L’università di Siena è cresciuta in modo disordinato, senza criteri di omogeneità e di efficienza

Pubblichiamo la quarta puntata del resoconto integrale dell’incontro-dibattito «Salvare l’università di Siena. Quale modello per il futuro?» La prima parte è stata pubblicata con il titolo: «Ci sarà un risorgimento per l’università di Siena?». La seconda parte: «La crisi dell’università è crisi del “sistema Siena” e non può essere risolta da chi l’ha creata». La terza parte: «L’università di Siena è destinata per molti anni a stare in rianimazione».

Lorenzo Gaeta (Preside della Facoltà di Giurisprudenza). Sono il docente che siede da più tempo (6 anni) in Senato accademico, e qualche idea, nel frattempo, me la sono fatta, anche se per troppo tempo abbiamo percepito una realtà completamente diversa da quella, assai critica, che si è poi rivelata. Volendo essere telegrafico, il problema dell’Università di Siena sta, ora, tutto in una sottrazione: riceviamo dal Governo più o meno 100-105 milioni l’anno e di soli stipendi ne spendiamo 130-135. Quindi, l’unica ricetta per risolvere i problemi sta nell’invertire questi fattori, parendomi improbabile che si riesca a vendere un ospedale all’anno. Come si fa? Le parole d’ordine che vorrei proporre possono sembrare – e forse lo sono – banali e scontate, ma invece hanno, a mio avviso, un significato preciso: parlo di rigore, serietà, qualità.

Cominciamo, sgombrando subito il campo da qualche risparmio marginale, che comunque si può e si deve fare. Riduzione del numero dei corsi di studio: ha senso che il Senato accademico si debba arrampicare sugli specchi per salvare curriculum o corsi di studio ai quali si iscrivono appena 2, 3 o 4 studenti? La loro potatura, ovviamente, non comporterebbe una diminuzione del numero dei docenti, ma sicuramente riuscirebbe a ridurre le richieste di fondi per supplenze e contratti, indispensabili per mantenere in vita questi corsi. Sedi esterne: ha senso che i finanziamenti ritenuti indispensabili per il loro corretto mantenimento vadano a finire sostanzialmente nelle tasche dei docenti che vi insegnano, troppo spesso ben al di là di un doveroso ristoro delle spese affrontate?

Questi, però, come dicevo, sono tutti risparmi di minima entità, a fronte della fondamentale sottrazione che ho proposto all’inizio. In realtà, siamo troppi, e siamo cresciuti probabilmente in modo disordinato, spesso senza criteri di omogeneità e di efficienza. Parlo sia della docenza sia del personale tecnico amministrativo. Abbiamo un numero di docenti abbastanza elevato rispetto al rapporto medio nazionale docenti-studenti (anche se questo vale molto per alcune Facoltà e molto poco per altre), abbiamo un personale tecnico amministrativo anch’esso quantitativamente squilibrato rispetto alla media nazionale tra questo e i docenti (anche se, evidentemente, il personale incide meno dei docenti sulla spesa finale, essendo i loro stipendi più bassi dei nostri).

Come è possibile intervenire? In realtà, è molto difficile “dimagrire”, in entrambe le componenti. I docenti non hanno accolto con grande entusiasmo – uso un eufemismo – la politica di prepensionamenti che abbiamo proposto. Ci sono state reazioni di conservazione e di diffidenza da parte di molti colleghi, pur davanti ad incentivi che io giudico estremamente appetibili economicamente. Qualcuno di questi mi ha addirittura parlato di “sacrificio” al quale lo stavamo chiamando. Ma è sacrificio dare al docente che sceglie il prepensionamento la differenza tra pensione e stipendio e in più 25.000 euro l’anno (30.000 il secondo, 35.000 il terzo e così via)? Qui voglio dirlo molto chiaramente, anche perché me lo impone l’etica di docente di diritto del lavoro che cerca di stare dalla parte di chi lavora: in questa crisi, i sacrifici veri li hanno fatti altri. Li hanno fatti tanti precari, tanti giovani validi e bravi, che abbiamo costretto a lasciare un lavoro che facevano con passione e competenza; li hanno fatti i nostri allievi che si stavano incamminando in una carriera difficile ma affascinante e ai quali forzatamente abbiamo dovuto dire che non c’è posto per loro nell’Università di Siena per chissà quanto tempo. Immaginate come sarà il corpo docente della nostra Università tra cinque o tra dieci anni? Noi avremo fatalmente cinque o dieci anni di più, e saremo finalmente un numero giusto (già nel 2014, da 1.005, quanti siamo attualmente, scenderemo grosso modo a 850). Ma saremo tutti anziani, senza un ricambio, senza giovani: non mi pare un futuro glorioso.

Il personale tecnico ed amministrativo è anch’esso distribuito molto male. Non ci sono figure dirigenziali, tanti uffici sembrano sovrabbondanti, mentre tanti altri paradossalmente soffrono di mancanza di personale. Voglio parlare chiaro anche su questo punto, perché ho idea che un po’ di ingolfamento nel numero del personale tecnico ed amministrativo sia dipeso anche dal fatto che troppe volte in passato la nostra Università abbia svolto un ruolo di ammortizzatore sociale di tante crisi cittadine, assumendo e stabilizzando al di sopra dei propri bisogni. Ora, con la collaborazione fondamentale della nostra Amministrazione provinciale, stiamo impiantando un portale elettronico, per favorire la mobilità volontaria del personale che scelga di voler transitare verso un’altra occasione di lavoro.

Torno ai docenti, la componente che ovviamente conosco meglio, per ribadire come soprattutto da essi ci si debba attendere quella serietà e quel rigore, ma anche quel senso di responsabilità, che possano contribuire a consolidare e a rilanciare il peso dell’Università di Siena. Dobbiamo puntare sulla ricerca di eccellenza, sulla didattica di qualità: e da noi ce n’è tanta. Perché solo in tal modo possiamo bene adempiere al nostro scopo primario, che non a caso costituiva la preoccupazione di chi introduceva questo dibattito: il servizio agli studenti. E devo dire che questi hanno finora risposto piuttosto positivamente: già l’anno scorso, quando si temeva un tracollo delle iscrizioni, c’è stata invece una tendenza sostanzialmente positiva, che in alcuni casi ha addirittura visto incrementare il numero degli immatricolati; evidentemente, gli studenti e le loro famiglie continuano a dare fiducia ad un’Università famosa per la sua storia, ma anche per la sua qualità. Perciò, ogni intervento non deve essere fatto indiscriminatamente, ma proprio tenendo conto della qualità; anche perché, purtroppo, la riduzione dei docenti avverrà invece del tutto casualmente, dipendendo da un fattore casuale come l’età degli interessati, che potrà lasciare completamente sguarnito un settore e troppo presidiato un altro.

Per concludere, mi auguro una gestione più collegiale e trasparente, pur mantenendo, ognuno, le proprie competenze e le proprie responsabilità. Questo sia all’interno dell’Ateneo, sia – come bene auspicava il dottor Bisi all’inizio – nei rapporti con la città, con una maggiore interazione tra noi e le varie realtà cittadine, come è nella storia plurisecolare della nostra Università.

Stefano Bisi. Si candida lei, professore, a Rettore?

Lorenzo Gaeta. Per carità! Non sia mai!

12 Risposte

  1. «Riduzione del numero dei corsi di studio: ha senso che il Senato accademico si debba arrampicare sugli specchi per salvare curriculum o corsi di studio ai quali si iscrivono appena 2, 3 o 4 studenti?» Gaeta

    Ma scusate, perché, ci sono ancora corsi di studio a cui si iscrivono due o tre studenti o sinanco dieci studenti? E quali sono, di grazia?

  2. Giusto! Sarebbe molto interessante saperlo: ma un elenco delle discipline con gli esami sostenuti negli ultimi tre anni ad esempio esiste? Con tutto meccanizzato c’è da essere sicuri ma sarà top secret?
    – In CdA non è mai stato richiesto?
    – E quel Senato che tempo fa programmò l’anno prossimo come si concilia con la dichiarazione resa dal Rettore dopo l’incontro con ricercatori?
    – A che gioco si gioca?
    – I candidati rettori sono improvvisamente scomparsi? E quelli dell’università che si vorrebbe? Il loro sito è decollato? O era un sogno anch’esso?
    We can or we wish we could?
    Meglio tornare al Chianti, anche se bagnato!

  3. Seguo da poco il vostro bel blog e sono un impiegato non universitario ma interessato alla politica cittadina. Capisco che la crisi dell’università è un guaio enorme per la città, perciò mi interessa.
    È così difficile, scusate, capire su quali forze legalmente si può contare? Qualcuno ha fatto questione di incarichi dati a ricercatori in modo illegale, ma altri non lo sono. Possibile che i consigli di Facoltà non possano concentrare in modo legale le forze in corsi di laurea più importanti e richiesti dagli studenti?
    Mi meraviglia poi che non intervengano i candidati al rettorato. Di che hanno paura? Chiederei loro se ci leggono: che cosa ritenete che si possa fare per evitare che si ripetano ammanchi come quelli che vi hanno messo in ginocchio? Cosa va cambiato? Non sarà la prima cosa da fare?
    Poi ancora: la legge Gelmini a quanto ci dicono i giornali va avanti. Che conseguenze ha per la vostra università si capisce? I candidati non si devono pronunciare anche su questo punto?
    Scusate molto e grazie per la vostra attenzione.
    Buon lavoro a tutti voi.

  4. «Giusto! Sarebbe molto interessante saperlo: ma un elenco delle discipline con gli esami sostenuti negli ultimi tre anni ad esempio esiste? Con tutto meccanizzato c’è da essere sicuri ma sarà top secret?» Archimede

    Archimede, attenzione: Gaeta parla di “corsi di studio”, cioè, in parole povere, corsi di laurea; trasalisco all’idea che nel profluvio di norme restrittive, tabelle, “requisiti minimi”, abbiano potuto sopravvivere corsi di laurea con cinque iscritti all’anno, e desidero che me se ne mostri uno.

  5. «Qualcuno ha fatto questione di incarichi dati a ricercatori in modo illegale, ma altri non lo sono.» pivellino

    “In modo illegale”?!?!?!?!! Argle! Pivellino, non scherziamo e guardiamo la Luna, invece del dito: i ricercatori insegnano quanto e più degli ordinari, legalmente e senza guadagnarci un tubo da oltre vent’anni con buona pace e soddisfazione di tutti; veramente io trasecolo nel constatare che (non dico certamente tu) vi sia chi ignora che essi coprono attualmente fra il 35% e il 40% della didattica. Suggerirei alle competenti autorità di non gettare altra benzina sul fuoco, almeno per non irritare chi ancora è in bilico se aderire o astenersi dalla protesta perché non è convinto delle modalità della medesima. Altrimenti l’anno venturo metà corsi di laurea non partiranno.
    La figura del ricercatore (leggo nel sito C.N.R.U., se sbaglio correggetemi) fu istituita dal dpr 382 del 1980. Al ricercatore si chiedeva di contribuire allo sviluppo della ricerca scientifica universitaria assolvendo a compiti didattici integrativi (integrazioni dei corsi curriculari, esercitazioni e alla sperimentazione di nuove modalità di insegnamento) ma era una finzione bella e buona, perché i ricercatori non si sono mai dedicati solo alle attività di ricerca e personalmente vorrei sapere che cacchio vorrebbe dire “dedicarsi solo alla ricerca” fuori da centri di ricerca propriamente detti o in università dove la ricerca è un’attività marginale. La riforma Mattarella (Legge 341/1990, art. 12) permetteva ai ricercatori confermati, ma solo con il loro consenso, di ottenere in affidamento supplenze di corsi; la legge 218/1998 (la riforma berlingueriana – nel senso di Luigi – del 3+2), con l’aumento del fabbisogno di docenza, determinò gioco forza un uso massiccio dei ricercatori nelle attività didattiche fondamentali, e il ricercatore – questo sconosciuto – si trasformò in una figura lontano mille miglia da quella delineata dalla legge del 1980. Da lì in poi è stato un crescendo: con la Legge 4/1999 le mansioni didattiche furono estese anche ai ricercatori non confermati e fu abolita la precedenza di ordinari e associati rispetto ai ricercatori nell’assegnazione delle supplenze. La legge 230/2005 (Moratti) stabiliva che i ricercatori che ottenevano l’affidamento di corsi e moduli curriculari, avrebbero ricevuto il blasone nientepopòdimeno che di professore aggregato (“molto onor, poco contante”…), fermo restando l’inquadramento e il trattamento giuridico ed economico. Mussi nel 2007 sancì l’equiparazione dei ricercatori ai docenti di I e II fascia.
    I ricercatori vengono conteggiati oggi come docenti a tutti gli effetti per l’ottenimento dei famigerati requisiti minimi necessari per l’attivazione dei Corsi di Studio delle università. Oggi costoro sono in numero di 24.438 all’interno di un corpo docente costituito da 61.685 unità e coprono più del 35% dei corsi universitari e grosso modo sono la più parte del personale docente compreso fra i trentacinque e i cinquant’anni: il loro destino? La rottamazione in blocco.

  6. Se a qualcuno interessa, sul sito del MIUR (http://statistica.miur.it/ustat/Statistiche/provvisoria.asp) si possono ricavare gli iscritti per l’a.a. 2008-2009 al 31.01.2009. Non è un dato molto aggiornato…

  7. Sì, ma ci saranno dati al 31.12.2009, no? Ma è vero che i Cel sono passati a 700 euro netti al mese? Sono categoria indifferenziata o unitaria, stessi obblighi ecc.? grazie.

  8. Se ai ricercatori si aggiungono i precari variamente intesi si ha abbastanza chiaro un quadro anche senza far numeri… che alla fine i docenti professori in molti casi fanno poco anzi pochissimo…

  9. Danno Erariale e Poli Decentrati?
    Chi sono normalmente i docenti delle sedi decentrati? Associati o Ordinari che hanno un carico di didattica frontale pari a 120 ore e svolgono una quota parte di queste ore nei Poli?
    Ordinari ed associati che vanno a fare lezioni nelle sedi decentrate pare siano una quota esigua. Molta parte del carico didattico delle sedi decentrate è svolto per supplenza (opportunmente retribuita) di ricercatori interni o esterni della Facoltà/Ateneo o mediante contratti…
    Non sarrebbe meno costoso e più risanante far svolgere una quota parte delle 120 ore dei proff. nelle sedi decentrate?
    I carichi didattici retribuiti, secondo indicazioni ministeriali non devono essere attribuiti… dopo aver concretamente verificato la possibilità di coprirli con i proff. a 120 ore?
    Nel piano di risanamento non era stati abbattuiti per 2010/2011 i costi per i Poli??
    Ricordo male?

  10. Troppo facile! Così si salvavano i precari e i Cel (almeno quelli veramente necessari alla didattica di specifici corsi di laurea)…

  11. Nelle sedi decentrate i soldi sono stati trovati… fuori dal bilancio unisi mi risulta. Se gli aretini vogliono la sede che la paghino – questo il mantra.

    Distinguerei tra precari e Cel. I cel – bravissimi – hanno per anni beneficiato di un contratto molto generoso. Ora è il momento per tutti di stringere. Peraltro fossi Barretta non firmerei un atto che ha probabilità di non avere alcuna copertura… che i sindacati si incazzino pure…

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