Con l’offerta formativa all’insegna della “tuttologia” infiascata l’università di Siena continua a perdere studenti

Pupazzi-Unisi

Rabbi Jaqov Jizchaq. Si legge sul “Sole 24 Ore” che «negli ultimi dieci anni gli iscritti alle Facoltà umanistiche sono calati del 27%.» Seguiamo la tendenza, già in atto ad esempio negli USA, orientata verso la scomparsa degli studi umanistici, da noi politicamente teorizzata perfettamente bipartisan con la teoria delle famose “tre i” (mancava la quarta: idiota!); ma qui in Italia credo che questo sia un “trend” più ampio che investe anche le scienze “pure” in generale, i progetti di ricerca scientifici che non hanno una ricaduta immediatamente applicativa sui tempi brevi e le discipline teoretiche. Insomma, tutta la ricerca di base.

Mi viene in mente quel simpatico giornalista della “Frankfurter Allgemeine” perennemente ospite da Bruno Vespa, che con bonarietà paternalistica raccomanda agli italioti di dedicarsi alla cucina, al turismo ecc. e lasciar perdere la ricerca e l’innovazione tecnologica (che quella la fanno in Vestfalia o in Corea). Io, per la cronaca, fatta salva la necessità di sfruttare meglio turismo e patrimonio culturale, tenderei a pensarla in modo diametralmente opposto, ritenendo che le scienze pure ed applicate siano parte costitutiva imprescindibile del patrimonio culturale di questo paese, dato oggettivo che solo il prevalere per una certa fase di una cultura di stampo idealistico e storicistico ha potuto gettare nell’oblio.

Per quanto riguarda i settori cosiddetti “umanistici”, in particolare, leggo nel sito MIUR che qui a Siena tanto per cambiare è andata anche peggio, rispetto al dato nazionale: mentre rettori e presidi sbandieravano le classifiche taroccate del CENSIS e la “Ossforde” aretina, solamente dal 2008 ad oggi, Siena (includendo entrambe le sedi), nei corsi di laurea umanistici, è passata da 4600 studenti a 2900, cioè a dire ha perso quasi il 40% (diconsi il quaranta per cento!) degli iscritti in cinque anni.

È un circolo vizioso: alla disaffezione da parte degli studenti verso queste materie causata da un generale trionfo dell’ignoranza consumistica (come non pensare alla più volte citata “scomparsa delle lucciole” pasoliniana?), alla concreta difficoltà di trovare un lavoro (“con la cultura non si mangia”, ebbe a dire un celebre ministro) si aggiunge un’offerta didattica sempre più immiserita a causa delle uscite di ruolo di metà del corpo docente, dell’impossibilità di rimpiazzarlo, del disimpegno e della latitanza di molti che ritengono di essere stipendiati come “intellettuali”, e non come professori ma, temo (last but not least), anche di una politica che grida vendetta, consistita negli anni dello scialo nell’aver riempito a dismisura certi settori bizzarri e vacui in nome di una moda effimera durata lo spazio di un minuto, affossandone altri più solidi. Con ciò ammazzando l’unico motore che muove i giovani verso queste carriere: la passione.

Alla lunga, l’insieme di questi fattori ha prodotto corsi di laurea dalle denominazioni incomprensibili e dal contenuto vago, e ciò ha indotto gli studenti desiderosi di studiare qualcosa di ben preciso, e non la “tuttologia” infiascata, ad orientarsi verso altre sedi; mentre le iscrizioni colavano a picco e il corpo docente dimezzava, le competenti autorità pensavano a come mantenere in piedi periclitanti doppioni nelle sedi distaccate, “accorpando” il culo con le quarant’ore all’interno delle singole sedi, anziché abolire questi doppioni ed eventualmente le sedi stesse, fortilizi non più sostenibili, per concentrare le forze nella difesa della sede principale.

Purtroppo, in questo clima, hanno avuto vita facile i teorici dello sputtanamento globale-totale, cui si sono aperte autostrade all’interno di una comunità cittadina dove peraltro il provincialistico culto dell’effimero e la vanità, che considerano la cultura come una sorta di orpello, una “gravatta”, un belletto, in questi anni difficili di decadenza la fanno da padroni: ma se il trend è già di per sé negativo, com’è possibile che si ritenga di poter rispondere con proposte sempre più scadenti che hanno l’effetto di disorientare ed accentuare ancora di più la fuga da Siena?

E un disgraziato che volesse tentare la carriera accademica, come farà, in una sede dove, con le recenti disposizioni circa l’obbligo di possedere almeno sei borse di studio, non esisterà verosimilmente neppure un dottorato di ricerca specifico nei vari settori? Un dottorato… accorpato? E allora che minchia di dottorato sarebbe? Un respiro ed un attimo di riflessione bastano per rendersi conto che questa è una strada suicida.
Si salva (e ciò va ascritto a loro indiscusso merito) chi riesce a trovare fondi esterni con cui finanziare i dottorati; ma è evidente che ciò accade nella ricerca applicativa e nella sfera tecnologica e non è possibile estendere, se non in minima parte, il discorso ai settori di cui sopra.

Scusandomi se la mia ignoranza non è pari a quella di Lorsignori, la mia opinione ve l’ho detta: in queste condizioni di estrema scarsità delle risorse, che si ripercuote anche sulla qualità e dunque l’attrattività dell’offerta formativa, si facciano meno corsi e meno dottorati nella regione, ma buoni: si trasferisca lì la gente o si costituiscano corsi federati secondo il dettato della riforma, allo scopo di dar luogo a solidi presidî a livello regionale, costituendo corsi e dottorati interateneo (assai più di quanto non accada adesso, con gli attuali criteri cervellotici per il contributo della Regione ai dottorati interateneo) o trasferendo i docenti laddove le discipline hanno un maggior radicamento ed una maggiore possibilità di sopravvivenza, ponendo in definitiva la parola fine a questa finzione che è la claustrofobica “autonomia” totale degli atenei (monadi senza finestre).

Si dice che questo è ingenuo ed utopistico, non è “furbo” (meditate gente…) perché urta contro la suscettibilità dei baroni e i meccanismi spartitori che governano l’università italiana in regime di “autonomia”: eppure tutto ciò è scritto nella riforma, a questo mira l’articolo 3, a questo tendono i famigerati “requisiti minimi di docenza” e dunque mi chiedo chi comandi realmente in questa bottega, se persino il richiamo alla volontà (ancorché flebile) del popolo sovrano e alla matematica elementare è considerato un segno di ingenuità. E poi l’alternativa quale sarebbe? Assistere imbelli al declino accompagnando dolcemente alla pensione chi ne è stato concausa? E a cosa valgano tutti i fiumi d’inchiostro intorno all’eccellenza, alla meritocrazia, all’efficienza ecc., ecc. se poi cadono miseramente davanti ad argomentazioni così meschine.

Una Risposta

  1. P.S. Proprio ieri sera, davanti ad una pinta di birra, un mio amico e collega berlinese a Siena in gita con la famiglia per il Palio, mi parlava di una certa Facoltà in Germania dove ha insegnato, presso la quale con cinquanta docenti facevano fronte a duemila studenti. Ciò induce queste riflessioni:
    1. Se tanto mi dà tanto Siena di docenti dovrebbe averne allora 400 (by the way, Pisa ne ha 1531): ma secondo le leggi italiane, con 400 docenti, anche se fossero stati scelti giovani e aitanti apposta in maniera oculata e con precisione millimetrica, né uno più, né uno meno, esattamente nei settori disciplinari che ti vogliono (e non fossero dunque semplicemente quelli rimasti, dopo che gli altri sono andati in pensione, dopo anni di politica del reclutamento impostata a tutt’altri principi che non la razionalità) aritmeticamente si fanno al massimo una ventina di corsi. Diciamo pure una quindicina, con beneficio d’inventario, dato il carattere fortemente irrealistico della premessa. Ma qui per fare 3000 studenti le vecchie facoltà elargivano talvolta, giustappunto un paio di dozzine di Corsi di Laurea (fra triennali e magistrali) e non di docenti, e se per fare un ciclo quinquennale completo ti ci vogliono 20 docenti (non enumerabili due volte in due diversi corsi, s’intende), allora per farne una dozzina ti ci vogliono almeno 240, et voilà!

    2. Da noi con cinquanta docenti si fanno al massimo due corsi di laurea e non esiste singolo un corso di laurea con mille iscritti; questo hanno voluto i governi, che semplicemente non hanno avuto il coraggio di dire apertis verbis che quattro o cinque corsi di laurea sul “Bue Muschiato” in Toscana erano troppi e se ne dovevano chiudere, diciamo tre, spostando chi attualmente ci insegnava e chi ci studiava nelle sedi rimanenti. Duemila studenti era la dimensione delle vecchie “facoltà”, che annoveravano parecchi corsi di laurea. Dal sito MIUR emergono orrori a non finire: nella sede aretina risultano 6 corsi di laurea con un numero di iscritti variabile tra i 6 e gli 8; a Siena ve ne sono ben 14; in molti casi, a scanso di equivoci, si tratta di scampoli di vecchi corsi già soppressi, ai cui iscritti tocca comunque assicurare la conclusione del ciclo di studi, ma se consideriamo i corsi non ancora soppressi con un numero di iscritti attorno alla dozzina, o addirittura alle due dozzine, la quantità aumenta sensibilmente: come si può eludere allora la prospettiva che ho additato nei precedenti messaggi?

    3. Evidentemente lassù nel Brandeburgo, oltre a possedere un maggior pragmatismo nel valutare la sostenibilità di certe iniziative, non hanno l’atroce meccanismo dei requisiti minimi, per via del quale sono necessari per forza venti docenti (non ricicciabili quanto ad afferenza) in una precisa composizione riguardo al SSD e al rango per tenere aperto un corso di laurea: qui tra gli italioti si è invece inventata questa farraginosa e cervellotica diavoleria perché nessuno, soggettivamente, assumendosi in pieno le proprie responsabilità, ha avuto il coraggio di dire che c’erano da chiudere un po’ di cose indicando quali e la ragione del perché. O almeno, lassù i requisiti minimi di docenza pare essere un concetto più flessibile e non ce li hanno in misura così elevata: semplicemente se sono di meno (entro un certo limite, s’intende), lavorano di più: l’hai voluta la bicicletta? Allora pedala! Ciò è molto luterano.

    4. Intendiamoci, chi ha voluto i requisiti minimi in misura così elevata lo ha fatto per far chiudere più corsi, e alla lunga, forse, anche diverse sedi universitarie: lo ha fatto in modo pavido, non esplicito e diretto, dispensando mazzate un po’ a tutti e sparando nel mucchio (diconsi “tagli lineari”) nella speranza di colpire anche l’obiettivo, non per altri scopi. Si trattava di rivedere la distribuzione delle sedi e dei corsi? Bastava che i vari governi lo dicessero: parliamone! Così ha lasciato l’opera a mezzo, tirando il sasso in piccionaia e nascondendo la mano. In particolare, qui da noi, col dimezzamento del corpo docente, molti corsi di laurea hanno perso i requisiti minimi; dunque se di venti ti sono andati in pensione otto, con gli altri dodici non sai cosa cacchio farci: geniale, nevvero? Per giunta, anche la politica dei voluttuosi accorpamenti locali, che se da un alto hanno messo assieme il culo con le quarant’ore, dall’altro non hanno realizzato certe fusioni ovvie per i capricci di qualche satrapetto, mi pare che mostri assai la corda.

    5. Il risultato di questa bella “autonomia” e di questi geniali tagli lineari è quello di aver prodotto situazioni in cui, paradossalmente, via via che la gente va in pensione, e di conseguenza chiudono i corsi, da un lato mancano i docenti e dall’altro ….aumenta il numero di docenti “in esubero”! Fossimo in Germania, semplicemente trasferirebbero altrove quelli che avanzano, o farebbero lavorare di più tutti, ma qui da noi italioti, da un lato “lavorare di più”, oppure “muovere il culo” sono locuzioni impronunciabili, dall’altro, soprattutto, verrebbe meno lo scopo principale di queste misure, ossia far chiudere bottega: ma perché farlo in maniera così irrazionale? Una cosa è togliere alcune porcellane che non ci piacciono più dalla vetrina, altra cosa è prendere a sassate la vetrina, e poi, una volta ridotto in cocci il vasellame, non sapere neppure dei cocci cosa farne.

    6. Queste norme draconiane avrebbero infatti una parvenza di senso se fossero accompagnate da naturali provvedimenti come la mobilità del corpo docente, almeno in un ambito regionale (inutile che ripeta che anche il personale TA non può restare indifferente rispetto a questi problemi, giacché quando la ditta chiude degli stabilimenti, sono cavoli amari per tutti quelli che ci lavorano) e una razionale programmazione territoriale che vedesse protagoniste le sedi universitarie, il governo e le istituzioni locali: siccome anche questi sono concetti che in Italia, in regime di “autonomia universitaria” (leggasi di particolarismo feudale) è peccato persino sussurrare, la mera riduzione drastica del 50% del corpo docente a turn over sostanzialmente bloccato, per di più a casaccio, mette capo solamente a un caos tremendo e da misura tesa al risparmio, si traduce in forte diseconomia, in un modo raccapricciante di gestire le risorse umane (tanta gente, ma non sai che farci).

    Sarei contento se qualcuno mi dicesse che sbaglio, che vi sono alternative diverse a quelle indicate, gentilmente fornendo magari una guida alla buona amministrazione di queste faccende “for dummies”, ma tutto ciò mi pare di una palmare evidenza.

    «…quegli oggetti che sfuggono alle perquisizioni più minuziose, e che semplicemente sono esposti agli occhi di tutti, passando inosservati» (Marcel Proust, alludendo al celebre racconto di Poe “La lettera rubata”)

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