preoccupa mai di obbligare l’insegnamento in lingua delle Lingue… A me sembra paradossale.

Infine inviterei tutti i colleghi dei percorsi formativi tecnico-scientifici a pensare anche all’italiano scritto dei vostri studenti universitari, ma magari è meglio non aprire anche questo capito, perché già so che si scatenerebbero altre passioni.

La sentenza non vieta i corsi in lingua straniera, sancisce l’obbligatorietà di garantirli in italiano

Da: Unilex, 17 marzo 2018

Paola Sonia Gennaro. A seguito dell’ottimo articolo di Claudio Marazzini aggiungo alcune considerazioni.
Riservare a una sola lingua l’accesso alla scienza, significa consegnare al dominio di una sola cultura le chiavi della conoscenza. Una visione imperialista che neppure l’Impero romano.
Lutero in un colpo solo spazzò via l’intermediazione della classe sacerdotale della curia romana, con la traduzione in tedesco della Bibbia, rendendola accessibile al largo pubblico senza bisogno di intermediari accreditati (oggi diremmo “abilitati”).
La Chiesa cattolica invece mantenne la messa in latino fino alla metà del secolo scorso, ovvero oltre 400 anni dopo Lutero, contribuendo così a tramandare la conoscenza del latino fino ai nostri giorni.
Si può trovare anche un aspetto paradossale nel voler riservare all’inglese l’esclusività del linguaggio scientifico. Infatti, i paesi anglosassoni sono anche quelli che usano sistemi di misura diversi dal resto del mondo. Dovremmo tutti adeguarci a usare libbre e miglia?
Infine dovrebbe essere evidente che i traduttori automatici saranno sempre più perfezionati, permettendoci non solo di leggere decine di altre lingue, ma anche di parlare nella nostra lingua e di essere ascoltati in diretta nella lingua dell’interlocutore.
Dunque benvenute tutte le lingue, no alle riserve auto-accreditatesi “eccellenze”.

Marco Cosentino. La sentenza non vieta i corsi in lingua straniera bensì sancisce l’obbligatorietà di garantirli in italiano. In altri termini, io studente italiano ho il diritto di poter studiare nella mia lingua madre. Tutto qui.
Il problema della subalternità scientifica e culturale è enorme ma non è certo primariamente legato all’offerta didattica (la cui anglicizzazione, ove non giustificata da specifiche esigenze, altro non è che grossolano provincialismo).

La Facoltà di Lettere dell’ateneo senese è tra le migliori al mondo, come lo è l’attuale re d’Italia

Rabbi Jaqov Jizchaq. Leggo con piacere, ma anche con notevole sorpresa questa notizia da “Il Cittadino”: «La Facoltà di Lettere dell’ateneo senese è tra le migliori al mondo.» La QS World University Rankings registra in generale un balzo delle università italiane, dalla Sapienza al Politecnico di Milano. L’ateneo romano è il migliore al mondo in Scienze dell’Antichità, superando Cambridge (seconda) Oxford (terza) e Harvard (quinta). Mizzica! Che a Roma siano esperti di antichità romane non sorprende. Il Politecnico, secondo questa classifica, risulta ai vertici per varie branche dell’ingegneria e questo è già più interessante. Forse, semplicemente, gli atenei hanno mangiato la foglia e cominciano a capire come farsi riconoscere ciò che già posseggono. Spiccano anche Bologna, Pisa e Padova. Ma è la stessa Pisa, recentemente punita dal palio dei dipartimenti? C’è qualcosa che non quadra in questo incessante certame fra atenei.

Soddisfazione per Siena, perché la buona novella pone un argine alla diceria che le materie “umanitarie” siano sinonimo di dequalificazione a prescindere. Soddisfazione e sorpresa. Sorpresa, soprattutto perché la “Facoltà di Lettere” non esiste più da anni, quindi, forse, il giornalista voleva dire un’altra cosa. Bisogna infatti condurre una accurata ricerca per capire in quali dipartimenti, monadi diverse del tutto indipendenti l’una dall’altra, senza alcuna struttura di coordinamento come furono le defunte “facoltà”, siano finiti gli insegnamenti menzionati nell’articolo, anche se poi magari vengono ospitati negli stessi curricula di corsi di studio erogati da questo o da quello. Lo stesso è successo a Medicina e a Scienze, e ancora c’è chi parla di “Facoltà di Medicina”, “Facoltà di Scienze”, “Facoltà di Lettere” in una specie di danza delle ombre in cui si agitano fantasmi di entità decedute. È così dopo l’ultima riforma, che ha soppresso le “Facoltà”.

La soppressione delle Facoltà non è un fatto meramente nominale. È come se i giornali continuassero a chiamare Mattarella il “re d’Italia”. Quanto ciò che è accaduto sia implausibile lo testimonia, appunto, l’incredulità dei giornali, che continuano a parlare di cose che non esistono più come se esistessero ancora. Semmai, ci sarebbe da chiedersi che senso ha tutto questo, qual è stato il risparmio effettivo, l’incremento di efficienza, quale plausibilità scientifica abbiano le strutture che sono subentrate, sebbene in tempi di cieca e burocratica sottomissione, a chiedersi il senso delle cose si rischi l’ostracismo. È diventato costume obbedir tacendo, come nell’Arma, e il ghigno supponente ha rimpiazzato la dialettica delle idee. Ma in fondo anche l’attuale re d’Italia è fra i migliori al mondo e quello morto è il miglior nemico.