Erwin Chargaff (scritto del 1979). Quel che mi auguro è l’introduzione o, più propriamente, la reintroduzione di condizioni di lavoro che consentano a un uomo di effettuare, magari con due o tre collaboratori più giovani, le proprie ricerche in modo degno e tranquillo. Gradirei che il chiasso e gli schiamazzi e le masse popolari degli stadi e delle arene dei circhi siano tenuti lontani. È prevedibile che questo avvenga soltanto se non ci saranno più crediti giganteschi né il relativo corredo retorico di parole d’ordine, cioè quando fronzoli del tipo «rivoluzione scientifica» e «centri di eccellenza», «ricerca interdisciplinare d’équipe» e peer review saranno soltanto brutti ricordi di un cattivo passato. Delicatamente e con timore reverenziale il ricercatore del futuro – questa pallida immagine dei miei sogni – cercherà di mettere in luce ciò che riposa nella natura, e il modo con cui egli lo farà determinerà il valore della sua scoperta. Cercherà di evitare le grigie strisce di natura corrosa, che le sue macchine di misurazione lasciano solitamente dietro di sé e nei limiti del possibile si terrà lontano dal METODO, questo bulldozer della realtà. Procederà con lentezza, perché egli sarà uno dei pochi. Si farà una ragione dell’immutabile fatale condizione che tra lui e il mondo c’è sempre la barriera del cervello umano. Ma, soprattutto, sarà consapevole del buio eterno che deve circondarlo mentre scruta la natura.
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