Ma c’è qualcuno (tra i politici senesi, in primo luogo) che abbia una visione strategica delle questioni universitarie?

AltanServizioFunerarioRabbi Jaqov Jizchaq. Dopo la perdita della Scuola di specializzazione in Cardiochirurgia, solo ora, post festum, a babbo morto, la politica si accorge che, ridendo e scherzando, vuoi fra battute grassocce intorno ai fannulloni, all’inutilità della cultura e della ricerca scientifica e alle cose inutili da tagliare, vuoi tra stucchevoli gridolini di giubilo per i sempre più surreali risultati del Censis, l’università di Siena, pezzo dopo pezzo sta perdendo molte delle sue (non moltissime) eccellenze? Sta perdendo non solo specializzazioni e dottorati in aree esoteriche, ma anche corsi di studio basilari e metà del suo corpo docente: quale epilogo vi aspettavate, se non quello di essere ridotti ad un ruolo ancillare? Ci sono due fatti evidenti: il primo è la sempre maggiore integrazione fra gli atenei toscani sotto l’egida della Regione (dai DIPINT ai dottorati regionali); un fenomeno che, o governi, oppure subisci e ne vieni travolto. Non puoi permetterti il lusso di ignorarlo.

Però est modus in rebus: alle competenti autorità, politiche e accademiche, dovrebbe essere ricordato che tutto ciò non può ridursi alla semplice annessione di un ateneo più piccolo da parte di quello più grosso; si richiederebbe una maggiore presenza delle istituzioni centrali per governare una complessa transizione, la quale, se presa seriamente, presupporrebbe una seria pianificazione e forme di mobilità, non l’abbandonarsi alla semplice legge della giungla. In secondo luogo, comprendo bene la strenua difesa di Fort Alamo, volta a conservare professionalità e tradizioni, da parte di chi, pur barcollando, è ancora in vita. Mi chiedo solo chi ha deciso che debbano morire (così come, del resto, prima mi ero chiesto perché dovessero nascere).

Capisco meno la medesima posizione conservatrice riguardo ai defunti: a Siena, oramai, man mano che si è proceduto con l’opera di smantellamento, ci sono rimasti molti specialisti di varie specializzazioni che non esistono più (i corsi di laurea che man mano vengono cancellati: questo è l’effetto della caduta dei requisiti minimi, ossia della fuoriuscita di metà del personale docente); ebbene, in questi casi, visto che la resurrezione è improbabile, con questi qua cosa volete farci, la frittata? Utilizzarli come bassa manovalanza soccorrevole, per insegnare di tutto un po’ ovunque, alla bisogna, tipo “pronto-casa”? All’ANVUR va bene così? Se veramente credete nell’integrazione, non dovrebbero piuttosto essere mandati in qualche opportuna struttura integrata dotata di quella massa critica necessaria perché abbia un senso parlare di competitività ed eccellenza, ove potessero espletare al meglio le loro competenze, a Siena o in altri siti?

Allora, sarà forse il caso di parlarne apertamente, come problema meritevole di entrare nell’agenda della politica (che fin qui ha fatto solo propaganda) non in modo occasionale o subdolo, come quando, dopo avere steso una coltre di oblio su quello che stava accadendo, la politica “cade dalle nubi” e si accorge che ci hanno fregato un altro – l’ennesimo – giocattolino? La politica non ha messo a tema il fenomeno della graduale provincializzazione e marginalizzazione di Siena, perché ne è stata complice: quanto all’università, forse per mascherare la propria partecipazione al dissesto, si diceva che il suo drastico ridimensionamento era una cura necessaria. A prescindere da come avvenisse.

A me pare che, oramai da anni, intorno alle questioni universitarie si registri un grosso vuoto di potere: all’immobilismo degli uni, fanno riscontro manovre oscure degli altri; tanti particolarismi che si scontrano, e alla fine burocrati che decidono sulla base di criteri per lo più estrinseci. Ma c’è qualcuno (alla Regione, in primo luogo, oramai deus ex machina del sistema degli atenei e della ricerca) che abbia una cognizione precisa dello stato delle cose e soprattutto una visione strategica?

6 Risposte

  1. […] Ma c’è qualcuno (tra i politici senesi, in primo luogo) che abbia una visione strategica delle qu… […]

  2. Molte domande retoriche sacrosante, caro Giovanni! Sai già anche la risposta, purtroppo. Ti segnalo, perché la stampa ha difficoltà ad occuparsi di cose serie, che all’ANVUR si sta rinnovando l’importantissima dirigenza; tra le regole di partecipazione c’è che non bisogna avere superato i 70 anni! Non lo trovi fantastico? Se c’è qualcuno, almeno teoricamente, fuori dei giochi è dopo quell’età. Allora si potrebbe essere indipendenti veramente, volendo of course… Silenzio, nessuna protesta, mi pare, va bene a tutti così?

  3. …alcune spigolature dalla cronaca:

    (1) Sulla mania imperversante dei test, quiz, valutazioni varie: La Sapienza di Roma
    L’università organizza concorso per miss. E in giuria c’è il rettore (magno cum Gaudio!).
    http://27esimaora.corriere.it/articolo/concorso-nazionale-per-miss-universitae-questa-la-buona-scuola/….bisogna essere competitivi, le “valutazioni” impazzano: dopo la SUA, il VQR e la TECO, questa cos’è, un’altra trovata dell’ANVUR?

    (2) Sul silenzio dell’opinione pubblica locale intorno alle vicende del’ateneo senese e non solo: è sorprendente come nell’era dei social media, in cui la gente passa le giornate a twittare e a riempire facebook di inutili chiacchiere (soprattutto in orario lavorativo), così pochi scrivano ai blog ove si discute in ordine ai problemi che toccano realmente la vita di una comunità, quasi fosse peccaminoso esprimersi riguardo delle cose serie e lecito invece esprimersi solo intorno alle cazzate: ma la dialettica democratica consisterebbe nel tacere e nel lasciare che solo i maggiorenti del notabilato si esprimano, somministrando la solita predica al volgo, volta ad ammansire la bestia, mentre le decisioni vengono prese altrove, nei più segreti antri?

    (3) Sulla presunta inutilità della Cultura (con la “C” maiuscola, che non ammonta al calpestio di “red carpets” e di palcoscenici varii), come delle scienze pure, per le quali sembra non vi sia più spazio nell’ateneo senese. Se anche la Cultura è un lusso che l’università senese non può più permettersi (o tempora!), allora non sfuggirà al destino di un ruolo puramente ancillare rispetto a Pisa o Firenze. Ma essendo questo un fenomeno in vario grado presente nel paese tutto, “meridionalizzato” rispetto all’Europa, lo stesso può dirsi del sistema universitario per intero, rispetto ai sistemi di altre più evolute nazioni:

    “Una filosofia che attribuisce maggior valore agli usi della scienza che alla scienza in se stessa è una filosofia grossolana e, a lungo andare, non può avere altro effetto che quello di distruggere la scienza stessa”
    (Bertrand Russell)

    (4) Sul fatto che aumentano i giovani che non lavorano, ma neanche studiano (Neet): peggio di noi – dice l’OCSE – fanno solo i greci. Leggo che la crisi delle Università ha prodotto al Sud in 10 anni la perdita di [Esplora il significato del termine: Abruzzo -56%, Molise -52,3%, Sicilia -50,7%, Basilicata -49,4%, Calabria -43,8%.] molti immatricolati: Abruzzo -56%, Molise -52,3%, Sicilia -50,7%, Basilicata -49,4%, Calabria -43,8%. In Toscana siamo al -31%, benché Pisa sia in controtendenza (vd. http://www.corriere.it/scuola/universita/15_maggio_26/crisi-universita-sud-10-anni-persi-45-mila-nuovi-iscritti-2280fb48-0375-11e5-8669-0b66ef644b3b.shtml). Si è ricominciato a parlare di chiusura di qualche ateneo. La domanda è: ma perché le competenti autorità, se lo dicono, poi non lo fanno? Si assumessero delle responsabilità! Cos’è questo continuo minacciare, o tirare i sassi e poi nascondere la mano?

    (5) Ancora sulla Cultura, notoriamente “inutile”: sempre dal Corriere, dice l’OCSE che siamo gli ultimi in lettura e matematica. Del resto abbiamo avuto una sola Fields medal (Bombieri da Montepulciano) e sulla considerazione delle scienze astratte rimando al punto (3); quanto alla lettura, è un dato allarmante che anche chi scrive molto sui social media, di solito non legge e che in generale in questo paese si legge poco o punto. Ciò evidenzia anche una fragilità nell’impianto dell’educazione dei fanciulli, che si ripercuote nella fragile personalità degli adulti:

    “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.”
    (da “Il tempo ritrovato” – Marcel Proust)

  4. Rettifica. Leggo sui giornali che allora la scuola di cardiochirurgia fortunatamente non se ne va più (chiedo conferma al prof. Grasso); ma questa non è solo un’avvisaglia di quello che poteva succedere, dato che comunque in altri ambiti sta succedendo ed è già successo. Sicché il discorso di cui sopra non cambia. Tutto è bene quel che finisce bene, ma questa è una città sempre più misteriosa: leggo che si è trattato di un “mero errore materiale” (sic). Certo è singolare il modo in cui la notizia è emersa e poi è stata smentita. Sarebbe come dire: “il Belgio è stato cancellato dall’Europa, ma scusateci se non ce ne eravamo accorti: è stato solo un errore materiale al quale ripareremo prontamente”. Tutto sembra estremamente fragile ed incerto.

  5. Credere al «mero errore materiale» (per la perdita della Scuola di Specializzazione in Cardiochirurgia) è come credere che il bilancio unico dell’esercizio 2013 ha un avanzo di competenza di 6,91 milioni d’euro (https://ilsensodellamisura.com/2015/05/14/i-conti-nelluniversita-di-siena-dalle-discese-ardite-alle-risalite/). Favole! Secondo me, il rettore era a conoscenza del trasferimento della Scuola. Il clamore della notizia, specialmente in campagna elettorale, ha convinto qualcuno a correre ai ripari. Il Decreto non chiarisce e parla solo di «mero errore materiale», espressione prontamente usata dal comunicato dell’Università di Siena; facile capire chi sia stato l’artefice. Ovviamente i politicanti senesi continueranno a tacere, senza capire che il trasferimento della direzione della Scuola è solo rimandato!

    • “dequalificare la forza-lavoro per favorire un modello economico produttivo a bassa intensità tecnologica è controproducente per l’occupazione e la crescita della produttività del lavoro.” (dal sito ROARS)

      …cade a fagiuolo anche questo interessante articolo http://www.roars.it/online/universita-italiana-meglio-puntare-alla-champions-league-o-ai-mondiali/ da cui si evince che, nonostante la sola Harward abbia un bilancio pari al 44% dell’intero Fondo Ordinario nostrano, cioè del totale dei quattrini che lo Stato italiano butta nel sistema universitario, pare che la resa delle università italiane, quanto a produttività scientifica, sia, ohibò, lusinghiera ben oltre le aspettative.

      Nondimeno la tendenza generale è quella:

      (1) a svalutare sempre di più il contenuto e l’importanza della didattica (vedi articolo di Semplici qua sotto) e non vedo come possa esservi buona ricerca, se prima non vi è buona didattica a tutti i livelli. Svalutare la didattica vuol dire ritenere che tutti gli atenei siano essenzialmente researching universities, senza capire chi e dove avrebbe il compito di formare i researchers. Si intende che il tempo trascorso dai docenti nelle aule sia solo un doveroso obolo pagato obtorto collo da gente che fa altro come mestiere: insomma, tempo perso; il senso di molti corsi di studio dai nomi incomprensibili, del resto, non a caso ci sfugge.

      (2) a premiare sempre di più i grossi atenei e punire sempre di più quelli medio piccoli; ma come puoi pensare che un ateneo che perde pezzi e metà del corpo docente come Siena, col patacrack che è successo, dove non entra nessuno stabilmente a dieci anni e con 500 docenti che d’un botto vanno in pensione possa migliorare oltre un certo limite le proprie prestazioni o possa risollevarsi solo in virtù di parchi meccanismo premiali, visto che sono state minate le fondamenta?

      Si dice però al contempo (contraddicendosi) che oramai il destino di molti atenei è viceversa quello di diventare delle teaching universities. Giavazzi propose addirittura di chiudere le Università di Bari, Messina e Urbino, in ragione della loro bassa qualità certificata dalla VQR: ebbene, perché non lo fanno, chiudendo magari anche Siena visto che l’unica tendenza in atto è quella al graduale smantellamento delle strutture? A questo punto si tratta dunque di chiarire alcune cose:

      (3) se la tendenza è quella a distingure università di serie A e università di serie B, non è che ci si possa limitare a fotografare l’esistente, trasformando in condanna eterna oppure assoluzione eterna il mero dato di fatto, la fotografia dell’oggi, il dato spesso casuale, che uno si trova qui, piuttosto che là, in una situazione dove non esiste mobilità, né programmazione territoriale, imprigionato nella nave che affonda.

      La crisi degli atenei medio-piccoli, per adesso, ha provocato come effetto non lieve quello di spazzare via un generazione di (ex) giovani ricercatori: credo che oramai si guardi alla successiva, stendendo un velo pietoso su chi è stato travolto dalla valanga. A Siena, uno capitato dieci anni fa, non avrebbe comunque fatto carriera manco si fosse chiamato Einstein (nel sistema claustrofobico degli atenei “autonomi” il numero di coloro che sono stati chiamati altrove è ridottissimo); successivamente la sua sorte sarebbe stata vincolata all’alea dei pensionamenti, dei punti organico, dello scioglimento delle facoltà, dei requisiti minimi, dei corsi che vivono e che muoiono, di decisioni avvenute secondo criteri vieppiù imperscrutabili.

      (4) Non esistendo mobilità manco per gli studenti, il fatto di studiare in una università di serie A o di serie B è solo questione di quattrini: le università di serie B servono i ceti squattrinati del circondario; quelle di serie A servono i fortunati autoctoni, sempre che se lo possano permettere, più i fuorisede che possono consentirsi la trasferta, e visti i costi del mantenimento di un figliolo all’università, non si vede perché una famiglia di Vattelappesca dovrebbe affrontare spese ingenti per mandare il pargolo in una sede di serie B. Personalmente oramai conosco anzi molta gente che, sensatamente, li manda direttamente all’estero, in sedi ove si trovano quelle specializzazioni che qui non sussistono più, sostanzialmente A PARITÀ DI COSTI. E sia benedetta Ryanair.

      (5) Rileva il Presidente del Consiglio che “non possiamo pensare di portare tutte le 90 università nella competizione globale”; giusto, ma da un lato perché allora non danno seguito innanzitutto al malcelato proposito di chiuderne alcune, evidentemente lasciate oramai alla deriva, trasbordando nelle sedi più prossime docenti e discenti, come propone Giavazzi? E poi si tratta di capire qual’è lo scopo secondo Costituzione dell’istruzione superiore in Italia: tendenzialmente direi di offrire un buon livello di istruzione superiore su tutto il territorio nazionale (anche se nei fatti non è così), e non di portare avanti “pochi hub” nella classifica di Shanghai buttando il resto ai maiali: se per assurdo vi fossero in Italia solo cinque università, probabilmente sarebbero tutte e cinque eccellenti. In ogni caso si tratta di decidersi.

      Epilogo: al punto (5) ho succintamente riassunto la posizione del Presidente del Consiglio, che pur partendo da una considerazione sensata, ossia che l’Italia non può portare tutte le università ai vertici della classifica di Shanghai o altre classifiche (che non siano quella surreale del CENSIS), ma solo mezza dozzina, non ci dice con precisione cosa vorrebbe farne delle altre (ma che cacchio vuol dire “teaching universities”?), né è chiaro come potrebbe riuscire un ateneo ad emanciparsi realmente da una condizione di inferiorità che ammonta ad una condanna a vita.

      Dunque nella maggior parte degli atenei non ci si dovrà più azzardare a parlare di scienze astratte, ripiegando in modo non meglio precisato sulle “applicazioni”, che in assenza di robusti comparti di ricerca di base temo saranno intese come applicazioni di basso profilo. Del resto, su scala più ampia, è un po’ quello che succede per larghe fette dell’economia: qui assistenza e commercializzazione, mentre progettazione e ricerca avanzate si fanno altrove; ho già citato Bertrand Russell, che saggiamente osservava come la pretesa di una ricaduta immediata- domattina all’alba- delle scoperte scientifiche, finisca per distruggere assieme ricerca pura e ricerca applicata.

      Parimenti non si dovrà più parlare di Cultura (con la “C” maiuscola), ma tutt’al più di comunicazione & marketing, folclore e turismo. In questa cornice poco edificante per il tono civile e culturale del paese più ignorante d’Europa, la sorte degli atenei medio-piccoli è segnata e le loro “eccellenze”, se ve ne sono e se non verranno man mano cancellate, sopravviveranno solo se saranno in grado di confluire all’interno di strutture più ampie, tipo consorzi con altri atenei; il che chiama in causa l’infelice concetto di “autonomia” universitaria e la concezione degli atenei come monadi senza finestre: siccome, checché se ne pensi, QUESTO È L’ANDAZZO, trovo inquietante che si continui psicoanaliticamente a negare la realtà evidente.

      Mi domando (nuovamente) perché tacere su quello che costituisce il processo reale in atto, che a Siena in particolare sta producendo (a) la disintegrazione dei comparti umanistici (un solo dottorato sopravvissuto, poche magistrali, accorpamento dei corsi, la scelta poco lungimirante di non realizzare la Scuola Umanistica, per dar corso viceversa a dipartimenti stravaganti) e (b) la scomparsa gravissima ed imminente di molte aree scientifiche di base (non si è capito bene che fine faranno la Fisica e la Matematica). Un processo che non vede solo chi non lo vuol vedere: ma allora perché non metterlo a tema nell’agenda politica, discutendone apertis verbis, anziché nelle segrete conventicole? Qual’è la politica della Regione (attuale deus ex machina) e del neo rieletto presidente riguardo al destino dei tre atenei maggiori? Il silenzio assordante di tutte le altre forze politiche mi porta a ritenere che quella esposta al punto (5) sia una visione ampiamente condivisa, così come generalmente elusa è la risposta agli interrogativi che essa solleva.

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